Un’esperienza femminile di lettura collettiva delle Scritture che ha preso forma in una piccola comunità mostra una possibile ed effettiva risorsa di rinnovamento nel coinvolgimento e nella responsabilità in ordine alla crescita di un processo sinodale degno di tale nome.
A Dora Cevenini, in memoria
Alcune domande paiono inquietare i momenti più lucidi del nostro vissuto ecclesiale (e in maniera analoga del vissuto sociale).
Una prima questione verte su come poter riattivare a livello ecclesiale e comunitario – a livello personale rimane spesso palpitante e inquieto – il dialogo tra la vita delle persone e il messaggio evangelico.
Una seconda domanda – ancor più forte in un tempo in cui si sente parlare di sinodo nazionale – si interroga su come riaccendere processi effettivi di partecipazione e responsabilità nella base comunitaria che non raramente sembra estenuata e demotivata.
Un terzo interrogativo verte su quale potrà essere il futuro cammino formativo per i servizi e i ministeri ora che alcuni spiragli si aprono per una maggiore presenza femminile.
Sono domande molto ampie – anche se tra loro profondamente collegate – e non possiamo certo ambire a rispondere. Possiamo però segnalare una modalità di procedere: si potrebbe guardare intorno e osservare con attenzione tutti quei processi – spesso non veloci, non di massa e non in grado di attirare l’attenzione – che animano, qua e là, la vita delle persone e delle comunità e in cui si può trovare: un dialogo attivo e pieno di passione tra la vita e il vangelo,[1] delle modalità di attivazione della partecipazione e della responsabilità, dei percorsi di crescita del senso di servizio-ministero-comunitario.[2]
In tale direzione può dunque essere interessante ascoltare l’esperienza di un gruppo di donne – credenti e non – che, nella periferia bolognese, animate da una piccola comunità intercongregazionale di suore dorotee (Gange Lacinaj, Giancarla Barbon e Marta Lekaj) si è messa da alcuni anni in ascolto attento delle figure femminili della Scrittura. Per raccogliere tale esperienza si sono poste alcune domande a suor Giancarla. Come frutto di questo dialogo riportiamo una sintesi del racconto – talora in forma mediata, a volte in forma diretta – su questa vicenda di ascolto attivo,[3] personale e collettivo.[4]
- Come e perché è nato?
All’interno di alcuni percorsi per adulti, genitori dell’IC, legati alla comunità parrocchiale di Santa Rita è emersa progressivamente l’esigenza da parte di un piccolo gruppo di donne di «fare qualcosa per loro». Sostenuti dai responsabili della parrocchia e dal lavoro della comunità delle suore dorotee si è così iniziato un piccolo «progetto» di lettura chiamato radici bibliche di femminilità. L’inizio è stato con quattro/cinque persone a cui successivamente si sono via via aggiunte altre donne. Si è trattato di un cammino di crescita caratterizzato da una certa attenzione al contesto, da una «modalità concreta cercata insieme», adatta cioè alle persone e alle loro esigenze, «nella massima libertà» e senza bisogno di entrare in uno schema predeterminato. Ha preso così forma uno spazio e un tempo che viene percepito dalle donne che partecipano «come un tempo per noi, dove nessuno ci obbliga e qualcuno si prende cura di noi».
- Come si svolge concretamente?
All’inizio di ogni incontro c’è un momento di accoglienza semplice e informale, poi «ci si siede sul divano, per terra», dove si trova posto nel piccolo salotto della comunità che vive in un appartamento all’interno di un condominio. Il testo biblico è stato proposto in precedenza e le partecipanti arrivano dopo averlo letto a casa.
All’inizio si dice qualcosa «su quello che si è sentito», è «un commento veloce», con qualche osservazione del tipo: «mi è piaciuta», «mi ha dato fastidio», senza ulteriori commenti e spiegazioni. Finita questa prima fase, si fa una rilettura insieme e, dopo questa lettura, qualcuna della comunità delle dorotee prepara un approfondimento che dura al massimo quindici minuti. Questo commento è basato su alcuni commentari e, soprattutto, «sulla sensibilità della sorella che spiega».
I linguaggi utilizzati non sono molto teorici: a volte si utilizzano quadri, canzoni, simboli. L’uso dei simboli sembra essere rilevante; infatti «la fede non è accostabile solo con un unico linguaggio, ma vi sono altri linguaggi più evocativi, meno chiusi, più aperti che aiutano a far sì che la vita si possa incrociare con la parola». Un esempio eloquente è quando, in occasione del commento dell’episodio della prostituta Raab con la sua cordicella rossa, si sono preparate delle cordicelle, dei piccoli braccialetti o strisce di stoffa. «Lì ognuna partiva scegliendo un tipo di cordicella e spiegava perché proprio quella» aggiungendo accenni a considerazioni personali profonde.
