Con quattro interventi sul suo blog Come se non, Andrea Grillo si è impegnato a raccogliere l’Appello Salvare la Fraternità – Insieme lanciato da un gruppo di teologhe e teologi convocati dalla Pontificia Accademia per la Vita, sotto l’animazione e il sostegno di mons. Vincenza Paglia e di PierAngelo Sequeri. D’accordo con l’autore, li raccogliamo in un contributo unico per le lettrici e i lettori di SettimanaNews. Quello di Grillo è un testo che onora l’Appello non solo presentandolo, ma anche entrando in quel dialogo critico del pensare insieme che è la ragione per cui esso è stato scritto.
Un gruppo di 10 teologi e teologhe, coordinati da mons. Paglia e P. Sequeri, nell’ambito dei collaboratori della Pontificia Accademia per la Vita e dell’Istituto Giovanni Paolo II, ha scritto il mese scorso un testo che si intitola Salvare la Fraternità – Insieme. Un appello per la fede e il pensiero.
Il testo (23 pagine, più 4 pagine della Postfazione di mons. Vincenzo Paglia: si possono leggere integralmente qui) merita attenzione per diversi motivi. In questo primo commento mi limito ad esaminare il documento sul piano “formale”, perché già su questo livello mi pare che si facciano notare elementi considerevoli e che devono essere esaminati con cura.
La forma di “appello”
Sicuramente molto si è riflettuto, nel gruppo che ha steso il documento, sulla “forma” da adottare per consentire alle parole di essere comprese, considerate e valutate. Più volte, lungo le pagine, emerge questa “coscienza infelice” di una teologia che rischia di “parlare solo di sé e a se stessa”. Per questo, credo che si debbano leggere con molta attenzione le parole con cui il testo comincia. Riporto qui integralmente le prime righe: “Quello che proponiamo in queste pagine è un appello con il quale confrontarsi, non semplicemente un’analisi da accogliere o respingere. Per essere più precisi, la descrizione della condizione ecclesiale e culturale che sollecita l’appello è lo strumento diagnostico che ne sostiene la motivazione e l’urgenza: non è un “direttorio” di tesi alle quali è chiesto di aderire, ma un “repertorio” di temi sui quali ci appare decisivo riflettere e discutere” (SF, 1).
Qui emergono alcuni tratti di singolare chiarezza: l’appello è motivato da una “descrizione della condizione ecclesiale e culturale” su cui non si chiede di dire “sì” o “no” – di aderire come potrebbe accadere con una serie di tesi o di dichiarazioni – ma di confrontarsi. Come un repertorio, non come un direttorio. Il gruppo si è impegnato in una “descrizione” – allo stesso tempo ecclesiale e culturale – in cui è messa in gioco la “specifica competenza teologica”, pensata al servizio di una urgenza, così come posta dalla enciclica Fratelli tutti.
Potremmo dire allora: un dato di emergenza, posto autorevolmente dalla enciclica di papa Francesco sulla Fraternità e l’amicizia sociale, impone alla teologia una più precisa descrizione della condizione culturale ed ecclesiale e sollecita (anzitutto i teologi) ad un compito comune che attraversa l’intero spettro dei soggetti possibili: quelli interni e quelli esterni alla tradizione ecclesiale. Di qui, come vedremo subito dopo, la necessità di identificare gli interlocutori dell’appello. Se un gruppo di teologi decide di “cambiare forma” – non scrivere trattati o saggi, ma un appello – diventa decisivo identificare bene i destinatari dell’appello.
I due messaggi con diversi destinatari
Il testo indentifica, a partire da p. 14, i suoi destinatari. L’appello è per i Discepoli (14-19), mentre ai Saggi è inviata una Lettera aperta (19-23). Le forme vengono differenziate e gli interlocutori sono pensati in modo non generico.
Qui, evidentemente, il testo si differenzia in modo più netto. L’appello, in senso proprio, quello volto ai discepoli, è centrato su un ripensamento del rapporto tra Chiesa e mondo. Una cosa molto importante è che il testo punti sia ecclesialmente sia teologicamente su un “nuovo paradigma” di relazione con il mondo, che sappia uscire dai “dualismi tra comunità credente e comunità secolare, tra mondo creato e mondo salvato”.
Sia il credente, sia il teologo professionale, sono rimandati alla sfida di una relazione nuova, diretta, con il mondo e con i suoi linguaggi, che occorre imparare a parlare. Questa è la sfida – grande ed esplicita– interna all’appello.
