Il comportamento, anche criminale, va considerato alla luce dei fattori culturali, anche dal punto di vista penale. Quali sono i modelli e gli argomenti?
Cosa fare contro il male che si crede bene? Nel 1987 un cinese, immigrato a New York da un anno, uccide a colpi di martello la moglie. In giudizio si difende affermando che, secondo le tradizioni cinesi, l’adulterio getta disonore non solo su chi lo subisce, ma anche sugli avi e i discendenti.
Chiamato a deporre come perito, il prof. Pasternack, grande esperto in sinologia, aggiunge un dato a suo favore: l’assenza della comunità, che nel paese d’origine avrebbe svolto un ruolo conciliatore decisivo, evitando il peggio. Il giudice accoglie le istanze difensive e condanna l’uomo per la forma di omicidio più lieve (cinque anni), affermando che «se il reato fosse stato commesso da un imputato nato e cresciuto in America, o nato altrove ma cresciuto principalmente in America, la Corte sarebbe stata costretta a riconoscerlo colpevole di omicidio di primo grado. Ma alla luce dei fattori culturali va considerato l’effetto del comportamento della moglie su qualcuno che è essenzialmente nato in Cina, cresciuto in Cina e che si è portato dietro tutta la sua cultura cinese, tranne la comunità che avrebbe moderato la sua reazione».
Reati culturalmente motivati
Un caso giurisprudenziale emblematico, per riflettere su quel genere di reati definiti “culturalmente motivati”, che la vicenda di Saman Abbas ha nuovamente (e tragicamente) portato alla ribalta. Per quanto possa sembrare sconcertante (e a me lo sembra) è così che ha ragionato un giudice di una delle “democrazie storiche” dell’Occidente, sedendo nel tribunale della città-simbolo della modernità, per giudicare un atto che non mirava a infrangere la legge ma a ristabilire la legge infranta, quella del senso etico di chi l’aveva compiuto.
Quello del giudice americano è un esempio del “modello multiculturale”, prevalente nel mondo anglosassone, che tende ad attribuire valore al movente culturale del crimine. Al suo opposto c’è il “modello assimilazionista”, tipico della Francia, fondato su un semplice ragionamento: nel momento in cui sei entrato in Francia, sappi che le nostre leggi devono diventare anche le tue, senza sconti né scuse.
L’Italia, dicono gli specialisti, oscilla tra i due modelli, con un’inclinazione maggiore verso il secondo. L’introduzione del reato di “Mutilazioni genitali femminili” (legge 7/2006) sembra accentuare questa tendenza, perché fa del movente culturale (un rito iniziatico “necessario” per entrare in modo “onorevole” nell’età adulta) un’aggravante del delitto di lesioni personali.
Un primo dato che balza all’occhio in questi crimini è la loro efferatezza, tanto più sconcertante dal momento che gli autori non hanno normalmente precedenti penali, si segnalano anzi per una condotta di vita irreprensibile. Un medico già in servizio presso l’ospedale italiano di Nazaret mi racconta di avere soccorso (invano) una ragazza palestinese cristiana, in fin di vita per le selvagge percosse al ventre inflitte dalla madre, che l’aveva anche costretta a ingurgitare veleno.
Mi racconta un altro episodio simile, avvenuto in Giordania: ancora una ragazza cristiana, aggredita dal nipote sulla scalinata della chiesa e trafitta al ventre con un forcone. Informato della morte, lo zio prete avrebbe detto: «Ora finalmente posso tornare a dire Messa». Gli specialisti dicono che la ferocia che caratterizza i “reati culturalmente motivati” può essere spiegata in termini di “malicidio”: ad essere colpita, principalmente, è la Trasgressione. La vittima ne è solo simbolo, o meglio personificazione.
Donne e migranti
Un secondo dato è il coinvolgimento di figure femminili in questi crimini, cosa che invita a non ridurre tutto a una questione di genere. In molti casi sono proprio le donne della famiglia a svolgere un ruolo trainante nella meccanica del crimine. In contesto islamico la madre è giuridicamente responsabile della custodia del nucleo domestico, in assenza del marito. È lei dunque che controlla, indaga, e molto spesso avvia e conduce il “giudizio famigliare” sino alla condanna.