Spiega suor Giancarla: «Quando abbiamo fatto Tamar, si è messo a disposizione una serie di veli e foulard, ognuna ne ha scelto uno e l’ha indossato. Poi hanno spiegato perché avevano scelto quel velo e perché se l’erano messo così, in quel modo. Per la regina di Saba abbiamo messo buste con cannella, noce moscata, curcuma; per Sara invece abbiamo utilizzato i vari passaggi della vita di Sara (la gelosia, l’andata in Egitto con il marito…); per Lia e Rachele il rapporto con i vari tipi di figli». Invece «per la regina Ester abbiamo usato veli, gioielli, pezzi di stoffa, ognuna delle partecipanti sceglieva qualche cosa da mettersi, ognuna sceglieva qualcosa di specifico e che sentiva adatto a sé». Per Anna, la mamma del profeta Samuele «abbiamo scritto ognuna il proprio cantico, mentre con Susanna del libro di Daniele si è verificato un momento fortissimo: sono venute fuori cose molto intense e alla fine abbiamo dato a tutte un anemone, ossia un fiore che ha resistito, come simbolo della fiducia in un Dio che ti sostiene, ti riscatta e ti fa fiorire». In conclusione dopo un ascolto – talora molto denso – si dicono alcune semplici parole di chiusura e ci si saluta mangiando qualcosa insieme.
- Dove avviene l’incontro e con quale atteggiamento?
«In una casa, in un ambiente non asettico, più caldo, accogliente dove ci si può sentire a proprio agio». C’è, infatti, bisogno di un luogo curato. La cura dice che hai a cuore le persone che arrivano, mentre «gli ambienti delle parrocchie tendono ad essere tristi e impersonali», poi qui «c’è una comunità, non dei singoli e questo ha un effetto modellante». Per lo stile dell’incontro «certo, c’è una guida, un accompagnatore che però si pone in reciprocità, in un atteggiamento di sostegno e di ascolto flessibile».
Non ci sono dei programmi quinquennali, solo la parola di Dio e la ricerca delle figure femminili – «e quindi spesso si incrociano le figure maschili» – e questo permette di leggersi come donne e di rileggere i propri ambiti di vita. Suor Giancarla afferma di cercare di «dare la parola a tutte, di non giudicare mai, di rispettare i passaggi ed i momenti di vita che le persone attraversano. Vi sono donne che hanno perso i figli (come la madre dei Maccabei, come la vedova di Nain). Si ascoltano insieme i racconti dei propri lutti», qui «si tratta di conoscere ed intuire», di comprendere lo spessore umano di donne che parlano del blocco dei propri dolori, delle proprie speranze di vita.
In questo contesto bisogna cercare di «ascoltare, ringraziare, rilanciare, dare parola, ridare parola ai silenzi, ai sentimenti espressi ed intuiti, questo clima muove le persone, infatti quando una tace sta dicendo qualcosa, non puoi dire “tu perché non parli”, […] certi silenzi sono importanti, belli».
- Come è cambiato l’incontro in questi quattro anni?
È avvenuto un progressivo cambiamento in questo periodo. Prima di tutto il cambiamento del gruppo: si è allargato, vi è stata una adesione maggiore, l’entrata di persone di varie realtà, non solo persone della parrocchia. Un allargamento avvenuto per contatti di amicizia. Vi sono persone credenti e non credenti, in alcuni casi si tratta di persone passate in parrocchia del tutto per caso o di persone che sono passate per percorsi religiosi e umani anche molto complessi, con storie talora di lunga sofferenza. «Vi sono nel gruppo donne che trovano un proprio percorso, un cammino che le sta aiutando: persone in ricerca insieme a catechiste».
Tra l’altro si può osservare come, per le persone impegnate nell’iniziazione cristiana, vi sia «stato un cambiamento nella catechesi, si è scoperto un modo diverso, meno rigido, più vicino alle persone, con una modalità più aperta e con linguaggi diversi». Pare esserci stato quindi «un cambiamento complessivo nel modo di dire il vangelo nella stessa catechesi». L’altro cambiamento si è visto negli ultimi due anni ed è stato una vera sorpresa. Negli incontri d’avvento parrocchiali si è utilizzato lo stesso metodo prestando attenzione ad una preparazione che combinasse insieme sensibilità maschili e femminili. In queste occasioni le persone del gruppo sono andate in parrocchia ed erano tra coloro che si trovavano particolarmente a loro agio nel dialogo comune, «il parroco ha sentito che c’era più energia». Si tratta di un percorso che, senza volerlo, è così rifluito sulla comunità e ha acceso la sensibilità anche per incontri comunitari più ampi.