La Lettera aperta, destinata invece ai Saggi (ossia agli intellettuali non credenti) compie alcune scelte nette: usa un “noi” che ricorda i discorsi del Concilio Vaticano II e di Paolo VI e entra subito “in medias res” con una richiesta diretta: quella di “purificare la cultura dominante dalla tentazione del relativismo e della demoralizzazione”. Forse, sul piano della forma, non è l’inizio più consigliabile per favorire una interlocuzione senza pregiudizi.
Proprio perché, formaliter, la domanda di verità e di valori, a cui Fratelli tutti da voce con grande potenza, scaturisce da una tensione tra fratellanza, libertà ed eguaglianza, è interessante che l’appello ai discepoli appaia impostato in modo più dialogico di quanto non sia la lettera ai Saggi. Nella quale, emergono, con maggiore forza, quelle letture “in contumacia” del mondo contemporaneo, che l’appello ai discepoli aveva giustamente indicato come una via senza uscita.
Se della “scoperta del soggetto” moderna si parla, almeno inizialmente, solo in modo catastrofico, si seleziona e si predispone l’interlocutore in modo troppo drastico. Ci sarà modo di discutere meglio sul piano dei contenuti i singoli passaggi, ma anche solo formalmente questa scelta appare meno convincente rispetto all’impianto generale del documento.
La pluralità di voci
Senza entrare per ora nella considerazione dei contenuti, è però evidente che nel testo parlano “diverse scuole”. E questo è un ulteriore dato significativo. Quanto è difficile non usare del tutto il proprio gergo.
Quanto è difficile imparare il gergo altrui e farlo fruttificare nel proprio, così come arduo risulta ascoltare il proprio gergo “riespresso” in altro contesto, con altra intezione, con diverse accezioni. Il controllo delle parole, che è l’ideale di ogni linguaggio tecnico, nella teologia smentisce la più bella delle esperienze: quella di lasciar parlare il linguaggio della tradizione. Se siamo teologi è perché abbiamo elaborato un linguaggio tecnico, che dovrebbe restare “servo”, ma qualche volta diventa “padrone”.
Non è difficile cogliere questa fatica, questo travaglio, questo sforzo su tutte le pagine di questo appello. Questo è un suo pregio rilevante. Mostra la fatica di uscire da un gergo. La prevalenza del “gergo milanese” – che è sulla pagina è evidente ed arricchisce di terminologie fini il periodare e il respirare delle frasi – è certo dovuta al fatto che almeno la metà del gruppo proviene da quella scuola, da quelle forme di pensiero e da quelle figure di esperienza.
Ma, diversamente dai testi dei singoli autori, l’appello risuona anche di altri toni, di altri immaginari, di altre figure di parola e di pensiero. Questo permette un confronto molto più ampio e abbassa il livello di lettura pregiudiziale riduce i casi di “tecnicismo”. Per un appello, che voglia parlare a tutti, questo è un elemento decisivo, che ne garantisce la possibile fecondità.
L’apertura di un dialogo fecondo
Questi rilievi di carattere solo formale sono evidentemente una “premessa” a contenuti tanto urgenti quanto ricchi. La conoscenza diretta di molti membri del gruppo di teologi e la lettura del loro testo mi fa dire che sono poste le basi per un dialogo veramente fecondo e produttivo.
Senza evitare la “confusione delle lingue”, ma accettando la pluralità dei registri, questo “appello a salvare la fraternità” può raggiungere diversi risultati, grazie alla sua impostazione formale. Può suscitare dialogo e confronto perché è già in sé frutto di questo dialogo e di questo confronto. Credo si possano individuare due obiettivi espliciti di un tale sviluppo, che mi sembrano del tutto condivisibili:
- da un lato, favorire un “lavoro teologico” chiaro, audace e paziente, “creativo e ospitale”, che sappia dialogare in modo davvero radicale con la cultura contemporanea, per rileggere la tradizione con un atto audace e paziente di “traduzione”;
- dall’altro, che abbia una incidenza ecclesiale capace di pensare e realizzare quelle riforme di cui la Chiesa confessa il bisogno da almeno 60 anni e la cui esecuzione non può non essere preparata da un “pensiero della fede” alla altezza della sfida.
Per raggiungere questi due obiettivi, occorre aprire un dibattito, nella libertà e con rispetto, sulle tre parti qualificanti di questo testo, ossia sulla “descrizione della condizione ecclesiale e culturale” (SF 1-14), sull’appello ai Discepoli (SF 14-19) e sulla Lettera aperta ai Saggi (SF 19-23).
