Il cammino postconciliare della Chiesa italiana, anche come cammino di recezione del Concilio, si è caratterizzato, nella scansione decennale, attorno ai Convegni nazionali e agli Orientamenti pastorali che ne son seguiti. Nel 1976 Evangelizzazione e promozione umana a Roma; nel 1985 Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto; nel 1995 Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia a Palermo; nel 2006 Testimoni di Gesù risorto speranza del mondo a Verona e nel 2015 In Gesù Cristo il nuovo umanesimo a Firenze.
Insomma, non pare essere mancato all’interno della Chiesa italiana – come in quella vicentina, con il 25° sinodo a metà anni ’80 – l’esperienza della sinodalità, cioè del convenire, del discernere. Ma, allora, perché papa Francesco a fine gennaio ha chiesto perentoriamente alla Chiesa italiana un sinodo?
Perché un sinodo?
Sono stato e mi sono sentito interpellato su questa richiesta, e quindi provo a condividere una riflessione.
Credo che la risposta la si intravveda almeno da tre versanti. Anzitutto la conclusione del suo intervento a Firenze. Poi la difficoltà di un rinnovamento pastorale effettivo, sia pastorale che canonico-strutturale. E, da ultimo, la realtà del mondo di oggi, perché, lo sappiamo, non c’è testo disincarnato dal con-testo.
Cito, per il primo, la conclusione dell’intervento del papa a Firenze nel 2015: «Permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo convegno».
Quindi, dentro un cammino sinodale, con criterio pratico, ossia pastorale, guidati dall’Evangelii gaudium, per individuare e percorrere tre o quattro priorità di cui le comunità cristiane in Italia hanno bisogno. Ma non mi pare che questo sia accaduto.
Il secondo elemento lo spiego citando le parole del card. Semeraro, riportate dalla Voce dei Berici del 7 febbraio u.s.: «Una sinodalità si esprime su tre livelli: anzitutto lo stile, poi le strutture di dialogo e di ascolto, in terzo luogo gli eventi sinodali. La Chiesa italiana viene incoraggiata sulla via del convenire (…) Dobbiamo chiederci come mai son passati largamente nel dimenticatoio contenuti e percorsi non solo di Firenze 2015 ma anche di Verona 2006, (…) sinodalità, convenire, discernimento sono parole che ritroviamo persino a Palermo nel convegno del 1995, eppure oggi suonano ancora nuove: le abbiamo considerate come acqua lasciata scorrere senza assorbirla?».
Il terzo elemento: la realtà. Come uomini e come cristiani non possiamo non lasciarci interpellare dalla realtà in cui viviamo anche come Chiesa. Certo, la tentazione di scappare è forte. Ma la dinamica dell’incarnazione, test infallibile nel rivelare la differenza fra l’essere religiosi o il diventare cristiani, ce lo impedisce. E la realtà odierna ci interpella con molte questioni. Le richiamo velocemente senza pretesa di completezza o di adeguatezza.
La realtà evolve rapidamente
Viviamo in un continuo, repentino e complesso evolvere culturale, antropologico e sociale, in un mondo globale ma reso ormai locale (come dice il neologismo “glocalismo”), dove l’interconnessione nel bene e nel male non permette zone franche. Ne viene anche la questione ambientale e, come non ultima, la pandemia.
E poi, la tecno-scienza che per le enormi novità e potenzialità, da mezzo si sta sempre più imponendo come fine. Si affacciano perciò interrogativi seri, i quali fanno da sfondo alla domanda di significato (residua?), preludio necessario alla fede.
Altra questione, la sperequazione economico-finanziaria: sempre più distanti i pochissimi straricchi dalle schiere crescenti di nuovi poveri. E alla faccia del “bene comune”, la finanza basta a se stessa, in un assolo senza etica e senza indirizzo politico. C’è poi la questione del calo demografico, di cui poco o niente si parla.
Pensiamo poi alla questione migratoria, tanto complessa quanto strumentalizzata. E, da ultima ma non ultima, la questione democratica, per la quale le nostre democrazie si rivelano fragili ma veloci nel partorire involuzioni populiste e autoritarie. Peraltro, in un mondo che si è fatto piccolo, dove si evidenzia l’indispensabilità di una più marcata Organizzazione delle Nazioni Unite, ma che non pare riuscire a darsi adeguate forma, struttura e autorevolezza.
Tutte queste enormi questioni confermano la verità delle parole di papa Francesco: «Non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca».
Ora se, come cristiani, non abbiamo certo le soluzioni in tasca, occorre che ci lasciamo interpellare, pro-vocare dalla vita, cioè dalla realtà concreta, anche rinnovando un volto e una realtà di Chiesa che non può chiamarsi fuori.
Deve anzi mettersi in gioco con una dinamica missionaria, ridiscutendo se stessa, non per manie perfezioniste ma perché l’autorevolezza e la credibilità della Chiesa, nel suo esistere e strutturarsi interno come in quello missionario, sono contesto necessario perché il Vangelo possa ancora interpellare la vita di tanti uomini e donne nostri contemporanei, o comunque contribuire a seminare fraternità universale, quale vero antidoto all’indifferenza che disumanizza.
