Il desiderio di far emergere oltre 500.000 persone immigrate dalla condizione di irregolarità sembrava potesse essere soddisfatto, almeno in parte, dalla regolarizzazione di alcune categorie di lavoratori stranieri, fermamente voluta dalla ex ministra del lavoro Teresa Bellanova, ella stessa dal passato di lavoratrice agricola ritrovatasi un tempo impigliata nelle reti del caporalato.
Il percorso per arrivare all’obiettivo ha conosciuto una serie di inciampi determinato dalla anomalia (costitutiva) della coalizione del governo “Conte 2”, nelle cui fila ancora serpeggiava l’atteggiamento ideologico del “Conte 1” – quando Matteo Salvini era Ministero dell’Interno – nei confronti degli stranieri.
Un legge nata male
Il lungo travaglio della negoziazione ha dato alla luce un dispositivo legislativo e procedurale definito dai commi 1 e 2 dell’art. 103 del Decreto-legge nr. 34, detto decreto rilancio del 19 maggio 2020. Già dalle premesse del decreto emergeva la palese inadeguatezza della risposta rispetto all’intento dichiarato.
La rigida selezione delle categorie occupazionali e la corsa ad ostacoli a cui i lavoratori stranieri venivano sottoposti per produrre la documentazione atta a stabilire la legittimità della loro istanza, conteneva, in sé, il germe del fallimento.
Il vasto mondo del lavoro sommerso veniva consapevolmente solo sfiorato, stante l’esclusione dalla regolarizzazione di altre categorie di lavoro ugualmente connotate dal lavoro di stranieri irregolari, quali nell’edilizia, nella ristorazione, nell’alberghiero, nella consegna dei generi a domicilio, nelle varie strutture turistiche stagionali.
Il comma 1 dell’art. 103 stabiliva infatti che il datore di lavoro avrebbe potuto richiedere la regolarizzazione della posizione lavorativa dei propri sottoposti nei soli settori dell’agricoltura, del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona. Il comma 2 dello stesso articolo, dava la facoltà allo straniero che avesse intrattenuto rapporti di lavoro pregressi – sempre rigorosamente nelle categorie sopraesposte – di presentare da sé la domanda di regolarizzazione. Sono stati tracciati dunque due percorsi distinti – affatto coerenti e lineari – senza considerazione elementare delle cangianti forme tipiche del lavoro nero.
In sintesi: le istanze di assunzione dei lavoratori nell’agroalimentare sommate a quelle per lavoro domestico – cosiddetto “badantato” – hanno costituito l’85% del totale, mentre le domande di emersione per lavoro pregresso sono giunte solo al 15%.
Non a tutela dei migranti
La scelta dei soggetti titolati a presentare le istanze di regolarizzazione ha evidentemente mostrato la tendenza a privilegiare, quasi a premiare, la volontà dei datori di lavoro – di per sé già inosservanti della legge – piuttosto di riconoscere ai lavoratori stessi, quasi sempre in condizione di sfruttamento, il diritto di dichiarare la propria attività (non criminale) in Italia, quindi utile al paese e ovviamente a loro stessi, per vivere.
La storia di tutte le sanatorie del passato aveva già abbondantemente mostrato come tale modalità sottoponga, ogni volta, i lavoratori stranieri a ricatti e soprusi, quale, ad esempio, il doversi accollare il pagamento dei contributi previdenziali evasi dal datore di lavoro, oltre all’assorbimento di tutti gli oneri non indifferenti dovuti allo stato, per portare a compimento la pratica di emersione.
Ancora una volta i vantaggi dell’operazione sono stati concepiti a favore chi sa fare i conti e intascare i denari sulla pelle fragile delle persone costrette a vivere ai margini della società, nel nascondimento.
La domanda viene da sé: perché un datore di lavoro – specie proprio negli ambiti del lavoro dei campi e del lavoro domestico – avrebbe dovuto regolarizzare un rapporto di lavoro del tutto vantaggioso, di sicura sottomissione del lavoratore, sborsando persino dei soldi? Infatti, gran parte di loro, pur potendo, non l’ha fatto. Chi l’ha fatto – pochi – ha scaricato i costi.
Il vizio di fondo – appunto ideologico – di affidare l’azione di emersione al datore di lavoro decreta ogni volta la malasorte di molti lavoratori impiegati in nero, non solo stranieri.
Dati di un fallimento
Dati alla mano, è facile costatare il sostanziale fallimento della operazione. Tanto se ne parlava un anno fa, tanto poco se ne parla, ora. Al 31 dicembre 2020, su 207.000 domande di assunzione in capo al comma 1 dell’art.103 del decreto in questione, sono stati rilasciati solo 1.480 permessi di soggiorno, ossia lo 0,71% delle istanze presentate.
