La pandemia, che ha sconvolto questo nostro tornante di storia, ha portato ad una evidenza inevitabile l’evento del morire. Il numero dei decessi ha occupato le pagine dei giornali e ancora ne segna lo scandire dei giorni. Ma non sono numeri, sono persone, sono storie singolari e insieme fanno un evento sociale.
Eppure, sembra mancare nel registrare la sequenza dei decessi, una consapevolezza, una rielaborazione personale e civile di un evento che ha le dimensioni dei decessi di un conflitto bellico. A differenza però dei drammi legati alle guerre è mancata, e sembra ancora mancare, un’elaborazione condivisa del dramma che ci ha tutti coinvolto.
Gli psicologi parlano, giustamente, di “elaborazione del lutto”. Si tratta di integrare l’evento di una morte che in qualche modo ci ha tutti coinvolto, nel senso complessivo della vita che abbiamo in comune. In tutte le culture, l’elaborazione del lutto ha nel rito un momento decisivo. Ma nel nostro caso anche il rito è stato mancante.
Per questo sembra un compito ineludibile quello di riflettere su come abbiamo vissuto la morte, la sua ritualità, sia come singoli che come società civile e religiosa. Provo a raccogliere qualche pensiero a partire non da una competenza tipica della psicologia, appunto quella che parla della necessaria “elaborazione del lutto”, ma a partire dalla semplice esperienza pastorale che credo sia una competenza di vita.
Cercherò di costruire il pensiero sul filo di narrazioni tratte dalla vita, perché c’è una sapienza che viene dal vissuto e che dovremmo saper raccogliere. Queste brevi note nascono all’interno di un lavoro condiviso con un team di psicologhe e di sociologi che, grazie alla coordinazione della prof. Lucia Carli e all’ausilio del Cisf, ha dato vita ad un webinar (qui) sull’elaborazione del lutto tra la prima e la seconda pandemia[1].
La morte fuori dalla casa
Anzitutto l’esperienza del Covid ha fatto emergere in maniera fortissima elementi già presenti prima, circa il modo di vivere la morte e di accompagnare il morire per chi vive l’esperienza della perdita di una persona cara.
Elementi che già erano presenti prima sono stati enfatizzati dalla pandemia. La nostra cultura, la nostra società, ha tendenzialmente, anzi in maniera drastica, “esternalizzato” il corpo ferito e il corpo morente. La morte non è più un evento che accade nelle case. Non solo la morte, ma anche il corpo malato è un’esperienza che il più possibile viene sempre più ospedalizzata.
Quando si approssima l’evento della morte, lo si affida a qualcuno deputato a occuparsene, come se i soggetti coinvolti non avessero nulla da fare, nulla da dire e nulla da agire. La morte non è più una cosa che si agisce, che si vive, ma piuttosto qualcosa che si rimuove e si affida ad altri. Per certi versi, anche l’istituzione religiosa diventa deputata a questa operazione di esternalizzazione del morire. Come dire: “faccia lei reverendo, perché è una cosa sulla quale non ho so che dire, non so che fare”. Lo vorrei dire, quasi a contrappunto, con qualche racconto preso dalla vita.
Ricordo una famiglia che ha vissuto la morte della madre di due fratelli e una sorella. La loro madre aveva fatto la sua prima esperienza della morte in giovane età, appena entrata in casa del marito; era morta la suocera e tutti erano fuggiti dalla casa, così che lei, giovane sposa, si era trovata a dover affrontare ogni dettaglio del lutto: preparare il corpo, spogliare la defunta, lavarla, vestirla ecc.
E questa era stata la sua prima esperienza della morte, vissuta in casa, con un corpo di cui prendersi cura e della quale aveva tramandato un ricordo sempre vivo. Ora era toccato ai figli accompagnare la morte della mamma, con una significativa e positiva esperienza delle cure domiciliari. Il giorno prima della morte avevano potuto assistere alla premura di un OSS, un infermiere straniero, che era venuto la mattina a lavare il corpo della mamma.
