Il 6 maggio è ricorso il 45° anniversario del terremoto del Friuli. Ricordarlo oggi non è un semplice atto di commemorazione – non lo è perché dai soccorsi alla ricostruzione, quella del Friuli degli anni ’70-’80 è la storia di come si reagisce, gestisce ed esce da una crisi. Certo, più circoscritta di quella che stiamo vivendo oggi, ma comunque istruttiva per l’oggi del nostro paese.
Non può essere una commemorazione, perché solo questo è il modo degno di onorare le vittime come coloro che sono ancora tra noi. Se e quando usciremo dalla crisi della pandemia, dovremo impegnarci come popolo e paese non solo a non scordare lo sterminio di persone prodotto dal Covid, ma anche a trovare forme memoriali adeguate per sentite ognuna di loro ancora tra noi. Le vittime parlano sempre al presente e al futuro di un paese.
Non è una commemorazione perché quanto accadde in Friuli e in Italia dopo quel terremoto rappresenta un modello di solidarietà nazionale che abbiamo troppo presto dimenticato e sepolto sotto interessi di spartizione partitica e di burocrazia incompetente – quando si tratta di gestire una crisi. Fu intorno alla persona di Giuseppe Zamberletti, Commissario straordinario del governo incaricato di gestire soccorsi e ricostruzione, che si sviluppò un modello virtuoso di rapporti istituzionali tra governo, parlamento, regione, province e comuni locali. Rapidamente, Zamberletti provvide a trasferire la delega dello stato alla regione e ai comuni. Di particolare importanza fu la delega ai sindaci per ciò che riguardava gli interventi nei loro comuni.
Si trattava di un gruppo di sindaci giovani e appena eletti (1975), per questo Zamberletti decise di affiancare loro dei militari che li coadiuvassero negli aspetti tecnici e logistici dei primi interventi.
E tutti si misero a lavorare, preoccupati di dare sepoltura degna ai morti, soccorrere i feriti, prendersi cura dei superstiti, e pensare nel cuore dello sconquasso al domani dei paesi distrutti. Questa virtuosità di intrecci fra territorio, responsabilità locali e nazionali, competenze tecniche umane e spirituali come forma di intervento dello stato e delle istituzioni locali è stata chiusa in un cassetto e mai più tirata fuori. Da un anno a questa parte ci avrebbe fatto un gran comodo, e lo spettacolo mediatico a cui stiamo assistendo da mesi, con governatori che non hanno una linea e sanno solo dire il contrario di quello che viene da Roma, dice la misura del corpo politico a cui abbiamo affidato il territorio in cui viviamo.
Anche per la Chiesa italiana quel terremoto rappresentò una sorta di tornante epocale: fu la prima grande crisi nazionale che vide scendere in campo civile una Caritas nata da pochi anni (1971). Le Caritas diocesane del triveneto si radunarono rapidamente nella Venezia di Albino Luciani insieme a mons. Giuseppe Pasini, allora segretario generale di Caritas italiana.
Da quella riunione nacque non solo il coordinamento dei volontari, più di 16.000 quelli che si alternarono nelle zone colpite dal sisma nelle varie fasi di intervento; soprattutto si mise mano all’esperienza dei gemellaggi tra la diocesi italiane e le parrocchie colpite “come strumento di solidarietà e accompagnamento in modo da assicurare sostegno morale ed economico per tutto il tempo dell’emergenza”.
Ogni tanto il potere spirituale della Chiesa è più saggio di quello temporale dello stato. La Caritas fece tesoro di quell’esperienza, prendendo e sviluppando il modello dei gemellaggi fino a “farlo divenire elemento portante della sua azione in occasione di tutte le successive emergenze nazionali e internazionali”.
Troppe volte, come paese e come Chiesa, dimentichiamo che possiamo imparare dalla nostra storia, che i cassetti impolverati custodiscono tesori preziosi per far fronte alle sfide e ai drammi di oggi.