Parlando di migranti, un terzo dato che colpisce è quello della vita su un doppio binario: in un caso del quale ho avuto conoscenza diretta, l’autore principale del crimine era una persona professionalmente affermata, costruitosi dal nulla sino a diventare imprenditore, capace di trattare alla pari con altre figure professionali qualificate.
A questi indubbi progressi nel processo di integrazione nel nuovo contesto italiano – la sua identità pubblica – si accompagnava una sostanziale immobilità sul lato dell’identità privata. Questo livello sotterraneo è improvvisamente esploso, prendendo il sopravvento sull’altro e mandando all’aria fatiche di anni, quando ha ucciso una persona della sua etnia, della sua parentela e della sua religione, semplicemente perché aveva scavalcato le gerarchie di potere del clan, avviando autonomamente una relazione con la figlia.
E l’islam?
In tutto questo che cosa c’entra l’islam? I casi riportati sopra servono anche a dire che il fenomeno non può essere ricondotto a un solo sistema religioso o a una singola cultura. Basti pensare che in Italia il delitto d’onore è stato abrogato soltanto quarant’anni fa, e che prima del 5 agosto 1981 un omicidio di questo genere era punito con una pena irrisoria.
Nel caso di persone di fede islamica, un passo indispensabile è quello di mettere a fuoco ciò che all’islam non appartiene, ma viene prima e sopravvive tenacemente: ad esempio il Karo-Kari, il delitto d’onore conosciuto in Pakistan, una tradizione ultra-millenaria così radicata che un quinto di questo genere di crimini, commessi annualmente nel mondo, vengono dalla patria di Saman.
Le comunità islamiche in Italia sono dunque chiamate a svolgere un compito educativo d’eccezionale importanza: da una parte si tratta di promuovere in moschea la cultura della legalità, insegnando che le leggi in vigore in Italia sono quelle italiane; dall’altra parte, devono aiutare i propri fedeli a vagliare con cura le loro tradizioni ancestrali, separando ciò che appartiene al “deposito della religione” dal resto.
Ma il ritorno alla “purezza islamica” è sufficiente? Così pensano in molti, tra questi anche molte esponenti del cosiddetto “femminismo islamico”, secondo le quali l’islam ha liberato tanto la donna quanto l’uomo, ma le cattive tradizioni patriarcali e maschiliste si sono prese presto la rivincita, facendo torto a entrambi. La tesi è limpida e non priva di verità, ma a me sembra che non sia ancora tutta la verità.
Quando studiamo gli istituti del diritto musulmano di famiglia, le cui fonti sono credute divinamente ispirate, gli elementi di disparità tra donna e uomo balzano all’occhio. C’è una soggezione dell’elemento femminile che attraversa il suo triplice ruolo di figlia-sorella-sposa e può essere facilmente colta nella forma del contratto matrimoniale, nella sua stessa natura, e negli effetti che produce.
È vero che il consenso della donna è considerato (generalmente) requisito di validità, ma è tutta l’architettura dell’istituto che la colloca in una posizione di subalternità, ed è lì che lo strapotere maschile, che non conosce religione e tutte le precede, può facilmente individuare il proprio fondamento sacro.
Per approfondire
Paolo De Pasquali (a cura), Criminologia transculturale ed etnopsichiatria forense. Terrorismo, immigrazione, reati culturalmente motivati, Alpes, Roma 2016.
Fulvio Gianaria e Alberto Mittone, Culture alla sbarra. Una riflessione sui reati multiculturali, Einaudi, Torino 2014.
Roberta Aluffi Beck Peccoz, «Il matrimonio nel diritto islamico», in S. Ferrari, Il matrimonio: diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti, Giappichelli, Torino 2006, pp. 181-246.
Ignazio De Francesco, Diritti, ruoli, relazioni: i diritti della sposa nell’Islam, in Daimon 9 (2009) pp. 145-174 (disponibile online, su Academia.edu).
Per chi legge l’arabo, i capitoli sul matrimonio di Wahba al-Zuhayli, al-Fiqh al-islami wa-adillatu-hu e di al-Sayyd Sabiq, Fiqh al-sunna.