Interessarsi della riforma della Chiesa e proporla non porta fortuna, almeno a osservare la storia degli ultimi due secoli ricordando Rosmini, Fogazzaro, Mazzolari e Lercaro, accomunati tutti da dolorose forme persecutorie dall’Indice all’emarginazione o alla rimozione.
Storie dolorose
Rosmini nel suo Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) segnalava, tra l’altro, l’insufficiente educazione del clero, i condizionamenti dei beni ecclesiastici e la nomina dei vescovi, problemi ancora aperti nel tempo presente, sebbene in altra forma. Infatti, oggi non è più questione di un percorso di studi, ma di una proposta teologica adeguata ai tempi e alle culture, mentre la gestione delle proprietà della Chiesa continua a essere un peso, talvolta non senza scandali, e un impedimento alla stessa evangelizzazione.
E, se la nomina dei vescovi non è più in mano al potere politico, il sistema di selezione attualmente in vigore mostra più di qualche criticità e lascia spazio a cordate di adepti, ad associazioni e movimenti. Il suo libro fu posto all’indice e lui condannato dopo morto.
Non diversa fu la sorte di Fogazzaro e del suo romanzo Il Santo (1905) nel quale il protagonista, Benedetto, rivolgendosi al papa, denunciava la presenza di quattro spiriti maligni che avevano fatto ammalare la Chiesa: gli spiriti di menzogna, dominazione del clero-nomina vescovi, ricchezza-avarizia, immobilismo.
Anche questo libro fu messo all’Indice e l’autore designato, quasi certo, del Nobel per la letteratura lo perse indirettamente per essersi sottomesso alla condanna. Questi spiriti dopo oltre un secolo pare che godano ottima salute.
Anni dopo, nel 1933 – il fascismo, all’apice, sembrava non sarebbe mai crollato –, Mazzolari scrisse alcune pagine, Rapporto su Chiesa e fascismo e prospettive future, in cui, incredibilmente convinto che ci fosse un domani diverso dalla dittatura, lanciò un appello a una vera libertà della Chiesa che è anche un programma di «responsabilità sociale, ispirato e avente come termine la fraternità evangelica che oltrepassa ogni audacia di pensiero umano».
Ma aggiungeva, disarmando qualsiasi pretesa di occupazione della società e di regime di collateralismo: «Non vogliamo nulla in dono. Anche le cose più giuste ce le vogliamo guadagnare […]. Il primato dello spirituale, che il cristiano afferma come il postulato primordiale della propria fede, ci mette in libertà di fronte a tutto il temporale, senza sprezzo, senza altezzosità, ma con fronte deferente e gioiosa disposizione verso quanto è bello e gioioso».
Scampato per miracolo alla persecuzione fascista, Mazzolari incappò negli anni ’50 in quella del Sant’Uffizio con numerosi provvedimenti disciplinari fino alla soglia della sospensione a divinis, da cui lo salvò indirettamente papa Giovanni XXIII e certamente la morte.
Anche il vescovo di Bologna, il card. Lercaro, durante il Vaticano II ripensò la Chiesa e il suo ruolo nel mondo e ne reclamò una reale povertà non solo nei termini economici, lo considerava fatto ovvio, ma anche culturali. Nel suo intervento del 4 novembre 1964 sullo schema XIII sostenne: «Pregiudizialmente la Chiesa deve riconoscersi culturalmente povera e voler essere coerentemente sempre più povera. Non parlo qui della povertà materiale, ma di una speciale applicazione della povertà evangelica proprio al campo della cultura ecclesiastica. Anche in questo campo – come in quello dei beni e delle istituzioni patrimoniali – la Chiesa conserva tuttora certe ricchezze di un passato glorioso ma forse anacronistiche. La Chiesa deve avere il coraggio, se è necessario, di rinunziare a queste ricchezze o almeno di non presumere troppo di esse, di non vantarsi e di confidarvi sempre più cautamente: possono non porre sul candelabro, ma nascondere sotto il moggio, la lampada del messaggio evangelico e possono impedire alla Chiesa di aprirsi ai valori veri della nuova cultura o delle culture antiche non cristiane, limitare l’universalità del suo linguaggio, dividere anziché unire, escludere molti più uomini di quanti non ne attirino e ne convincano».