Si era preso a cura del corpo, ormai in fase terminale, con una delicatezza straordinaria; era parsa loro come una danza, mentre la puliva, la girava, la toccava, la spogliava, la rivestiva, la lavava con cura professionale e umana. E quella danza ha ricordato loro il racconto della madre. Allora hanno deciso: “il corpo di nostra madre lo prepariamo noi”. I due fratelli e la sorella hanno preparato il corpo, piangendo commossi, con tenerezza, pregando e compiendo gesti magari un po’ impacciati ma pieni di affetto: un’esperienza indimenticabile. La morte poteva essere agita e non semplicemente affidata ad altri.
La morte in solitudine
C’è un secondo tratto, anche questo molto evidenziato dall’esperienza del Covid: la morte sembra un evento che ci sorprende in solitudine e in distanze che feriscono profondamente le relazioni. Anche in questo caso, evidentemente, non è un dato di oggi. Il fatto che la morte spesso accada fuori dal contesto familiare dice già una distanza. Ma più profondamente la distanza è la questione stessa della morte, che rende irraggiungibili – almeno così sembra – le persone prima prossime. In molti racconti di chi viene a parlare nell’occasione di un lutto, l’angoscia più grande è quella di non essere stati presenti. In realtà, la questione della distanza, ovviamente, è molto precedente alla morte.
Il problema è in che misura nella vita siamo stati vicini e abbiamo percorso le distanze che normalmente ci separano gli uni dagli altri. Se già nella vita eravamo lontani, allora diventa insopportabile la distanza nella morte, perché ci appare come la cifra definitiva di una relazione mancata. Di fronte alla morte sentiamo l’istinto e il bisogno di riallacciare i legami. Sentiamo che dobbiamo riallacciarli, tutti i legami, quelli buoni e quelli feriti, perché questa è la sfida della morte.
La morte è un distacco che sembrerebbe recidere quell’alleanza promettente che la vita, nei suoi legami, invece parrebbe offrire. Ma lasciamo spazio al racconto: i bambini, proprio loro che tanto spesso vorremmo tenere lontani dal trauma della morte. Alla morte del nonno, i figli erano presenti nella camera ardente di un ospedale.
La morte infatti era giunta improvvisa. Arriva per ultimo il fratello più grande con i bambini piccoli; entrano nella camera ardente di un ospedale che è un luogo un po’ freddo, asettico. Ma lì i figli erano tutti attorno, commossi stretti attorno alla nonna. Ora, i nipoti, appena entrati, hanno capito subito quello che dovevano fare: si sono avvicinati alla nonna e l’hanno abbracciata; l’abbraccio era l’istinto che guidava i piccoli a stringere forte le persone care.
I bambini percepivano un grande dolore, certo; vedevano i genitori affranti, la nonna che piangeva, ma sentivano anche un grande affetto, un amore commosso. E potevano scoprire che con quell’affetto che si respirava era possibile sopravvivere al dolore della perdita del nonno. Se i piccoli vengono esclusi da un’esperienza come questa, il rischio è che sentano in ogni caso il dolore – nei volti dei genitori, nel clima che si respira– ma non l’affetto che permette di sopravvivere a quel dolore.
Lo spazio di una narrazione
Dunque, la morte è il momento della verità delle nostre relazioni, nel dramma tra distanza e abbraccio, nella sfida perché la solitudine non sia l’ultima parola. Proprio la parola diventa per questo decisiva. Se esiste un lato drammatico che la morte ci pone è proprio quello delle parole che sono mancate.
Nel film Dead Man Walking, c’è una scena molto interessante. La suora protagonista va a trovare la mamma della ragazza uccisa e le chiede se ricorda le ultime parole che aveva detto alla figlia, la sera in cui era uscita di casa per l’ultima volta. Lei risponde che se ne ricorda bene, che le aveva detto “guarda che hai la giacca scucita…”; non l’aveva più rivista. Poi le chiede ancora: “ma cosa avrebbe voluto dirle che non le ha potuto dire?”; “le avrei detto: ti voglio bene”.
