La Turchia si muove, recuperando gli spazi geopolitici che furono già dell’Impero ottomano. Alcuni geografi e studiosi di scienza politica turchi teorizzano il ruolo di «potenza regionale» della Turchia, come pure quello di «ponte», e quindi di fattore di congiunzione e di equilibrio: tra continenti (Asia ed Europa), tra culture, tra spinte modernizzatrici e conservatorismi di varia natura nel mondo musulmano.
Ma forse per capire la Turchia degli anni 2000, è alla vocazione imperiale che occorre far ricorso, come ha posto in una luce a volte fin troppo poetica il premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk in alcuni brillanti capitoli del suo libro su Istanbul (Einaudi, 2003). E dunque più che di raggio d’azione dello Stato anatolico, dobbiamo parlare di visione storico-ideologica del proprio spazio geopolitico. Il Mediterraneo, la penisola balcanica e quella arabica, un’Asia centrale che si spinge fino alla Cina, l’Africa.
Alla conquista dell’Africa
Già, l’Africa. L’iniziativa qui è a tutto campo. L’attenzione della Turchia per il Continente è stata sempre robusta, fin da prima della caduta del Muro di Berlino, ma ha trovato un motivo di ricomposizione e un nuovo slancio nell’Africa Action Plan, del 1998, articolato in quattro direttrici fondamentali: diplomatica, politica, economica e culturale. Una rete di relazioni ha preso dunque corpo in sostituzione di presenze piuttosto erratiche.
La stessa vittoria del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) nel 2002, e l’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdoğan come Primo ministro e successivamente come Presidente, ha dato nuovo vigore a un processo che dunque era già in atto e che oggi è nelle mani forti e al tempo stesso sensibili di una donna, Nur Sagman, che dirige il Dipartimento Africa subsahariana al Ministero degli Esteri. Conosciamo l’impegno militare in Libia, che dà a Erdoğan un potere di contrattazione con tutti gli Stati dell’Africa Mediterranea, dall’Egitto al Marocco, passando per la Tunisia e l’Algeria, senza dimenticare la fascia sahelo-sudanese, dall’Atlantico all’Oceano Indiano, con la serie di Paesi – e popolazioni multistatuali, come i Tuareg – coinvolti in via diretta o indiretta nella «bolla sahariana».
Ma significativo è pure l’attivismo diplomatico. L’Africa, conformemente alle indicazioni dell’Africa Action Plan si è riempita di ambasciate: erano 9 nel 2003, ora sono 41. La Turkish Airlines vi porta quasi ovunque, oltretutto a prezzi competitivi: 53 città, 35 Paesi. La Tika, l’Agenzia turca di cooperazione, è molto attiva per quanto riguarda non solo le emergenze, mala redazione e l’esecuzione di progetti di sviluppo economico e sociale.
Pensiamo poi ai peripli del Presidente Abdullah Gül (dalla Tanzania alla Nigeria, dalla Tunisia al Camerun) e quindi di Erdoğan, tanto come Primo ministro fin dal 2005 – Africa mediterranea, Etiopia, Sudafrica – che come Capo dello Stato – Mozambico, Madagascar, Ciad, Zambia, Mauritania, Costa d’Avorio, Guinea. E si potrebbe continuare. Le visite dei capi di Stato e di Governo ad Ankara e Istanbul non si contano nel corso degli anni. Da ultimo, il 30 gennaio scorso, Erdoğan ha incontrato in contemporanea, sul Bosforo, i Presi-denti del Senegal, Macky Sall, e della Guinea-Bissau, Umaro Sissoko Embalo.
L’irresistibile avanzata economica
Ankara gioca tra pragmatismo e ideologia le carte più disparate: dalla cultura alla religione. Ma è indubbiamente l’economia il campo di più estesa fermentazione. Erdoğan ha moltiplicato per 5 il volume degli scambi con l’Africa, portandoli da 5 a 25 miliardi di dollari tra il 2003 e il 2019. Partner privilegiati restano i Paesi della facciata mediterranea. L’Egitto, prima di tutti, con oltre 4 miliardi di interscambio: e ciò, nonostante l’appoggio dato a suo tempo da Ankara all’ex Presidente Mohamed Morsi e i rapporti attuali non proprio idilliaci con al-Sisi. Seguono quindi l’Algeria, dove operano ben 800 aziende turche, e il Marocco con volumi commerciali attorno ai 3 miliardi.