Sono parole scritte anche per l’oggi. Ma l’omelia del 1° gennaio 1968, 1ª Giornata della pace, nella quale condannò la guerra senza condizioni, scatenò l’ira degli USA, impegnati a compiere stragi in Vietnam, e l’azione dei suoi oppositori dentro e fuori diocesi che non volevano una Chiesa che attuasse veramente il Concilio: le sue dimissioni per limiti di età furono repentinamente rese operanti. L’omelia della pace fu redatta in buona parte da Giuseppe Dossetti, suo stretto collaboratore e protagonista della storia civile ed ecclesiale.
Sei vie per la riforma
Proprio un riferimento libero alla riflessione di Dossetti può aiutare a individuare alcune vie importanti per la Chiesa, ne ricordiamo qui sei.
Una prima via è, letteralmente, evangelica. «Il vangelo: che i preti e i laici, senza differenze […], si immergano nel Vangelo. Questo lo dico con una particolarissima e specifica insistenza, anche quantitativa: leggerlo, leggerlo, leggerlo, […] in un rapporto continuo, personale, vissuto, creduto con tutto l’essere […]. Ascoltare il Vangelo così com’è, senza glossa, come diceva Francesco […]. È di una profondità infinita, inesausta e inesauribile. E continuamente ci plasma, ci sostiene, ci forma, ci crea, come cristiani prima di tutto» (Dossetti). Si tratta della ricerca del volto di Gesù, del suo modo di sentire, vedere il mondo e scegliere.
Questo implica una seconda via, ossia l’assunzione di un’opzione interpretativa fondamentale che rilegge il Vangelo, la tradizione cristiana e la vita della Chiesa nel senso della misericordia: «Due logiche percorrono tutta la storia della Chiesa: emarginare e reintegrare […]. La strada della Chiesa, dal Concilio di Gerusalemme in poi, è sempre quella di Gesù: della misericordia e dell’integrazione. Questo vuol dire […] non rimanere a guardare passivamente la sofferenza del mondo».
Tale prospettiva è l’asse principale su cui la comunità cristiana è chiamata a muoversi: «La strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di effondere la misericordia di Dio […]; la strada della Chiesa è proprio quella di uscire dal proprio recinto per andare a cercare i lontani […], quella di adottare integralmente la logica di Dio; di seguire il Maestro che disse: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Lc 5,31-32)» (papa Francesco).
Un terzo snodo implica la prossimità, la vicinanza – non paternalista – alla povertà, alla nostra fondamentale mendicità (Buonaiuti) e alla vita dei molti che sono sfiniti, vinti e umiliati. Per sperare di comprendere Dio che siede accanto al povero (Sal 108,31) è necessario assumere lo stesso atteggiamento: «Un giorno qualcuno ha detto: i poveri li avrete sempre con voi; non certo per rassegnarsi al peggio, ma per inventare, con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è, in definitiva, espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza» (don Paolo Serra Zanetti).
Un quarto snodo fondamentale è la via del cuore. Si tratta di un lavorio per avere un cuore che ascolta (1Re 3,9) ossia l’ingresso, personale e collettivo, in un processo di apprendimento rinnovato delle vie dello spirito nell’anima umana, del modo di riconoscere i segni di Dio tra le vicende complesse ed estremamente dolorose della vita delle persone. Un lavorio fatto di ascolto, capacità di revisione, disponibilità a imparare dai propri errori, coraggio per non fuggire le notti della vita. Le intermittenze del cuore e le infinite sbavature umane richiedono una nuova sapienza capace di decifrare il bene tra gli itinerari spezzati e i timidi germogli di speranza.
Fa parte di tale lavoro interiore la coltivazione di un’antropologia cristiana “che cerca” sentieri per dialogare con le molte antropologie e questioni umane del tempo. Tale ricerca di una sapienza interiore capace di letture attente dell’umano è davvero tra i compiti prioritari di una riforma ecclesiale. In tale quadro un quinto snodo è decisivo: il fallimento educativo globale segnalato dallo scandalo degli abusi ha messo in crisi ogni immagine di Chiesa come societas perfecta e ha mostrato che vi sono problemi sistemici che portano ad abusi di potere, di coscienza e fisici.