Il dramma della morte sono le parole che non siamo riusciti a dire e quelle che non abbiamo ascoltato. Credo che siano importanti le parole che possiamo trovare davanti e intorno all’evento della morte. Eppure, sembrano mancarci le parole. Mi colpisce molto il modo con cui parlano i parenti, quando vengono per annunciare la morte di una persona cara e preparare il momento del funerale (quando capita; perché spesso accade che si arrivi al momento della celebrazione senza parole, senza contatti, in modo anonimo e formale).
In genere la narrazione delle persone che hanno vissuto un lutto ha due registri immediati: quello medico e quello carico di un certo risentimento. Il primo è una narrazione di tipo medico; a volte mi chiamano anche dottore anziché don, e raccontano della morte come si racconta un caso clinico: “è successo questo, abbiamo tentato questa terapia, piuttosto che l’ospedale, piuttosto che quest’altra cura…” Non è altro che l’esito dell’affidare il morire unicamente all’apparato medico, che alla fine inficia anche il modo con cui se ne parla.
Il secondo registro è la ricerca di un colpevole: la morte è un errore, qualcosa che non dovrebbe esserci, e quindi qualcuno ha sbagliato. In genere poi questa forma risentita del parlare esprime un senso di colpa. Emerge prepotentemente sia per il fatto della distanza di cui abbiamo detto, per il fatto di non essere stati vicini, di non aver saputo evitare la morte, ma forse più profondamente per non aver potuto dire alcune cose, fare alcune cose. Emerge cioè il senso di incompiutezza di una relazione, di ferite non risolte, di amori imperfetti. È già qualcosa, perché almeno si entra nella singolarità della morte. Il momento del morire, infatti, è esattamente una finestra che si apre sulla narrazione.
Vorrei ancora fare riferimento al vissuto. Un giorno mi chiamano al telefono chiedendomi di andare a portare l’unzione degli infermi ad una donna che mi dicono – era una parente che mi telefonava – stava lasciandosi morire, non voleva più mangiare, e di farlo “fingendo una visita per la benedizione della casa”. Sembrava una richiesta al limite del superstizioso, la ricerca di un sacramento come un medicamento in grado di riaccendere la voglia di vivere, ma senza affrontare il dramma della morte. Un po’ resisto, ma poi riesco a parlare con la figlia e fisso un appuntamento per visitare la mamma. La signora non chiedeva nessuna pratica religiosa, semplicemente mi ha confessato: “io sono stanca, non ho più voglia di vivere; sono arrivata a questa età, ho fatto quello che dovevo fare, non ho più voglia di vivere”. Parlando con la figlia comprendiamo che si doveva solo ascoltare il suo desiderio, e così lei si è trasferita a casa della mamma semplicemente per starle vicino. Poi mi ha raccontato di una settimana straordinaria: dormiva nella stessa stanza della mamma, che era sempre assopita; non mangiava, ogni tanto gli dava da bere un succo di frutta, quando apriva gli occhi, e raccontava qualcosa della sua storia; beveva ancora un sorso di succo e poi riprendeva a dormire; di nuovo si risvegliava e riprendeva il racconto, in maniera rapsodica, un pezzo di qui, un pezzo di là.
È stata – ha confidato la figlia – una settimana straordinaria nella quale ha ricevuto il testamento di una storia. Il morire, quindi, è il momento in cui si aprire lo spazio della narrazione, nella quale possiamo raccogliere la singolarità della morte. La morte non è più un numero, un errore, una colpa: è una storia singolare, le vicende uniche di chi ha vissuto, il suo passato, le gioie, le prove… A volte accade: famiglie che si riuniscono – soprattutto se è possibile farlo in una casa – attorno agli ultimi giorni di una persona cara, e mentre magari nella stanza a fianco c’è il corpo ormai senza vita si raccontano i fatti, gli eventi, la memoria, magari stando in cucina, tra una fetta di salame e un bicchiere di vino.