Ed è per questo che alcuni segnali di una faticosa riforma ecclesiale, grazie a Dio, ci sono. Ne fanno fede il travaglio nell’iter di riforma della Curia romana; i due ultimi sinodi sulla famiglia e sull’Amazzonia; il sinodo in corso della Chiesa cattolica in Germania; le ferite ancora sanguinanti sul corpo ecclesiale e non solo, per gli scandali sessuali e finanziari.
Ma vi è anche un altro pezzo di realtà, di vita. Più piccolo, feriale, particolare, ma concreto, che ci interpella, che mi interpella come credente, come presbitero nella Chiesa italiana e della Chiesa vicentina. Provo a tracciarne un profilo, attraverso alcuni interrogativi che non smettono di abitarmi e di tentarmi demotivandomi.
Interrogativi
Se guardo avanti anche solo di pochi anni, cinque, massimo dieci, quale il volto delle nostre parrocchie? Potremo continuare a chiamarle “comunità” se prive di una soggettività non solo storica ma capace di futuro? Se svuotate di tessuti relazionali veri, dentro Unità Pastorali sempre più grandi? Dove peraltro “pastore” resta il solo presbitero, sulle cui spalle si continua ad aggiungere senza nulla togliere.
A proposito, le suggestioni di don Luigi Maistrello (cf. SettimanaNews: Crisi dei preti: riflessioni e proposte) credo siano fondate. Basterebbe pensare agli ambiti di vita tematizzati nel 2015 a Verona: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza. Salvare il tessuto relazionale, significa in realtà salvare la possibilità di Vangelo. Certo, alcune intuizioni, come quella dei “Gruppi ministeriali” vanno in tal senso, ma non pare siano sufficienti.
E – sia chiaro – io non sono per il mantenimento della parrocchia nella sua attuale forma canonica, ma di certo non è cancellandole di fatto, né commutandole in macro-parrocchie, che si favorirà la possibilità del Vangelo nell’alfabeto delle vite. Così come non nutro alcuna nostalgia per autoreferenzialità clericali o “parrocali”.
Ma voglio alzare lo sguardo, oltre il rischio del piagnisteo: quali i carismi che lo Spirito sta suscitando per una nuova ministerialità laicale, maschile e femminile? In risposta ai bisogni delle parrocchie e per l’evangelizzazione del vivere contemporaneo?
Come, e a partire da quali carismi, anche la vita consacrata troverà rinnovata significatività?
Quale corresponsabilità laicale è necessaria e perciò da rendere praticabile, anche attraverso deleghe vere e adeguatamente tutelate? Penso, e solo ad esempio, a tutte le nostre Scuole d’infanzia parrocchiali e, ancor prima, a tutto l’ambito amministrativo-gestionale delle nostre parrocchie, in un complicatissimo marasma normativo, che viene moltiplicato dal perdurare della distinta persona giuridica di ogni parrocchia.
Quale sostenibilità ministeriale, negli anni immediati a venire, per me prete poco più che sessantenne? Come e quanto il ministero del presbitero a brevissimo dovrà cambiare per poter restare “pastorale”, sostenibile e credibile? Come e dove il ministero del diaconato permanente (unica “vocazione” in aumento) dovrà essere riconosciuto, valorizzato e cambiato ma dentro le dinamiche del ministero ordinato, nel medesimo mandato apostolico e missionario?
Come poter discernere insieme, con quale sinodalità reale e non solo formale, dentro la Chiesa locale?
Quanti preti (giovani e no) “scoppiano e scoppieranno”, avendo almeno quale robusta concausa l’“innesto” di interrogativi come questi?
Attualmente nella diocesi vicentina, 848.162 abitanti, vi sono 403 preti e 41 diaconi permanenti, ma è realistica la proiezione per cui, fra dieci anni, i preti sotto i 65 anni saranno un centinaio o poco più, di cui sotto i 45 anni una ventina, poco più o poco meno. E la nostra diocesi non è al fondo della classifica italiana per ministri ordinati!
È dunque necessario, in tempi stretti, un sinodo della Chiesa italiana dove maturino scelte concrete e norme adeguate, che ovviamente dovranno viaggiare alla pari con un aggiornamento del Diritto canonico. Scelte che dovranno mettere a tema il ministero ordinato (presbiterato e diaconato anzitutto), i ministeri laicali maschili e femminili nel “Noi” ecclesiale e le deleghe di corresponsabilità gestionale, per una Chiesa di discepoli-missionari. Quindi, per nulla autoreferenziale.
Rinviare, anche di una ventina d’anni, penso comprometterebbe marcatamente la trasmissione della fede in Italia, pur se quella del piccolo gregge.
La chiesa italiana ha davanti a sè un dilemma: o chiudersi in esigue roccaforti con pochi preti e fedeli, che difendono la dottrina strenuamente, o essere una chiesa inclusiva, che viva il vangelo e che prenda come modello il Buon Samaritano, ed essere così ospedali da campo ed essere comunità sinodali e corali.