Questo significa avere il coraggio di ripensare (Rosmini) dimensioni profonde della vita della Chiesa tra cui: le modalità – manifeste e sotterranee – di esercizio del potere, la pervasività di un modo irrigidito e monolitico di utilizzo del diritto canonico, una cultura fondamentalmente patriarcale che giustifica l’esclusione delle donne dal poter avere una parola autorevole nella Chiesa, una prassi liturgica spesso devitalizzata.
Fa parte di questo ripensamento delle strutture ecclesiali l’urgente uscita dalla rappresentazione clericale della Chiesa e la conseguente revisione delle forme concrete – di accesso e di esercizio – del ministero ordinato che richiedono maggiore duttilità per un annuncio del Vangelo che sia capillare e che sappia di autenticità e libertà.
Infine, un sesto snodo verte sulla dimensione contemplativa della vita, che – se autentica – ha molte conseguenze concrete e storiche. Si tratta del riconoscere, valorizzare, far crescere i segni del Regno di Dio ossia la presenza nascosta del vangelo nelle pieghe della vita e della storia. Osservando la vita della Chiesa nel nostro tempo talora si ha l’impressione che vi siano molte risorse di persone e di passione e sensibilità bisognose di non essere soffocate ma riconosciute. Talora per l’incapacità di accettare cambiamenti profondi o perché distratti in progetti effimeri e mondani, la Ecclesia perde vita, energie, persone, ricchezze.
C’è bisogno di una nuova cultura dell’ascolto, del dare la parola, del far spazio che, in fin dei conti, è ciò che fa assomigliare la comunità ecclesiale al messia Gesù: infatti «il ritorno di Cristo segnerà il compimento di tutte le traiettorie umane, al termine dei loro incontri, intersecazioni, polemiche, riconciliazioni, avventure che il Risorto avrà accompagnato con il suo Spirito, sia per favorirne il dispiegarsi divino-umano, sia per riparare, con una pazienza inesauribile, i passi falsi, gli eccessi e forse anche le timidezze» (Lafont).
Fabrizio Mandreoli è docente di Storia della Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna. Sergio Tanzarella è docente di Storia della Chiesa presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale. Tratto da: Adista Documenti n° 16 del 01 maggio 2021.
Complimenti agli autori di questo articolo e in particolare per le vie indicate alla fine dell’articolo. Serve una chiesa meno “Istituzione” e più aperta “allo Spirito” e, come affermava papa Giovanni XXIII, più attenta ai “segni dei tempi”.
E’ la voce dello Spirito che parla attraverso il Vangelo di Cristo che diventa luce per il cammino di ogni battezzato e credere maggiormente nella sua azione. E’ bene riscoprire e rileggere un libro di Adrien Nocent, che porta questo titolo: “Liturgia semper reformanda”. Questo è un adagio da diffondere, non solo nel campo liturgico, ma anche negli altri due “munus” della chiesa. Ergo: “Chiesa semper reformanda”, altrimenti rimane ibernata e poco credibile.
Mah, sono veramente perplesso…soprattutto delle ‘vie’ indicate alla fine, i sei ‘snodi’. Mi sembra tutto molto, troppo clericale. La vera riforma sarà immettere nella Chiesa un po’ di sana cultura dell’organizzazione. Procedure trasparenti, verifiche, fine della assoluta discrezionalità su tutti gli aspetti dei rapporti, da quelli di lavoro alla gestione dei gruppi e via dicendo. La Chiesa non è un’azienda, certamente. Però neppure un insieme che va avanti senza sapere perché e come, affidandosi allo Spirito. Che poi lo Spirito è spesso un’etichetta per coprire inefficienze, rivalità, problemi, manipolazioni. Soprattutto la manipolazione è in agguato, e va di pari passo al ‘potere spirituale’ che spesso si trasforma in abuso di potere nel migliore di casi e abuso di altro tipo nel peggiore. Cultura organizzativa ispirata al Vangelo, il resto sono chiacchiere un po’ poco utili! Grazie
E certo! Un po’ di sana valutazione ex post di ció che si fa non puó che fare del bene, se no il parlare di ‘piccolo gregge’ rischia di ridursi a una mera autogiustificazione. Anche la famiglia non é un’azienda, ma i conti di fanno e a farli si educano i figli, conti economici e non economici, ma conti restano.
E poi (so di essere traviata dagli sceneggiati visti da bambina) citare Fogazzaro e non Elisa Salerno…