Mi ricordo proprio di scene di questo tipo: figli e nipoti che si davano il cambio nell’attesa dell’ultimo respiro in una casa che si riempiva di racconti, di ricordi, dove la vita piena di una donna amata, colmava di affetti la casa e nutriva come il miglior companatico una mensa sobria ed essenziale.
La potenzialità e la povertà del rito
Il rito e la celebrazione avrebbero il compito di permettere di vivere un momento decisivo dell’elaborazione del lutto; un modo di “agire” la morte, di dare parola alla vita che nella morte trova il suo compimento, di rinnovare la promessa di vicinanza che il distacco del congedo sembra mettere in questione.
Ma oggi noi viviamo un tempo che conosce una profonda crisi del rito. La nostra generazione ha perso il senso del rito. Non vive più la ritualità come momento simbolico di elaborazione del senso della vita. Soprattutto sono in crisi i riti collettivi e socialmente rilevanti. Infatti, non abbiamo avuto un momento rituale condiviso per celebrare tutti coloro che la pandemia ci ha portato via, in maniera che è sembrata quasi offensiva, tanto che sono state negate nel lockdown stretto le stesse celebrazioni delle esequie.
Il rito è evaporato in quel processo di individualizzazione e privatizzazione dei momenti salienti della vita. Un episodio estremo l’ho vissuto nei primi giorni in cui si è potuto ritornare a visitare le case dove una parente era deceduta (in realtà, come molti preti, siamo sempre andati quando qualcuno chiamava).
Ho trovato due figlie al capezzale della madre; le invito a fare un momento di preghiera e qualche gesto di saluto cristiano. Poi chiedo informazioni per la celebrazione del funerale, e mi rispondono che non era necessario, bastava così, quella scarna preghiera senza alcun momento condiviso con altri. L’avrebbero poi cremata e avrebbero tenuto le ceneri in casa. Ormai tutto si riduce a un rito minimo individuale e privato.
Eppure, il rito avrebbe delle potenzialità straordinarie per celebrare la vita nel momento della morte. Un rito non lo si inventa, lo si riceve: offre una codificazione di parole e gesti che sono il sedimento di una sapienza antica. Ma chiede insieme che queste parole e questi gesti siano tradotti e trascritti nel vissuto e nella lingua di chi li agisce. Un’arte difficile.
A volte perché il linguaggio sembra anacronistico, incomprensibile: prevalgono le categorie amartiologiche su quelle salvifiche, non sono in grado di integrare dei vissuti che hanno percorsi distanti dalla pratica ecclesiale. Eppure, a volte accade che sia possibile costruire un rito capace di dare parola e ospitare il vissuto di chi lo celebra. Basta poco. Ricordo una donna che aveva lasciato in testamento un brano di Paolo per il suo funerale: “ho combattuto la mia battaglia, ho conservato la fede”. Allora tutto è più semplice, diventa facile dare parola al vissuto.
Oppure ricordo il funerale di un poeta milanese, Franco Loi, che di per sé conoscevo solo per le sue poesie, ma che nella circostanza ho scoperto avere un percorso spirituale notevole. Tante persone me lo hanno testimoniato, dalle figlie a un prete amico, a uomini e donne di teatro. Così tutti costoro hanno dato vita ad un rito che davvero parlava di Franco Loi; fu letta una sua poesia sul paradiso[2] da un attore amico, e le parole di Loi risuonarono in tutta la celebrazione. Forse i poeti e gli attori sono tra i pochi che hanno ancora il senso della parola e del rito, e per questo fu facile celebrare la vita mentre si viveva un congedo.
Questo, quindi il compito del rito: trovare le parole che raccontino una vita, celebrino la vita nel vivere la morte, e contemporaneamente una postura che esprima i sentimenti contenendoli. Il rito mentre permette le lacrime, cerca le parole per dire insieme il dolore e l’amore, il dramma e la speranza.
