Siria: armi chimiche ed elezioni

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La storia del villaggio siriano di Ltamenah non ha nulla di diverso da quella di tante città e villaggi della Siria: l’aviazione siriana, nel 2017, l’ha attaccato con agenti chimici.

A Ltamenah sono stati sferrati tre attacchi, un fatto che purtroppo non ha alcuna originalità nella guerra di Siria. Ad Aleppo, ad esempio, solo nel dicembre del 2016 sono state denunciate numerose aggressioni con prodotti chimici tossici e ustionanti a base di cloro, soprattutto nei giorni conclusivi l’assedio. In totale gli episodi di uso di armi chimiche attribuiti al regime siriano dal 2011 da parte del Global Public Policy Institute assommano a 336, mentre sono almeno 50 le circostanze rilevate – come affermato sin dal 2018 da parte del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.  Ma occorrono le prove.

Un regime contro il popolo

Proprio questo rende diverso il caso di Ltamenah, diverso da quello di Aleppo e da numerosi altri, perché proprio a Ltamenah gli ispettori dell’ONU hanno potuto rintracciare elementi a lampante carico del regime siriano. Così dal 21 aprile di questo anno è avvenuto che, per la prima volta nei 24 anni di storia dell’OPCW – l’Organizzazione per Proibizione della Armi Chimiche -, un Paese membro, ossia appunto la Siria, perdesse il diritto il voto in seno alla stessa Organizzazione.

La decisione è stata adottata, su proposta della Francia, con la necessaria maggioranza dei due terzi degli stati membri, nonostante il voto contrario di Russia, Cina e Iran.

Ltamenah ha aperto un’epoca nella storia del conflitto siriano? Forse sì. Il 7 maggio scorso è stata infatti presentata una relazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU da Niruzi Nagamitsu, Alta Rappresentante dell’ONU per gli affari relativi al disarmo.

La sua relazione ha indicato elementi comprovanti un attacco chimico che ha avuto luogo nella località di Saraqib e ha denunciato la scoperta di ingenti quantitativi di gas ad uso di morte rinvenuti nello stabilimento di Barzah. In assenza di chiarimenti soddisfacenti da parte delle autorità di Damasco, la signora Niruzi Nagamitsu ha definito la situazione intollerabile.

Ricordo che dopo una violazione degli accordi sull’uso di armi chimiche avvenuta nel 2013 – dopo la strage della Ghouta (di cui dirò tra breve) – la Siria si era impegnata al disarmo e alla distruzione dei propri arsenali venefici.

La signora Niruzi Nagamitsu ha peraltro affermato che l’agente chimico rinvenuto a Barzah non figurava tra gli agenti di cui il regime aveva riconosciuto il possesso nel 2013. Dunque, potrebbe trattarsi di un nuovo agente appositamente prodotto, non certo di scorte di magazzino non dichiarate.

Circa la situazione relativa alla produzione di armi proibite nello stabilimento di Barzah, è atteso ancora un report nei prossimi giorni. La questione non si ferma tuttavia ai palazzi dell’ONU. Infatti – sempre il 7 maggio – l’amministrazione Biden ha protratto di un ulteriore anno le sanzioni contro personalità e istituzioni siriane già decretate dall’amministrazione Trump: un atto che conferma, in maniera molto significativa, la convergenza di valutazioni sul regime di Bashar al-Assad.

La comunità internazionale

Non ci sono solo gli Stati Uniti. In Svezia quattro Organizzazioni non governative hanno depositato una richiesta di incriminazione del regime siriano, accusando le autorità di Damasco – incluso Bashar al-Assad – di aver fatto uso di armi chimiche nella provincia di Idlib, a Khan Sheikoun nel 2017. Si tratta di ONG quali Syrian Centre for Media and Freedom of Expression (SCM), Civil Rights Defenders, Syrian Archive (SA) e Open Society Justice Initiative (OSJI): si basano sulle denunce dei parenti delle vittime degli attacchi chimici e si incardina sulla legislazione svedese che consente il giudizio di simili reati indipendentemente dal luogo ove siano stati commessi. Le investigazioni sono in corso: appare tuttavia già del tutto evidente come gli sviluppi all’ONU rafforzino la posizione delle quattro ONG.

