Le dimissioni di Zingaretti da segretario del PD hanno fatto rumore e hanno spiazzato i dirigenti del suo partito. Anche per due ragioni: la loro estemporaneità, il loro carattere inatteso e, soprattutto, le parole come pietre con cui le ha motivate.
Un atto d’accusa che ha pochi precedenti nei confronti dei notabili di partito dediti a lotte di potere. È vero che, non da oggi, abbiamo imparato a non dare troppo credito alle parole dei politici.
Parole troppo spesso revocabili e contraddette. Ma, in questo caso, se quelle parole hanno un senso, a rigor di logica, ad esse possono seguire due sole conclusioni tra loro alternative: o la resa, di più, l’abbandono di un partito dipinto come respingente e inservibile o la sfida più audace e radicale, cioè la decisione di ingaggiare una battaglia volta a rifondare letteralmente il PD. A cambiare tutto o quasi.
Lo comprenderemo nei prossimi giorni, quando l’Assemblea – l’organo più largo e rappresentativo del partito – dovrà discutere quelle dimissioni e decidere se eleggere un nuovo segretario o un reggente che porti a un congresso appena possibile.
La strategia di Zingaretti
A meno che, Dio non voglia, Zingaretti si acconci a una plebiscitaria reinvestitura in quella sede, nel segno di un unitarismo che non scioglierebbe alcun nodo, svilirebbe il provvidenziale scossone riducendolo a farsa.
L’impressione va nel senso della seconda ipotesi ovvero dell’intenzione di Zingaretti di dare battaglia. Lo si evince – spero di non essere smentito – dalla contestualità tra le traumatiche dimissioni e la sua reiscrizione al PD e dalla distinzione, da lui stesso accennata, tra la base sana del partito e la sua oligarchia.
Come, attraverso quali passaggi, egli immagini di dare corso alla sua sfida, presto lo vedremo. Avrà idee, forza, determinazione adeguate a una rifondazione la cui portata al limite del possibile è inscritta nella gravi parole con le quali ha lasciato la guida del PD?
Per rispondere a tali interrogativi, è necessario fare un’osservazione e porsi due domande preliminari. L’osservazione: non si può asserire che Zingaretti abbia in assoluto fallito – egli ha ereditato un partito isolato e reduce dalla disfatta del 2018, ha arginato il suo declino elettorale nonostante due scissioni (Renzi e Calenda), lo ha riportato al governo – ma certo le dimissioni rappresentano la confessione di una sconfitta.
Le due domande preliminari all’interrogativo circa la battaglia che sembra egli voglia intraprendere: 1) qual è la radice dei problemi che affliggono il partito? 2) dove, semmai, ha mancato Zingaretti nei due anni della sua segreteria?
I limiti del PD
Mi limito a menzionare, senza svolgerli, tre problemi cruciali del PD. Innanzitutto il suo “governismo”, la sua nomea di partito “ministeriale” il suo schiacciamento sull’establishment. Intendiamoci: è l’altra faccia di quella che taluni, non a torto, gli riconoscono come una virtù, ovvero la sua affidabilità, il suo senso delle istituzioni, la sua cultura di governo. Ma come non considerare i costi di quel profilo?
Penso alla circostanza della sua assidua partecipazione a governi non espressi a valle del voto dei cittadini-elettori. Una dieta dal potere ai partiti è essenziale per contrastare la sindrome oligarchica di un ceto politico autoreferenziale. In secondo luogo e di conseguenza, la suddetta sindrome ne acuisce una seconda: il correntismo endemico e malsano. Non l’articolazione di posizioni politiche, fisiologica in un partito plurale per genesi e cultura. Ma cordate di potere personale e di gruppo, ove le appartenenze sono casuali e strumentali, non politico-culturali.
Neppure più riconducibili ai due cespiti originari: Ds e Margherita, ex Pci ed ex sinistra Dc. Non già perché sanamente oltre le vecchie sigle nel segno di una positiva contaminazione, ma per solidarietà trasversali legate a mere rendite di posizione (candidature, posti di governo).
Terzo problema, anch’esso conseguente, il più decisivo: quella struttura interna (le tribù) e quelle dinamiche (di potere) inesorabilmente retroagiscono sull’identità incerta del PD e anche sul suo deficit di appeal.
Difficilmente un partito così incistato nel potere può intercettare un elettorato in senso lato di sinistra e soprattutto nei ceti popolari in sofferenza. Nel mentre la questione sociale si fa drammatica, le disuguaglianze esplodono, le sirene populiste fanno breccia in chi non ce la fa.
Gli errori di Zingaretti
E qui veniamo agli errori commessi dallo stesso Zingaretti. Fu eletto alla guida del PD sull’onda di una larga ma generica domanda di novità dopo la debacle elettorale del PD versione renziana. Egli si contentò dell’estemporaneo consenso, ma non si peritò di aprire il partito a una riflessione collettiva – diciamo qualcosa come un congresso – che si interrogasse sulle ragioni di quella sonora sconfitta e dunque sul senso e sulla direzione del nuovo corso.
In breve, sull’esigenza di una marcata discontinuità rispetto alla stagione del renzismo. Che, comunque la si giudichi, aveva rappresentato una rottura sia rispetto alla tradizione lunga della sinistra, sia rispetto alla più ravvicinata esperienza dell’Ulivo.
L’approdo politico di Renzi a un centrismo contiguo a FI è ulteriore prova dello scarto cui si è accennato. Anche perché il contesto interno e internazionale e la fase erano decisamente cambiati: non più il mito delle opportunità dischiuse dalla globalizzazione e la conseguente retorica dell’innovazione, dei talenti, delle eccellenze, ma i costi umani e sociali che mordevano la carne viva delle persone e la connessa domanda di protezione sociale e di lotta alle disuguaglianze dilatatesi a dismisura.
Una riflessione omessa che Zingaretti ha poi scontato. Al fondo e oltre il peso dei renziani nel PD (corposo nei gruppi parlamentari a suo tempo nominati), a fare problema è l’ipoteca del renzismo nel PD. La gestione unitaria del partito ispirata ad apprezzabile disposizione inclusiva da parte di Zingaretti, tuttavia, si è risolta in una ambiguità/indeterminatezza/oscillazione di linea politica visibilissima anche dentro la crisi del governo Conte due. Quando da settori del PD si è data mezza sponda all’azione corsara di Renzi tesa ad abbattere Conte a seminare divisione nel e tra PD e M5S. Un nodo che puntualmente si riproporrà e già si è riproposto nella formazione del governo Draghi.
Da come si erano messe le cose, per il PD era impossibile negare il proprio sostegno al nuovo esecutivo, ma c’è modo e modo di starci dentro. Altro è interpretarlo come un governo di tregua, altro fare tout court dell’agenda Draghi l’agenda del PD, che invece dovrebbe coltivare un orizzonte più lungo e ambizioso.
Un partito di sinistra, certo moderno e di governo, dovrebbe traguardare oltre l’emergenza, lo stato di necessità, il paradigma liberale e tecnocratico. Anche in nome una visione della democrazia “dal basso” e non “dall’alto” (così Zagrebelsky) che si nutre di una sana competizione tra offerte politiche tra loro alternative.