Condizione ecclesiale e culturale
Iniziamo con la prima parte del testo, quella che precede i due “appelli” rivolti ai Discepoli e ai Saggi. Ci troviamo di fronte ad una “descrizione” della attuale condizione culturale, teologica ed ecclesiale che presenta molti elementi di interesse – ed è così suddivisa
- Introduzione (1-2)
- Kairos attuale della fede (2-5)
- Segni globali della crisi (5- 10)
- La teo-logia, bene comune (10-14)
Procediamo con ordine.
L’introduzione, oltre che fissare la forma dell’approccio dialogico di cui abbiamo già parlato nel primo post già citato, fissa nella enciclica Fratelli tutti quella “definitiva provocazione” che spinge a cercare il “clima di una “fraternità intellettuale” che riabiliti il senso alto del “servizio intellettuale” di cui i professionisti della cultura – teologica e non teologica – sono in debito nei confronti della comunità” (SF 1).
Vi è una “coincidenza” tra parola magisteriale e condizione universale di sofferenza per la pandemia che diventa “occasione propizia”, dentro e fuori la Chiesa: il servizio intellettuale appare così unico e comune. Vedremo che questo è uno dei temi portanti del testo: superare le barriere, abbattere i muri e i bastioni, uscire da categorie senza respiro per “onorare la realtà”. Questo impegno si concretizza in una duplice formula, che percorre il testo e che suona così: “è moralmente chiuso il tempo di ogni civetteria intellettuale con l’esercizio spensierato del relativismo dissacratore dell’humana communitas, come anche il tempo della ottusa ripetizione di formule sacre che custodiscono un vuoto di affetti e di legami” (SF 1-2).
Di fronte a questa “duplice deriva” – che caratterizza parallelamente la cultura civile e la cultura ecclesiale – la reazione deve essere quella di una onestà intellettuale critica e autocritica, insieme ad una alleanza testimoniale. Un “pensiero sulla fraternità” realmente fondato è la sfida comune, per pensare la “humana communitas”, l’umano che è comune, senza accontantarsi di letture romantiche, sentimentali e rigidamente ripetitive di stereotipi. Ecco allora la “occasione opportuna”, il kairos di questo tempo e di questo testo.
Il Kairos attuale della fede
La “destinazione” della Chiesa alla “comunità di tutti gli uomini” è iscritta nel DNA del Vangelo: la differenza tra il Signore e la sua Chiesa non è un accessorio secondario: la incorporazione nel Corpo di Cristo non è mai sostituzione del Signore, bensì sequela e ascolto. Il legame con il Signore “mai diventa proprietà privata della communitas fidelium” (SF 4). Nel nostro tempo questa evidenza è contraddetta da consacrazioni profanate e da vocazioni contraddette.
Qui il testo giunge ad espressioni di grande denuncia: “L’eccesso di questa inettitudine degli apparati ecclesiastici è ormai un’evidenza planetaria. Le litigiosità e le immoralità che abitano la provincia ecclesiastica sono ora percepite come un indice di fragilità del sistema, non semplicemente come debolezze occasionali. Non c’è dubbio che questa manifestazione faccia torto ad una enorme diaspora ecclesiale di sinceri e semplici credenti, come anche alla dedizione del servizio istituzionale di moltissimi uomini e donne. Ma è necessario ammettere che la gravità del fenomeno non consente la via delle cure palliative” (SF 4).
La istituzione deve prendere congedo da forme di vita e di governo ecclesiale che soffrono di una deriva clericale patologica. Il cuore della risposta non sta in aggiustamenti marginali, ma nel ripensamento radicale del rapporto tra Chiesa e mondo. Il “campo totale della città dell’uomo” è il luogo dell’annuncio e della realizzazione del regno di Dio.
“La nostalgia di un mondo più accondiscendente, e il risentimento per un mondo troppo ostile, vanno ugualmente deposti. Non esiste un mondo già pronto per l’avvento del regno di Dio” (SF 5).
Da ciò deriva il motivo della sfida che Fratelli tutti lancia alla teologia: il gesto con cui rilegge la tradizione provoca la teologia e la intelligenza comune ad un profondo ripensamento delle categorie di interpretazione della storia e della realtà.
Segni globali della crisi
Ci sono “segni” che annunciano il “nuovo mondo che dobbiamo imparare ad abitare”. Qui, a me pare, il testo riprende con nuovo slancio la sollecitazione che viene da Giovanni XXIII, da Paolo VI e ultimamente da Francesco: la Chiesa può/deve imparare dai “segni dei tempi”, che sono una forma di “apprendistato”.