Si viene a comporre dunque, con sempre maggior precisione, un quadro di gravità inaudita, anche alla luce di quanto affiorato a Coblenza, in Germania, ove è già stata emessa una prima condanna di esponenti del regime per crimini contro l’umanità. Analoga iniziativa giudiziaria è stata intrapresa in Francia, sempre per iniziativa di parenti di vittime siriane.

Bastano azioni nei singoli stati? Per orientare la discussione sul futuro occorre tornare all’agosto del 2013, alla strage chimica della Ghouta, che ormai è riconosciuta da quasi tutti i soggetti indipendenti di precisa responsabilità del regime siriano. Quel massacro è costato la vita a 1.429 civili, tra i quali 426 bambini.

Dopo quel tragico evento il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, propose un’azione militare contro il regime di Damasco. Aderì il premier britannico Cameron (ma il 28 agosto il Parlamento britannico bocciò la proposta con 285 voti contrari e 272 a favore). Barack Obama, in base all’ordinamento americano, non aveva bisogno di autorizzazioni dal suo Congresso per poter procedere. Egli stesso aveva definito l’uso di armi chimiche “una linea rossa invalicabile”. Fece sapere però che avrebbe chiesto l’assenso del Congresso: lo annunciò con un discorso ufficiale a fine agosto.

All’Angelus del 1° Settembre intervenne papa Francesco, dicendo: “Rivolgo un forte appello per la pace, un appello che nasce dall’intimo di me stesso! Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese (la Siria), specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi!

C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza! Con tutta la mia forza, chiedo alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione”.

Il 5 settembre Francesco scrisse al presidente russo Putin nella sua veste di Presidente di turno del G8, riunito in quei giorni, per scongiurare interventi militari e porre termine ai massacri.

Da molti è stato notato che a quel tempo l’Isis era ancora un’organizzazione embrionale, non ancora insediata in Siria. É significativo ricordare che alla fine del 2011, precisamente il 9 ottobre di quell’anno, quando divennero insistenti le proposte di azione militare per creare una no fly-zone al nord e al sud della Siria, il Gran Muftì siriano, Ahmad Hassoun – vicinissimo al presidente Assad – mise in guardia europei ed americani, dicendo: una sola bomba sul territorio siriano e “prepareremo gli attentatori suicidi”.

Nel suo discorso di fine agosto Obama chiarì che non si pensava a un intervento sul modello iracheno e che non si ipotizzava l’intervento di truppe di terra o il bombardamento su vasta scala. L’idea – nella quale a fine agosto 2013 lo stesso Obama già mostrava di non credere più – era quella di colpire le piste dell’aviazione militare siriana per impedire il bombardamento dei centri abitati e quindi di creare la no-fly zone. Dimenticate le parole inequivocabili del Gran Muftì, la propaganda aveva convinto le stesse truppe americane che il regime siriano stava combattendo i terroristi.

La logica delle “truppe bianche contro le truppe nere” – su cui sommariamente si fondavano le riflessioni dei parlamentari britannici così come dei militari americani – è stata facilmente smontata dal più illustre studioso di questioni mediorientali, Gilles Kepel, che nel suo libro “Uscire dal Caos” ha documentato come proprio il regime siriano nei mesi finali del 2011 – al tempo in cui stava ancora parlando il Mufti siriano – abbia scarcerato moltissimi estremisti islamisti.

Ha scritto Kepel: “è ipotesi diffusa che gli uomini che agivano nell’ombra avessero contemplato la rapida ascesa al potere dei più radicali a capo della rivolta e la facile demonizzazione (degli stessi) da parte del regime”. Morale: il massacro chimico di gente inerme è servito a proiettare in alto le quotazioni dell’Isis e ad oscurare tutto il resto, cioè la vera rivoluzione democratica siriana.

La mediazione della Santa Sede

Con l’iniziativa della lettera a Putin, il Vaticano ha tentato di favorire un’intesa tra russi ed americani: scongiurare l’intervento americano ma anche determinare il totale disarmo chimico del regime di Damasco con meccanismi certi di verifica. L’arsenale chimico mai ammesso da Damasco venne improvvisamente riconosciuto con l’impegno di distruggerlo.