Vorrei concludere con un riferimento ad una pagina evangelica che mi sembra sia proprio uno pagina di elaborazione del lutto, o meglio di come si possa celebrare la vita nel passaggio della morte. La pagina famosa della morte di Lazzaro, al capitolo 11 del Vangelo di Giovanni, inizia con una strana reazione di Gesù, il quale venendo a sapere della malattia dell’amico Lazzaro si ferma per alcuni giorni e solo alla notizia della morte di lui accorre alla casa di Betania.
Sembra che Gesù non voglia togliere la distanza, ma percorrerla proprio quando si trova a dover affrontare l’inevitabilità della morte. Di questo, infatti, mi sembra tratti il testo e infatti anche se Lazzaro esce dal sepolcro in realtà rimane mortale, e la morte è un tratto inevitabile (neppure a Gesù verrà risparmiata).
Ma la cosa importante è farsi vicino agli amici e alle amiche che vivono il dramma di una perdita, rinnovare il legame, anche sopportando la recriminazione delle sorelle. Non solo: Gesù si commuove profondamente e si concede di piangere di fronte alla tomba dell’amico. Solo nel dramma di un dolore intenso e di un’amicizia rinnovata, possono essere pronunciate le parole di speranza che stanno al centro della pagina, e sono parole di vita: “chi vive e crede in me, anche se muore, vivrà in eterno”.
L’inciso – anche se muore – non cancella anzi sottolinea l’inevitabilità della morte, ma la circonda con parole che riguardano la vita: una vita nello stile di Gesù (vivere in Cristo, crede in lui) che si è preso cura della vita, fino a dare la vita per gli amici, una vita così non finisce, nella morte diventa eterna. Ma soprattutto la scena finale mi sembra possa essere letta come un esempio di “elaborazione del lutto”, con i due imperativi di Gesù: “togliere la pietra” e “lasciatelo andare”. La morte, infatti può essere come una pietra nel cuore di chi soffre una perdita, capace di bloccare la vita. La pietra va tolta, la morte vissuta e non rimossa.
Ma soprattutto non si deve trasformare il sepolcro in un luogo definitivo della vita, o trasformare i resti in un museo da mantenere incontaminato. Il sepolcro è vuoto, la vita di chi non c’è più va lasciata andare. In fondo si tratta di stare di fronte ad un sepolcro vuoto, come i discepoli faranno davanti al sepolcro di Gesù.
Da quel vuoto – perché rimane il senso di una mancanza – si possono ascoltare parole che insegnano di nuovo a vivere e a lasciarsi generare da una memoria vivente di chi ci ha lasciato. “Non cercate tra i morti colui che è vivo, non è qui vi precede in Galilea”. Stare davanti al sepolcro vuoto diventa un inizio di vita, l’invito a non restare incollati alla morte, ma di ricominciare a vivere – questo è uno dei sensi della Galilea – nella speranza di un appuntamento che ci attende, di una vita che ancora ci chiama, dove nulla si perde perché custodito nelle mani del Padre.
Come qualcuno mi ha confidato: “la perdita di mia madre è stato un passaggio di vita; ma direi che non mi ha lasciato vuoto, ma pieno; la sua mancanza si sente, ma da quel vuoto sgorga una vita piena che mi colma misteriosamente”.
[1] Il webinar ha visto la presenza di Francesco Belletti, sociologo, direttore del CISF; Lucia Carli, psicologa e psicoterapeutica docente di Psicologia dinamica all’Università di Milano-Bicocca; Nicoletta Santilli docente e supervisore presso l’Istituto di psicoterapia del bambino e dell’adolescente d Milano; Costanza Marzotto, psicologa e mediatrice familiare, conduttrice di “gruppi di Parola dell’Università Cattolica di Milano; Cristiana Zantti, scrittrice per l’infanzia, e don Antonio Torresin, parroco a Milano.
[2] La poesia si intitola L’Angel e inizia con questi versi: «El Paradis… Ragassi, che pastüra!»
Molte volte la celebrazione delle esequie diviene anche occasione di “primo annuncio” del Cristo risorto a persone adulte che non partecipano più alla vita e ai riti della comunità.