Di sicuro l’annunciata federazione tra Salvini e Berlusconi è operazione improvvisata, politicista, di vertice. Priva di ogni pur minima elaborazione ed istruttoria, nonché di un qualche coinvolgimento collettivo.
Come è ormai di regola nei partiti personali, quale è da sempre FI, meno la Lega. E tuttavia merita riflettere sul senso e sulle implicazioni dell’iniziativa. Chiari i due obiettivi di Salvini:
- rispondere all’avanzata dell’alleata Meloni, una insidiosa competitor nei voti e nella leadership sul centrodestra;
- accreditarsi come partito di destra che guarda al centro e tempera il suo sovranismo.
Sul versante di Berlusconi e del suo esile, declinante partito, palesemente si tratta di una resa e di un’annessione. Tuttavia la cosa non è inspiegabile. Pur al netto della smodata egolatria dell’uomo, stento a credere che egli possa abboccare alla promessa/lusinga di Salvini di una sua facile ascesa al Quirinale. Una prospettiva che, allo stato, nessuno gli può garantire. A ben riflettere, però, non è motivo di sorpresa. Semmai è una doppia conferma.
La prima: il Cavaliere – a dispetto di una certa sua narrazione sorprendentemente presa per buona soprattutto di recente (quando sembra egli abbia dismesso i panni del Caimano) e complice una diffusa smemoratezza collettiva – non è mai stato liberale (come poteva esserlo un caparbio monopolista?), è stato semmai antesignano di un populismo di nuovo conio (aziendale, mediatico, personale), un europeista a dir poco dubbio (chiedere a Merkel e Sarkozy e si rammenti la rottura del fronte europeo sulla seconda, scriteriata guerra del Golfo, priva dell’avallo dell’Onu).
Ma soprattutto – l’altra, decisiva spiegazione – in tutti i passaggi cruciali della sua lunga parabola politica, egli si è mostrato un irriducibile “concretista”. Guidato da una idea e da una pratica della politica tesa a preservare… la “roba”.
Sempre e tenacemente ancorato a questo “principio” supremo, come intuì per primo Montanelli, Berlusconi non ha mai rinunciato e tuttora non rinuncia ad avvalersi dell’“arma politica” volta a volta più robusta a difesa delle sue aziende di famiglia (eloquente la circostanza che la famiglia, Marina in testa, sia la più risoluta nello spingere verso la federazione). La sola, ma ferma bussola che egli ha seguito nelle sue pur molteplici giravolte politiche.
Sia chiaro: al Cavaliere spiace che altri abbiano preso il suo posto quale dominus a lungo incontrastato del centrodestra. Di più: egli non ha simpatia per il ruspante e provinciale Salvini. Ma oggi l’arma politica della quale ha bisogno passa di lì ed egli puntualmente non vi rinuncia. Con questa, diciamo così, “filosofia politica” che chi gli si è associato conosce perfettamente, è conseguente che egli abbia reclutato legioni di yes men, di uomini e donne pronti e proni nel servirlo servendosi di lui.
Totalmente indifferenti a quale che sia remora ideologica o ideale. Non stupisce che, alcuni di loro – vedi da ultimo il manipolo capeggiato da Toti – lo abbandonino, ora che egli non può garantire loro carriere professionali e politiche.
In ogni caso, la sostanza sottesa al patto federativo Salvini-Berlusconi è l’esatto contrario della rappresentazione sublimata che si vorrebbe accreditare: una destra-destra imperniata sulla coppia competitiva Meloni-Salvini elettoralmente forte ma che sconta un vistoso deficit di affidabilità presso le cancellerie europee. Anche a motivo dei referenti europei non rassicuranti, tutt’altro che moderati, della suddetta coppia nostrana: Le Pen, gli estremisti tedeschi (Afd), spagnoli (Vox), cechi, olandesi, polacchi e l’ungherese Orban, allontanato dai Popolari europei.
A fronte di questo schiacciamento a destra, mi sembrano deboli le isolate resistenze in FI nonchè velleitaria l’ambizione di dare corpo a un polo centrista di qualche peso coltivata dai vari cespugli che mettono capo ai Calenda, Toti, Renzi, Bonino, con le sigle residuali variamente evocatrici della diaspora Dc.
Possibilità di una coalizione alternativa
Né credo si possa reiterare a lungo la surroga di soluzioni tecnocratiche che sospendano la dialettica democratica. Non fosse altro in ragione di un “piccolo inciampo”: prima o poi a elezioni ci si dovrà pure andare ed è probabile che ci si vada con la legge elettorale vigente, la quale, seppur malamente, polarizza e costringe a schierarsi.
Conclusione: alle forze del campo avverso spetta di mettere in campo un’offerta politica alternativa. Un cantiere largo, con elementi di novità. Semplifico: che opponga alla coppia Salvini-Meloni la coppia di ex premier Letta-Conte, finalmente affrancato dal ricatto di Casaleggio junior.
Posta così – secondo le stesse rilevazioni di Pagnoncelli – la partita sarebbe aperta, nonostante il netto vantaggio della destra se misurato sulle sigle di partito. Prodi, che ha naso e vanta una certa esperienza in materia (all’epoca partì nettamente sfavorito e quasi irriso), ha notato che la tempere potrebbe essere propizia: la novità rappresentata da Biden e dalle sue politiche pubbliche, la svolta della Ue e il dopo pandemia, con la montante domanda di protezione sociale che questa volta non dovrebbe premiare la destra e i populisti.
Naturalmente se gli antagonisti faranno la loro parte. Se ne siano capaci francamente non so. Con un M5S sempre avvitato nelle sue contraddizioni e un PD eternamente afflitto da un esasperato correntismo.