Affidati gli uni agli altri: con questo titolo i vescovi austriaci hanno pubblicato una dichiarazione contro l’eutanasia il 1 giugno, giornata della vita. Sulla legislazione del fine-vita vi è una accesa discussione in molti paesi europeo: dal Portogallo alla Spagna, dall’Irlanda alla Germania, dalla Francia all’Italia. Una emergenza singolare in questo tempo di pandemia che conta centinaia di migliaia di morti.
«La decisione della Corte costituzionale austriaca di revocare il precedente divieto relativo al suicidio assistito deve essere rispettata come decisione della corte suprema, ma non condivisa. È in atto un cambiamento di valori che trascina con sé gravi conseguenze per la nostra responsabilità solidale. Se in futuro dovremo distinguere tra suicidio “buono” e “cattivo” verrà annullato il consenso precedentemente valido che ogni suicidio è una tragedia umana».
Quando le persone esprimono desideri di morte, essi, nella maggior parte dei casi, non significano il rifiuto della vita, ma l’aspirazione a non vivere più “così”. «In sostanza di tratta di creare vicinanza umana, sollevando il dolore e garantire una reale autonomia». Il desiderio di morire va preso seriamente trasmettendo quel tanto di fiducia nella vita possibile in circostanze difficili. Questo è il morire con dignità. «Ciò di cui c’è davvero bisogno è una assistenza alla vita e non un aiuto al suicidio».
Di fronte alla propria morte il testo sottolinea i limiti evidenti della pretesa di autodeterminazione e l’esplosione della domanda di aiuto. Dipendiamo dagli altri, dall’inizio della vita fino alla sua fine. Per questo vanno promosse le cure palliative e l’esperienza degli hospice, oltre all’assistenza familiare. A questo vanno finalizzati gli investimenti. Il vero pericolo è la solitudine.
Un vaso di Pandora
La proclamazione del suicidio come “atto di autodeterminazione” rimuove l’area del tabù, ma apre il vaso di pandora delle crisi sottostanti. L’ultima fase della vita può essere una benedizione. Sono possibili importanti momenti di riconciliazione. L’opzione del suicidio mette sotto pressione quanti si sentono fragili, non più sani e indipendenti.
La Chiesa rifiuta con chiarezza l’accanimento terapeutico. In caso di morte imminente è del tutto legittimo rinunciare a qualsiasi ulteriore intervento medico. Si possono rifiutare interventi terapeutici inappropriati o sproporzionati. E fissare tutto questo nel testamento biologico.
Il suicidio non può essere considerato un atto medico o un servizio della professione sanitaria. Ai medici e agli operatori sanitari dovrebbe essere garantito di servire solo alla vita. Non va sottovalutato il senso di colpa che spesso investe quanti sono coinvolti nel suicidio assistito.
Al legislatore i vescovi chiedono di approntare tutti i provvedimenti utili a impedire che il suicidio assistito diventi un dovere interiore, garantendo la prevenzione al suicidio, l’esclusione di interferenze e influenze di terzi nella decisione, dando garanzie all’obiezione di coscienza di chi non vuole essere coinvolto nel suicidio assistito.
La posizione ecclesiale è ispirata da un lato alla difese dal valore intangibile della vita e, dall’altro, a impedire che l’indifferenza e lo scoraggiamento presiedano alle più decisive questioni bioetiche.