Ergastolo: il cadavere della speranza

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ergastolo

Il vocabolo latino ergastolum, adattato dal greco ergastérion ovvero ambiente di lavoro, indicava per gli antichi romani l’edificio, in genere il sotterraneo, per l’abitazione degli schiavi o dei condannati adibiti ai lavori agricoli. In termini figurativi l’italianizzato ergastolo evoca il luogo dove si sconta la pena, un luogo triste, che mette angoscia. Come se non bastasse, è stato poi definito “ostativo” cioè gravato da un impedimento, da un intoppo, da una difficoltà insuperabile. E si sa che «gli ostacoli destano il coraggio; gli impedimenti, talvolta, come tediosi, lo spengono» (Roubaud).

Da quando la pena di morte è stata soppressa e sostituita con l’ergastolo nel 1944, nel nostro ordinamento persiste una pena che, se non può dirsi senza scampo, è pur sempre “perpetua”. Da sempre ci si è interrogati sulla sua compatibilità con il precetto costituzionale dell’art. 27 che pone il divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti – esattamente come l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – per di più nell’ottica della “rieducazione del condannato”, ribadita l’inammissibilità della pena di morte.

La Corte Costituzionale si è più volte interrogata sulla coerenza di una pena perpetua a partire da simili principi e l’ha sempre ammessa solo in concomitanza di norme che consentono di interrompere l’espiazione a vita. In particolare, la liberazione condizionale permette all’ergastolano, che per 26 anni ha “tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento”, di vedersi aprire le porte del carcere prima della morte.

Anche nella stagione terribile dei fatti di sangue dovuti alla criminalità organizzata (mafia), quando nel 1991 Giovanni Falcone ispirò l’introduzione nell’ordinamento penitenziario dell’art. 4 bis per i detenuti e gli internati autori di simili delitti, venne mantenuta la possibilità della liberazione condizionale e di altri benefici.

Solo nel 1992, in esito alla strage di Capaci e all’escalation della criminalità mafiosa, venne aggiunto il divieto di concessione di tali benefici se l’ergastolano, oltre a ravvedersi, non avesse pure collaborato con la giustizia, così evitando le conseguenze ulteriori dell’attività delittuosa ovvero aiutando concretamente l’autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi.

Un cadavere vivente

Nasce così il cosiddetto ergastolo ostativo, quello del “fine pena mai”, quello che sant’Ignazio di Loyola ha evocato per i giorni nostri con il suo “perinde ac cadaver”: l’ergastolano – lungi dalla “incomprimibile possibilità di recupero” tanto cara al card. Martini – dovrebbe dunque morire in carcere appunto nello stesso modo di un cadavere.

E questo per il solo fatto di non essere divenuto collaboratore di giustizia, malgrado possa essere accertato con sicurezza il venir meno della sua pericolosità sociale, grazie ad un ravvedimento riscontrabile nel buon comportamento tenuto in carcere per il lungo periodo di 26 anni.

È nato da allora un contrasto – un irrisolto dibattito – tra le contrapposte posizioni di chi ha ritenuto e ritiene che non possa rispondere al principio di rieducazione del condannato il rifiuto di collaborare con lo Stato e chi obietta che, se è opportuno premiare chi collabora, non è certo consentito punire chi non collabora.

Oscillando così tra opzioni di ragione politica – quale la preservazione di ogni possibile forma di contrasto alla criminalità – e scelte di ragione giuridica per le quali la pena da espiare in perpetuo contrasta con il dettato costituzionale.

Le Corti e l’ergastolo

Dopo quasi un trentennio, due decisioni sembravano aver sciolto ogni dubbio. Nel 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato, con la sentenza n. 253, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis, laddove non permetteva la concessione di permessi premio all’ergastolano che non avesse collaborato con la giustizia, nonostante la buona condotta carceraria mantenuta per 10 anni.

Di altrettanta rilevante portata è risultata una precedente sentenza, pronunciata il 13 giugno 2019 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sul caso del mafioso Marcello Viola, che ha determinato la condanna del nostro Paese precisamente per il presupposto che l’ergastolo ostativo non rispetta la dignità umana.

Parallelamente la nostra Corte di Cassazione non solo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis circa le condizioni impeditive della libertà condizionale e la permanenza del carcere a vita nel nostro ordinamento, ma di recente, tra il 2019 ed il 2020, ha più volte dato segno di privilegiare un’interpretazione di favore rispetto al durissimo trattamento carcerario riservato a quegli ergastolani, quindi nel verso di una “progressiva attenuazione di deterrenza” del parallelo art. 41 bis.