Ma l’avanzata è massiccia in tutto il continente. Alle aree di tradizionale intervento, assai delicate dal punto di vista politico-militare, come il Sudan e la Somalia, si sono aggiunte le principali economie subsahariane. Il 40% del commercio intertropicale è assorbito dal Sudafrica, dove operano decine di imprese, con una presenza di migliaia di impiegati e tecnici turchi. La Nigeria dal suo canto supera il miliardo di interscambio, di nuovo con una significativa presenza aziendale e tecnica anatolica nel Paese. Ma l’attivismo turco è avvertibile ovunque, in una forma o in un’altra. Comprese le scuole che dispensano un insegnamento privato ben apprezzato, specie incerti Paesi dove lo Stato è ridotto a un simulacro, come la Repubblica centrafricana.
In realtà, visto da Ankara, il 2020 è stato sì l’anno del Covid – con un’emergenza sanitaria che non ha risparmiato il Paese: 2,8 milioni di contagi, quasi 30.000 morti – ma è stato pure l’anno di una consolidata «conquista dell’Africa». Dal Kenya, dove penetra il fabbricante d’armi Katmerciler con i blindati Hizir per la polizia di Nairobi, alla Somalia (porto di Mogadiscio) e al Mozambico (agroalimentare, petrolio).
Una mite invasione?
Di là dalla costa orientale, tuttavia, la Turchia è ben presente altrove sul Continente. In Africa Occidentale, certo, particolarmente in Senegal e nelle due Guinee (a Conakry si contrasta la Cina, partner privilegiato del settore minerario), ma altresì in Mali e in Niger (dove si contrastano l’influenza e gli interessi della Francia). Come pure, con obiettivi diversificati, in Paesi come la Guinea Equatoriale, l’Uganda, la già menzionata Repubblica centrafricana. Ankara non grida ai quattro venti le sue ambizioni, ma non le copre neppure con le ipocrite foglie di fico a cui ci hanno abituato certe potenze emergenti, ad esempio l’India, con le retoriche dell’«invasione mite» (cf. India. L’invasione mite di Mira Kamdar, Sperling & Kupfer, 2007).
Persegue attivamente strategie di contrasto globale nei confronti delle potenze tradizionalmente operanti in Africa, mischiando con accortezza metodi e obiettivi della politica e dell’economia, facendo valere spregiudicatamente ora il proprio ruolo storico, ora la propria immagine culturale, ora il proprio potere finanziario e tecnologico.
Continuiamo a prestare scarsa attenzione alla Turchia, un attore ormai ineludibile sulla scena internazionale, deciso a giocare un ruolo di primo piano tra le grandi potenze che cercheranno di disegnare negli spazi post-pandemici i nuovi termini del gioco globalitario. Il Paese, ricordiamo, è vasto più di due volte l’Italia, con una popolazione di 85 milioni di abitanti e un prodotto interno lordo di oltre 750 miliardi di Dollari (poco meno di 10.000 dollari pro-capite). È notizia recente che Ankara sta realizzando speditamente e senza chiasso il proprio piano nazionale di immunizzazione, con forniture cinesi (SinoVac) e in base a contratti rispettati: nelle prime tre settimane ha vaccinato oltre 2 milioni di persone.
Altrettanto recentemente assistiamo al fatto che il carattere autoritario del regime turco si definisce in modo sempre più netto per molte vie, compresa una limitazione sempre più netta della libertà di stampa. Senza dire che la stretta repressiva continua: Curdi, come sempre; ma anche arresto di studenti dell’Università del Bosforo, che non accettano l’imposizione di Melih Bulu, un fedelissimo del partito presidenziale, come rettore del loro ateneo, mentre continuano le incarcerazioni di militanti LGBT.
- Angelo Turco, geografo africanista, è professore emerito all’Università IULM, già Presidente di Fondazione Università IULM. Pubblicato sul sito della rivista Confronti, 26 marzo 2021.