Non so se la professoressa che ha fatto bendare una sua alunna con una sciarpa, per essere ben sicura che non sbirciasse gli appunti, ritenesse questa una metodologia innovativa o una di quelle “pratiche sperimentate con successo” che il Ministero dell’Istruzione, nel suo documento “Didattica a distanza e diritti degli studenti” del 6 aprile 2020, chiedeva ai docenti di raccontare e condividere, in modo che potessero “diventare patrimonio condiviso della comunità educante nello spirito di collaborazione, fiducia reciproca e responsabilità” che dovrebbe guidare gli operatori della scuola.
Non so neppure se la diffidenza dell’insegnante nascesse da precedenti tentativi di inganno oppure dal fatto che fino a quel momento le risposte dell’alunna erano state superiori alle aspettative di una prof. da troppo tempo abituata alla frustrante mediocrità dei suoi allievi: troppo brava, troppo sicura… doveva esserci sotto qualcosa…
La scuola che conosciamo
In entrambi i casi emerge l’immagine di una scuola che è quella che tutti più o meno abbiamo conosciuto e che corrisponde ai ricordi che conserviamo e che ancora riaffiorano, talvolta, dopo tanti anni, in sogni angosciosi… Una scuola che valorizza i voti più di quanto gli studenti valorizzino lo studio, una scuola dove il prof interroga e gli studenti cercano di cavarsela, copiando o suggerendo, a seconda dei casi, senza farsi sorprendere da lui…
Eppure non è questa la scuola di cui parlano i media in questo periodo, quella di cui i ragazzi hanno chiesto con forza la riapertura, quella che, rimanendo chiusa, ha sottratto ai ragazzi l’alimento più importante per la loro crescita: la relazione con i compagni e con gli insegnanti. Una relazione che la DAD (didattica a distanza o più propriamente, come dicono gli esperti del settore, didattica aumentata digitalmente, ma, ancora più propriamente, come dicono quelli che l’hanno vissuta per tanti giorni, docenti e alunni depressi) non riesce a rimpiazzare.
Viene in mente Lettera a una Professoressa: «Dopo l’istituzione della scuola media a Vicchio arrivarono a Barbiana anche i ragazzi di paese. Tutti bocciati naturalmente. Apparentemente il problema della timidezza per loro non esisteva. Ma erano contorti in altre cose. Per esempio, consideravano il gioco e le vacanze un diritto, la scuola un sacrificio. Non avevano mai sentito dire che a scuola si va per imparare e che andarci è un privilegio. Il maestro per loro era dall’altra parte della barricata e conveniva ingannarlo. Cercavano perfino di copiare. Gli ci volle del tempo per capire che non c’era registro» (p. 14).
Il fine onesto della scuola
Poco più avanti nella Lettera, quegli stessi ragazzi, guidati dal loro maestro che tossiva ormai quasi ad ogni parola, lanciavano alle generazioni di studenti e insegnanti che si sarebbero succedute nel tempo, fin dentro alle aule con LIM, Pc e Didattica digitale, quel “Cercasi un fine. Bisogna che sia onesto. Grande.
Un invito meno citato, ma altrettanto fondante del più famoso «I care». Uniti insieme sono la stella polare di un viaggio che ha per mappe il Vangelo e la Costituzione e per meta la formazione di giovani cittadini capaci di esercitare la sovranità insieme agli altri e di cercare il bene comune.
Se invece l’unico fine della scuola è il voto, la priorità diventa allora il «trasferimento funzionalistico di contenuti specialistici» (Luca Pesenti) che l’alunno deve poi saper fedelmente riferire, senza barare attaccando post-it ai lati del monitor o dentro l’astuccio, a seconda della situazione. Il voto determina il valore dello studente ed è il lasciapassare per una promozione che consentirà un’estate più serena, permessi e paghette più abbondanti da parte dei genitori e l’uscita tanto desiderata dal percorso scolastico.
Il voto diventa così decisivo che può anche arrivare a creare tensioni tra i ragazzi per i quali la valutazione dei professori non è mai giusta e mostra chiaramente che “loro” fanno delle preferenze, in genere non del tipo di quelle che si facevano a Barbiana: «Chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti» (p. 12).
Qui si parla di scuola dell’obbligo e dell’importanza di tenere in considerazione il livello di partenza degli alunni, offrendo a chi è in situazione di svantaggio un di più di scuola, ricordando che è decisamente ingiusto “fare parti eguali tra diseguali”. Anche tra i ragazzi dei cicli successivi si verificano tuttavia situazioni di diseguaglianza che richiedono attenzione, interventi mirati, soprattutto cooperazione tra gli studenti.
La proposta di tenere aperte le scuole quest’estate offrendo laboratori, incontri, lavori di gruppo, circolazione della parola, corsi di varia natura, compresi recuperi di argomenti scolastici poco approfonditi, ha proprio lo scopo di colmare quelle differenze che la pandemia e il confinamento hanno svelato in quanto erano certamente preesistenti, ma ben nascoste dentro le case prive di connessione internet e dove convivono più figli in età scolare.
A tutti, poi, un’estate di attività strutturate potrebbe offrire l’occasione di sperimentarsi in «uno spazio fisico, corporeo, di relazioni faccia a faccia in cui si coltiva l’alterità rispetto all’esistente, grazie al respiro di quei larghi e significativi orizzonti che si aprono quando si padroneggia la parola e si ricevono grandi consegne e tradizioni; (…) un luogo in cui si offrono, contro il vuoto e il virtuale, testi e messaggi che ci segnano e ci fanno crescere in umanità; contro il conformismo accomodante, il necessario urto perché possano svilupparsi singolarità e capacità critica; contro il sotterfugio e l’arrivismo, la lealtà e l’altruismo; contro il qualunquismo, la politica nel senso dato a Barbiana (“Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è politica, sortirne da soli è egoismo”); contro la rassegnazione, la speranza; contro la ricreazione continua che intontisce, l’intensità e la gioia di un paziente lavorio che permette di ri-trovarsi con verità» (Maurilio Assenza, direttore della Casa don Puglisi di Modica).
Sono parole che attualizzano quanto don Milani scriveva in Esperienze Pastorali: «Ed ecco toccato il tasto più dolente: vibrare noi per cose alte… E non vedremo sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale. A qualcosa, cioè, che sia al centro del momento storico che attraversiamo, al di fuori dell’angustia dell’io, al di sopra delle stupidaggini che vanno di moda» (p. 241).
Ristabilire quindi la natura aperta della comunità scolastica, ritessendone i legami, costruire un nuovo immaginario di una scuola che non serve solo a dare voti e giudizi e coltivare nuovamente la fiducia nella relazione tra insegnanti e allievi, ricordando che la cultura del sospetto non rientra negli obiettivi della scuola… piuttosto è preferibile interpretare con benevolenza e fiducia l’atteggiamento di uno studente, anche a rischio di essere giudicati ingenui. Ma questo è spesso il prezzo dell’amore.