Quali sono questi segni? Essi derivano da una progressiva tensione tra secolarizzazione e religione, tra etica umanistica e sviluppo materiale. La “forma europea” con cui abbiamo pensato ed imposto il progresso conosce limiti strutturali nuovi, che la pandemia ha in qualche modo messo in scena nel modo più evidente: “L’irruzione di una religiosità pervertita del sacrificio (il terrorismo fondamentalista), l’inganno della produzione finanziaria della ricchezza (la speculazione sul debito), la disperazione crescente dei popoli abbandonati (le migrazioni di massa), la fragilità sottovalutata della gestione tecnocratica (la paralisi della pandemia): sono gli eventi-sintomo di un presente della disillusione che si affaccia all’orizzonte dell’epoca” (SF 6).
Questi segni si uniscono agli effetti strutturali di una globalizzazione “ingovernabile”: “La crescita della disuguaglianza proprietaria e dell’abbandono sociale, d’altra parte, moltiplica gli effetti negativi di una globalizzazione tecno-economica vistosamente separata da una corrispondente evoluzione della solidarietà etico-umanistica. L’effetto emerge, culturalmente, dalle zone d’ombra della modernità occidentale del soggetto. La politica e il diritto della città secolare sono vistosamente in affanno nei confronti dello scarto ingovernabile tra la libertà delle affezioni individuali e i vincoli del bene comune. Il processo della loro separazione reale corre più veloce di ogni progetto di ideale ricomposizione” (SF 7).
Qui si innesta una riflessione di carattere antropologico, nella quale affetti e legami, individuo e società, libertà e autorità vengono pensati in vista di un nuovo equilibrio. Potremmo dire i “tre segni dei tempi” di Giovanni XXIII (emancipazione del lavoro, dei popoli e delle donne) sono riconsiderati nella loro complessità, per il livello di “ingiustizia” che combattevano e combattono tuttora, ma anche per le nuove ingiustizie e distorsioni che producono.
Nella descrizione di questo “impatto complesso” degli ideali di emancipazione si mette in luce la ingenuità di una ricostruzione “lineare” del mondo, che genera mostri: “Dopo tutto, chi non vorrebbe vivere come noi? I supermercati sono sempre aperti, il divertimento è sempre in scena, le connessioni ci rendono presenti ovunque, la velocità moltiplica le opportunità, i servizi sessuali sono in libero accesso, i quartieri residenziali sono bolle di confortevole insediamento, protetto ed esclusivo, per il cittadino globale di ogni metropoli del pianeta” (SF 8).
La denuncia di questa “perversione” del mondo dei “liberi e uguali”, dipinta in queste pagine con una lucidità quasi spietata, crea lo spazio per una ripresa del tema della fraternità e della comunità. Se il mondo che si progetta come composto da “liberi e uguali” produce tanta ingiustizia, quale via per rimediare, recuperando il “terzo vocabolo” della triade rivoluzionaria, ossia la fraternità?
Occorre chiedersi, tuttavia: la “demoralizzazione” e la “indifferenza” crescenti sono davvero soltanto il prodotto di una “libertà e uguaglianza senza responsabilità”? Non è questo anche il frutto di “communitates” in cui la autorità è stata incapace di custodire i legami? La domanda è legittima. Per questo la “promessa di libertà” che il mondo moderno ha sapientemente costruito chiede un supplemento di anima, di prassi e di pensiero sul tema della fraternità e della prossimità, secondo quanto profeticamente dice Fratelli tutti.
La teo-logia, bene comune
Il titolo dell’ultimo paragrafo – prima dell’appello e della Lettera aperta – contiene una buona dose di sana provocazione. Che la teologia sia un “bene comune” sembra un dato ignoto non solo alla “cultura civile”, ma alla stessa teologia, spesso impegnata soltanto ad “evangelizzare se stessa” e a chiarire che cosa il cristianesimo “non è”.
Questo modo di pensare mette in questione l’esercizio stesso del lavoro teologico, spesso condannato ad una totale sterilità ed irrilevanza, dentro e fuori della Chiesa. La tradizione teologica, che nei secoli si è data categorie così fini per interpretare il “sacro” che scuote il rapporto di ogni uomo/donna col prossimo e con Dio, e che ne conosce bene anche le perversioni, oggi ha solo una strada davanti a sé: “La teologia ecclesiale deve perciò acquisire lo stile di un pensiero creativo e ospitale per tutti, non ridotto a un gergo per iniziati. Sembra evidente che questo comporterà un significativo mutamento delle istituzioni ecclesiali” (SF 11).
Questo passaggio è di grande importanza: perché implica un esercizio del lavoro teologico “creativo ed ospitale”, che non elabori soltanto un “gergo da iniziati” e che si sporga coraggiosamente sul “mutamento delle istituzioni ecclesiali”. Qui, come è evidente, si tocca un passaggio delicatissimo, spesso lasciato sotto silenzio dai teologi.