L’intenzione vaticana, nel 2013, era di favorire un circolo virtuoso che – guidato dallo strano partenariato russo-americano – portasse a un nuovo quadro politico in Siria? Mi sembra legittimo ipotizzarlo. Ma è sempre Gilles Kepel a spiegare perché la cosa non ha funzionato. La crisi dell’Ucraina, esplosa nel 2014, rese l’ipotesi a dir poco remota. Questo è un punto. Ma Kepel attesta altro.

Lo fa con parola che pesano: “quando nell’autunno del 2014 ho incontrato Evgenij Primakov – che fino alla sua morte nel 2015 ebbe una grande influenza su Vladimir Putin – questi mi ha spiegato la strategia perseguita. Consisteva anzitutto nel difendere la credibilità russa, restituendo legittimità internazionale al governo siriano alleato, grazie alla partecipazione al processo dell’ONU di smantellamento dell’arsenale chimico. Ciò avrebbe permesso di eliminare ogni prospettiva di intervento militare occidentale, che (altrimenti) sarebbe andato a favore delle forze democratiche all’interno della ribellione”.

Questo sviluppo, secondo Primakov, avrebbe consentito il dilagare dei jihadisti e prefigurato l’intervento russo, poi puntualmente avvenuto nel 2015. Dunque, Mosca avrebbe finto di credere al circolo virtuoso auspicato dalla Santa Sede. In realtà l’azione chimica del 2013 è stata perpetrata dall’alleato siriano per calpestare l’insurrezione democratica e per far emergere il “nemico perfetto”, ossia l’Isis, ponendo l’Occidente in un vicolo cieco consenziente l’intervento russo.

Ora mi chiedo: le presto dimenticate parole del mufti Hassoun erano solo vuote minacce o forse non confermano il sospetto che chi facilitò l’emergere del demone Isis contasse in realtà sulle sue azioni violente per legittimare agli occhi del mondo il regime siriano quale il “male minore”? Come mai in tutta la storia della penetrazione dell’Isis in Siria non si è verificato un solo conflitto a fuoco tra l’esercito di Bashar al Assad e i miliziani di al-Baghdadi?

Le elezioni

Rileggere questa storia ancora recente è di fondamentale importanza per interpretare il nostro tempo presente. La guerra siriana ha infettato tutto il Mediterraneo.

Pure dinnanzi all’evidenza dei crimini di guerra perpetrati – ed ora, senza più alcun dubbio, al fatto che il regime ha mentito sul disarmo chimico ed ha usato più volte armi proibite contro la popolazione civile -, russi, cinesi e iraniani propongono all’Occidente e ai Paesi arabi di ristabilire relazioni diplomatiche con Bahar al-Assad, che il 26 maggio sarà giocoforza rieletto presidente del popolo siriano martoriato.

Ciò mentre altri statisti – a cominciare dai 18 ministri europei che hanno firmato una lettera apparsa su Avvenire il 31 marzo scorso – propongono che la Corte Penale Internazionale venga autorizzata a perseguire i crimini contro l’umanità perpetrati in Siria. In tale eventuale processo, che potrebbe comportare la condanna di Bahar al-Assad, il lavoro degli ispettori internazionali peserebbe moltissimo.

È una prospettiva che dovrebbe prevalere per tante buone ragioni di etica internazionale, anche per lo sforzo autentico del Vaticano di innescare un circolo virtuoso fermamente ancorato sul disarmo chimico mondiale, al quale le diplomazie che oggi contestano i risultati ottenuti sul campo dagli ispettori – a partire da quella moscovita – sembrano aver aderito solo sulla carta, senza effettivamente crederci. Il meccanismo di disarmo e di verifica che papa Francesco aveva sollecitato consentirebbe di porre sul tavolo di una vera e alta Corte di giustizia i risultati migliori della umanità.

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5 Commenti

  1. Orietta M. 25 maggio 2021
  2. Feisal Al Mohamad 25 maggio 2021
  3. Ivan Sartori 25 maggio 2021
  4. Naima 25 maggio 2021
  5. Edmondo Dante 25 maggio 2021

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