Un terzo cambiamento: «Alla fine del secondo anno hanno fatto una cena organizzata da loro a sorpresa. È come se fosse scattato un meccanismo più reciproco»: non solo un luogo in cui essere oggetto di attenzione e cura, ma un luogo in cui essere reciprocamente attente. Per la professione perpetua di suor Gange, il gruppo si è molto attivato mostrando un senso comunitario, reciproco, pieno di cura. La lettura comune della scrittura in connessione con la propria vita ha come creato una comunità senza volerlo: una comunità di vite anche molto articolate e complesse con una osmosi tra il gruppo e la comunità parrocchiale più ampia. Un quarto cambiamento ha riguardato – anche questo senza pianificazione – le figlie. Infatti «alcune donne coinvolte sono tornate a casa e hanno raccontato e le figlie si sono chieste “perché noi, no?”.
Ha così preso forma un modo di ritrovarsi con le ragazze adolescenti delle scuole medie per fare attività molto tranquille per fare alcune letture, per preparare insieme da mangiare, non a caso il nome del gruppo è tigelle indipendenti» che secondo le ragazze coinvolte significa: «Un impasto che facciamo noi, a mano, che va bene con tutto, che parla quindi di indipendenza, non legate a un unico cibo». Si tratta semplicemente di un contesto in cui si dà spazio, si dà la parola.
- Perché è così difficile vivere processi simili? Che cosa sembra essersi bloccato?
Suor Giancarla risponde in questi termini: «L’ansia di prestazione» quando, invece, bisogna imparare ad essere «senza ansia per i numeri bassi, ci sono cose più importanti», invece spesso «si ha bisogno della struttura perché si è insicuri». «Certo qui c’è una piccola struttura – le donne della Bibbia – ma è una struttura che viene dall’ascolto. L’ascoltare non produce il caos – come spesso si pensa – e permette alla struttura di essere costantemente rigenerata. Serve certamente qualcuno che sostiene, che crede in questi processi».
In passato «mi è capitato di essere in parrocchie di un certo tipo con gelosie, concorrenze» dove si pensa che «la parrocchia è una» nel senso che tutto deve avvenire lì e si «ha paura che qualcuno prenda cose per sé», serve invece «una parrocchia che crede in queste forme e che ascolta; qui da parte dei pastori – don Angelo Baldassarri e don Sandro Laloli – c’è stata grande comprensione e collaborazione: «L’hanno valorizzata, senza enfatizzare l’esperienza», il ruolo del parroco è «stato riconoscere, ascoltare», nella convinzione che «tutto ciò che si può mettere in atto per aiutare le persone a crescere va valorizzato».
Si tratta di «un tipo di formazione per trasformazione», è il «modello del laboratorio» – non è una tecnica – in cui vi sono dei presupposti (ogni persona ha dentro cose importanti e tutto è importante, anche il fallimento, la fatica, il dubbio, il dolore). Si può cambiare per accumulo di conoscenza, per esperienza e, infine, per trasformazione ossia quando si può «tirare fuori quello che si è, e ci si lascia illuminare» in profondità, questo «provoca un cambiamento, in una trasformazione interiore ed esteriore», laddove «la vita e il racconto biblico si incrociano».
In proposito negli ultimi giorni suor Giancarla manda un eloquente messaggio: «L’incontro di ieri sera con il gruppo di donne […] il brano era l’adultera», come segno ognuna di noi ha portato «una pietra […] abbiamo condiviso pezzi di vita e di storia incredibili […] giudizi […] storie di rifiuti, di condanne per separazioni, per vicende complicate […]. È stato un incontro unico veramente toccato dalla vita e dalla Vita più grande».
Si tratta senza dubbio di una esperienza preziosa per quello che lì avviene tra le persone coinvolte e per una indicazione, per così dire, di metodo. Su questo possiamo fare un’ipotesi e una domanda conclusiva: probabilmente di esperienze con lo stesso sapore – femminili e maschili – ve ne sono molte e variamente disseminate. Non è che – per poter rinnovare l’annuncio, per reinnescare possibilità effettive di una vita comunitaria partecipata e per ritrovare percorsi di formazione «ministeriali»[5] – bisognerebbe vederle? Non bisognerebbe, forse, riconoscerle, valorizzarle, dare loro spazio «senza stravolgerle», imparare con attenzione dal loro modo di dare evangelicamente spazio e parola alle storie delle persone?
[1] Cf. F. Mandreoli, Scrittura e storia in SettimanaNews.
[2] Cf. M. Giovannoni – F. Mandreoli, Sinodalità di una comunità parrocchiale e nuove ministerialità: rilettura biblica e lettura dell’esperienza di alcune comunità, in «Orientamenti pastorali» 7-8(2020), 64-75.
[3] Cf. A. Steccanella, Ascolto attivo. Nella dinamica della fede e nel discernimento pastorale, Il Messaggero, Padova 2020.
[4] Per un esempio similare per l’attenzione all’ascolto come strutturante l’esperienza comunitaria si veda l’interessante sussidio scaricabile qui.
[5] Cf. C. Theobald, La fede nell’attuale contesto europeo. Cristianesimo come stile, Queriniana, Brescia 2021.