La leadership nella Chiesa /8

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L’immaginazione è uno strumento molto importante per decidere se assumere un incarico ecclesiale, soprattutto se si tratta di una forma di leadership. Normalmente chi è richiesto di svolgerlo non ha esperienza in proposito, e quindi non può fare riferimento a ciò che ha vissuto in precedenza per capire se il compito che è richiesto di assumere gli sia realmente confacente.

Può però immaginarsi come presumibilmente si troverà in quel ruolo, se grazie ad esso riuscirà ad avere un impatto positivo sulle persone che incontrerà, e se per qualche ragione si troverà a disagio. Deve quindi mettere in campo una certa capacità di immaginarsi in panni che non ha ancora indossato.

Galleggiare nella tempesta del potere

Bisogna stare attenti, però, a non assolutizzare questa immaginazione. Il fatto di sentirsi contenti e realizzati mentre si immagina di svolgere un determinato incarico ecclesiale, soprattutto di leadership, non dice molto sulle vere motivazioni di tale senso di appagamento.

Anche se ci si sogna umili e devoti servitori che svolgono tante attività importanti, non significa che si avrà effettivamente questo stile e questi obiettivi così spirituali una volta che si sarà arrivati ad un ruolo di guida. La ragione è che noi, esseri umani, abbiamo la capacità di ingannare noi stessi, e in particolare di illuderci di accettare (o di desiderare) la leadership con autentico spirito di servizio, mentre in realtà cerchiamo semplicemente il potere.

Questa lettura disincantata della nostra immaginazione e della facilità con cui può ingannarci emerge molto chiaramente da questo passaggio della Regola pastorale di Gregorio Magno: «Per lo più, coloro che bramano di ricevere il magistero pastorale si pongono in animo anche il proposito di qualche opera buona e, quantunque nella loro aspirazione a quel magistero abbiano di mira la propria esaltazione, tuttavia considerano a lungo col pensiero le grandi cose che faranno e avviene che in essi tutt’altra cosa è ciò che la loro intenzione soffoca nel profondo, da ciò che la considerazione superficiale rappresenta al loro animo.

Infatti, non di rado il pensiero mente a sé stesso riguardo a sé e si immagina – quanto al bene operare – di amare ciò che di fatto non ama, e – quanto alla gloria del mondo – di non amare ciò che ama. […] Pertanto, ciascuno scopra sé stesso dall’esame della sua vita passata perché nella sua brama di potere l’immaginazione non lo illuda. Del resto, per lo più al posto di governo si perde perfino l’uso del bene operare che si osservava in una vita tranquilla, giacché sul mare calmo anche un inesperto sa guidare diritta una nave, ma se il mare è mosso da ondate tempestose anche un marinaio esperto ci si trova in difficoltà. E che cosa è il culmine del potere se non una tempesta per la mente? In essa la navicella del cuore è agitata dal fluttuare dei pensieri, spinta incessantemente qua e là fino ad infrangersi per gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire, come contro degli scogli» (n. 9).

Vagliare le intenzioni profonde

Insomma, per Gregorio possiamo immaginarci di amare uno stile di servizio che in realtà non amiamo affatto, e di disprezzare uno stile di potere che in realtà è proprio quello che cerchiamo. I segnali evidenti di questo fraintendimento delle proprie intenzioni profonde sono molteplici, ma purtroppo si manifestano soprattutto quando ormai si riveste già da tempo un incarico di responsabilità.

Possiamo pensare, ad esempio, al caso di persone che, quando erano in una condizione di subordinazione, invocavano la sinodalità e il dialogo, mentre, dopo aver assunto un ruolo di potere, sono divenuti i paladini dell’obbedienza (soprattutto a loro). In fondo, hanno sempre e solo perseguito la condivisione o l’imposizione delle loro convinzioni personali.

Possiamo poi considerare la grande fatica con cui talora chi è rimasto per molti anni in un ruolo di grande autorità cerca invano di lasciarlo perché costretto dall’età o da altre circostanze, quasi che senza quel ruolo la sua vita sia priva di scopo o semplicemente di altri interessi.

Infine, possiamo menzionare chi interpreta la normale confusione che caratterizza ogni comunità cristiana come la legittimazione di uno stile aggressivo, che impone il proprio punto di vista in modo impulsivo e supponente senza aver la capacità di capire la complessità delle situazioni e delle situazioni personali. Stili del genere, che fanno rimpiangere leader molto indecisi ma almeno più umani, creano gravi turbamenti nella Chiesa.

Dunque, se si assume un ruolo di leadership senza un opportuno discernimento sulle proprie intenzioni profonde, ci si trova poi impreparati ad affrontare lo sconvolgimento indotto dal potere e si fanno dei danni.

Come rileva Gregorio, questo potere è davvero una tempesta per la mente. In un certo senso, esso è qualcosa di innaturale per gli esseri umani, perché appartiene originariamente a Dio, e quindi può essere esercitato in modo costruttivo solo da coloro che gli sono molto vicini.

Anche una forte vita spirituale, però, non basta a preservare colui che è rivestito di autorità da quelli che Gregorio chiama “gli improvvisi eccessi nel parlare e nell’agire”, cioè da quegli atteggiamenti goffi e da quelle decisioni sciocche che riguardano periodicamente qualunque persona costituita in autorità semplicemente perché sottoposta continuamente al disorientamento indotto dal potere di cui gode.

Per prepararsi a questa sfida, occorre entrarvi con autentiche motivazioni di servizio, e per valutarle l’immaginazione non basta.

Per Gregorio, occorre scoprire sé stessi dall’esame della propria vita passata. Insomma, non ci si può accontentare di farsi un’idea sul proprio futuro di leader usando la fantasia, ma occorre guardare allo stile che si è avuto prima di avere delle responsabilità.

Soltanto se si è vissuto effettivamente in uno spirito di umiltà e di servizio, si potrà essere ragionevolmente certi di assumere la leadership con lo stesso spirito, e quindi di essere pronti a galleggiare nel disorientamento che deriverà dal potere di cui si sarà rivestiti.

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