Per comprendere la dimensione attuale del problema si deve tener presente che su 1.800 detenuti in espiazione dell’ergastolo, ben 1.271 sono soggetti a quello definito ostativo, privati della speranza di non morire in carcere.

La nuova – attesa – decisione della Corte Costituzionale è stata resa nota il 15 aprile scorso da un comunicato, in vista del deposito della motivazione dell’ordinanza con la quale la Consulta ha rilevato l’incompatibilità dell’attuale disciplina dell’art. 4 bis con gli artt. 3 e 27 della Carta.

Ma, fatta questa premessa, ha invitato il legislatore ad apportare all’art. 4 bis le modifiche necessarie entro il maggio 2022, pena, in caso contrario, la pronuncia di illegittimità costituzionale, con la quale “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136 Cost.).

La Corte Costituzionale ha giustificato tale scelta – tra l’equilibrato e il “pilatesco” – con il rilievo che «l’accoglimento immediato delle questioni rischierebbe di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata». Se il Parlamento, al quale si è voluta riservare la discrezionalità tecnica, rimarrà inerte, come più volte si è verificato in passato, la norma – ritenuta illegittima – continuerà ad essere attuata per un altro anno!

Le reazioni alla decisione della Consulta

I primi commenti – pur in attesa di leggere le motivazioni e con il massimo rispetto dovuto alla Corte – sono risultati per lo più critici. In particolare, si sono registrate le voci assai sorprese, più che perplesse, di autorevolissimi giuristi ed ex Presidenti della Consulta, quali Vladimiro Zagrebelsky e Giovanni Maria Flick.

La critica fondamentale è puntata sul fatto che resti in vigore una legislazione incostituzionale, con la chiara osservazione che una norma o è incostituzionale oppure non lo è. A questo proposito si è ricordato che «la Corte è chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi, non certo sul loro inserimento adeguato nel sistema di contrasto alla criminalità»: una cosa è definire la norma, altra cosa è attuarla.

Nel merito si è poi lamentata la mancata presa in considerazione dei due dati centrali del problema: il lungo tempo di decorrenza – 26 anni – e le ragioni che possono aver indotto il detenuto a mantenere il silenzio; questo è infatti un diritto che fa a pugni col dovere di collaborare per non veder peggiorata – non mantenuta! – la pena subita. A suggerire la non collaborazione possono essere, ad esempio, ragioni di sicurezza dei familiari.

Le critiche mi sembrano da condividere più degli elogi riservati alla tecnica “equilibrata” adottata dalla Corte. Ma il rischio del “limbo giuridico” determinato da tale ordinanza fa almeno pensare che si possa finalmente aprire il dibattito sulla necessaria riforma della pena dell’ergastolo.

La morte della speranza

Un noto ex magistrato, già presidente della Corte di Assise di Torino, il dott. Elvio Fassone, ha speso parole importanti in questa direzione, così riassumibili: «l’ergastolo ostativo non è solo una pena più lunga delle altre. È la morte della speranza».

Nel suo libro Fine pena: ora (Sellerio), il dott. Fassone racconta del rapporto avuto con un giovane di 27 anni, Salvatore, mafioso e omicida, condannato appunto all’ergastolo dalla Corte da lui presieduta. Si è sentito dire: «Presidente, lei ce l’ha un figlio? . . . volevo dirle che se suo figlio nasceva dove sono nato io, magari a quest’ora lui era nella gabbia al posto mio, e se io ero nato dove è nato suo figlio a quest’ora facevo l’avvocato».

Dopo aver intrattenuto corrispondenza con Salvatore per oltre 30 anni, Fassone riflette: «in quella frase lessi quasi la nostalgia di non essere mio figlio».

Non è qui certo questione di scordarsi di Abele per privilegiare Caino, di eccedere in un buonismo privo di concretezza. Il nodo è un altro: c’è il tempo del delitto e c’è il tempo dell’espiazione. I piani sono completamente diversi. Nel tempo di sofferenza dell’espiazione soffocare la speranza con il termine finale “mai” non consente di comprendere come le pene possano considerarsi ispirate «al senso di umanità e … tendere alla rieducazione del condannato».

Da giurista cattolico – più semplicemente da cristiano – mi chiedo come si possa “buttar via la chiave”, dopo aver almeno socchiuso la porta della cella quale riconoscimento del sempre possibile ravvedimento. Non posso accettare che si sopprima la dote della speranza umana nell’umanità.

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