Sempre alla stessa data, per quanto riguarda il secondo canale di regolarizzazione previsto dal comma 2 dello stesso articolo, su 12.986 domande presentate sono stati rilasciati 8.887 permessi di soggiorno, pari al 68% delle istanze.
Questi dati mostrano, con bella evidenza, che l’emersione diretta richiesta dal lavoratore risulta molto più veritiera rispetto a quella posta in capo al datore. Il numero ristretto di istanze presentate ai sensi del comma 2 mostra peraltro l’estrema difficoltà che i lavoratori incontrano nel produrre la pletora di certificazioni e di prove da addurre a dimostrazione della presenza sul territorio nazionale in data antecedente l’8 marzo 2020 (come previsto dal decreto convertito in legge): prove che vengono pretese da uno stato che ha costretto queste stesse persone a vivere, per un periodo più o meno lungo, nascondendosi dietro i muri delle nostre città, confidando in qualche anima buona (possibilmente disinteressata) per ottenere un posto sicuro ove posare il capo.
Come infatti può vivere una persona irregolare, priva di diritti di cittadinanza, che, pur lavorando in nero e avendone la possibilità economica, non può stipulare contratti di affitto, né avere un conto in banca, né accedere a servizi pubblici, compresi quelli sanitari se non in situazioni di emergenza? Queste molteplici e pesantissime difficoltà sono state aggravate pure dalla pandemia!
Una semplice riflessione sull’accaduto porta a rilevare inoltre il “non-senso” di una procedura che avrebbe dovuto mettere a disposizione – pressoché immediatamente – manodopera per le attività stagionali primaverili del 2020. È passato un anno e le pratiche – assai limitate, come ho scritto, rispetto alle potenzialità – sono ancora, in buona misura, da evadere.
Tempi così lunghi rischiano di vanificare, di fatto, pure gli effetti positivi della regolarizzazione di quelle persone che sono riuscite a rientrarvi. Consideriamo, nel mentre, l’effetto di sfiducia che i lavoratori stranieri maturano nei confronti delle istituzioni italiane, con la tentazione, già ben presente, di lasciare il nostro paese sfidando la sorte altrove, ovvero di abbandonarsi alla più semplice – quantomeno burocraticamente – condizione di pura irregolarità.
È perciò prevedibile che un buon numero di istanze non veda più le persone interessate presentarsi alle convocazioni in Questura o in Prefettura per il conseguimento del regolare permesso di soggiorno.
Sul territorio
Le ragioni addotte dal Ministero riguardo alla lentezza dell’avanzamento dei procedimenti sono state imputate alla pandemia, ai carichi lavoro degli uffici dello stato, alla carenza degli organici. Vero. Per esperienza diretta mi consento di scrivere – invece – che le procedure potrebbero e dovrebbero essere di molto semplificate.
Sin dal 2000 l’ANCI, l’Associazione dei Comuni Italiani, aveva lanciato la proposta di ancorare, appunto, ai Comuni di residenza o di domicilio le pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno. A Brescia, ad esempio, questo criterio è stato sperimentato per un periodo di tempo ed ha funzionato. L’ingolfamento degli uffici delle Questure e delle Prefetture è da addebitare ad una prassi burocratica complessa e farraginosa, affidata ancora, in buona misura, alla carta e agli archivi.
Il decentramento dei flussi presso gli uffici comunali – che dispongono peraltro di maggiori informazioni sulla condizione famigliare e sociale dei cittadini stranieri – conferirebbe maggior agio agli uffici statali. Senza dire qui dei benefici effetti – anche in termini di risparmio di tempo – di una riforma di civiltà quale potrebbe essere per l’Italia, finalmente, l’introduzione dello “Ius soli”.
Per quanto ho qui esposto, la nuova stagione delle raccolte in agricoltura sta ripresentando gli stessi problemi di approvvigionamento di manodopera della scorsa primavera e quindi lo stesso, ormai sistematico, ricorso alle prestazioni dei lavoratori irregolari.
Eppure, la “lezione” è chiara: il bacino della irregolarità può essere ridotto solo se si consente alle persone coinvolte ed interessate di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo per ricerca di occupazione, tale da poter essere facilmente e immediatamente speso in ogni ambito lavorativo.
La penuria di manodopera – in questo come in altri settori – è semplicemente causata dalla inadeguatezza della nostra legislazione in materia di immigrazione e di lavoratori stranieri, ampiamente determinata dal blocco ideologico decennale della nostra politica. È questo il primo “macigno” da oltrepassare, per il bene del nostro paese.