La qualità creativa e ospitale, critica e dialogica, ma anche necessariamente riformatrice sul piano istituzionale del pensiero teologico chiede modifiche radicali, anche nel modo con cui la Chiesa cattolica pensa il lavoro del teologo. Il modo stesso con cui il Codice di Diritto Canonico pensa la funzione del teologo a partire dal 1983 – diversamente dal 1917 – contrasta duramente con questo nobile progetto.
L’obbedienza teologica, pensata come poco creativa e poco ospitale, non trova la sua verità nel silenzio, ma nella parola. Che questi termini, così espliciti, di ripensamento della teologia giungano da un gruppo di lavoro strettamente legato a due istituzioni ufficiali è un segno di grande speranza e di svolta reale.
Restituire la teologia alla sua destinazione popolare, alla folla, e non solo ai discepoli, implica un profondo cambiamento di metodo, di linguaggio e di obiettivi. Anche nelle forme del concreto esercizio del lavoro teologico.
Questo significa, con una immagine, costruire un “ponte” tra Ecclesiam suam (Paolo VI 1964) e Fratelli tutti (Francesco 2020), condividendo la aspirazione comune alla “redenzione dell’uomo”, in cui mistero dell’uomo e mistero della Chiesa si danno insieme, senza dualismi, senza contraddizioni anche se non senza delicatissime opposizioni polari. Costruire questo “ponte”, che per primi i teologi devono osare attraversare, è una loro peculiare responsabilità, qui ed ora. Chi si ostina a pestare l’acqua nel mortaio della tradizione fa semplicemente un altro mestiere.
Questa lettura complessiva della crisi, dei “segni dei tempi” e del ruolo della teologia, costituisce la grande premessa nella quale si inseriscono i due testi successivi, che appaiono quasi come il “fine ultimo” del documento stesso: ossia l’appello ai Discepoli e la Lettera aperta ai Saggi.
L’appello ai discepoli
Una visione della Chiesa, configurata da Ecclesiam suam (1964) secondo cerchi concentrici sempre più ampi, si compie in Fratelli tutti (2020) come una profezia di una “evidenza testimoniale della forma ecclesiale”, ossia come destinazione universale della salvezza.
Questo punto-chiave della dottrina e della autocoscienza cristiana deve ridiventare “immediato nella percezione di chiunque e saldo nella convinzione dei credenti” (SF 15). Ciò ha conseguenze strutturali importanti, che implicano un “duplice addio”: “La missione religiosa va sottratta al governo politico della città secolare. La regia ecclesiastica della società civile, fatalmente indotta a fare sistema con i poteri mondani, toglie troppa libertà al vangelo e offre troppe opportunità al diavolo. Ora è necessario completare il processo, congedandosi anche dal progetto culturale di una regia ecclesiastica dei saperi umani” (SF 15).
L’obiettivo di questo “doppio congedo” – dalla “regia ecclesiastica della società civile” e dalla “regia ecclesiastica dei saperi umani” – è elementare: la riapertura, nella storia comune, di una speranza di riscatto per il mondo condiviso, anzitutto per i poveri e per gli scartati.
Questo costituisce il superamento di un “modello di cristianità” che il passato ha conosciuto e che è finito: “L’edificazione di un mondo cristiano parallelo, alternativo a quello umano che è comune, rappresenta un passato della storia della testimonianza, che ora non illumina il futuro che le viene aperto da Dio” (SF 16).
In gioco vi è un modello di autocoscienza ecclesiale, sviluppato negli ultimi secoli, e che coltiva un rapporto “nostalgico” con la tradizione, sia nel caso di “resistenza ad ogni riforma”, sia nel caso di “mitizzazione delle origini”.
In realtà occorre accettare che vi sia un “dato nuovo” – un nuovo paradigma di cultura – con cui le risorse delle soluzioni precedenti non bastano più: “In entrambi i casi, l’immagine di fondo insiste comunque sulla riabilitazione di un ritorno al passato. Questo rinvio archeologico, anche a prescindere da ogni valutazione dei suoi argomenti, sottrae mente e cuore al compito di abitare il nuovo kairos di Dio: che nel passato, semplicemente, non c’era. Un mondo umano istituzionalmente non-religioso è un interlocutore storicamente inedito” (SF 16).
Qui, come è evidente, la assunzione di questa novità diventa una sfida davvero decisiva, che teologicamente impone il ripensamento di un “duplice dualismo”. Poiché pensiamo “separato” ciò che deve essere unito, ne consegue che finiamo con l’unire ciò che deve essere distinto.
Ecco il compito che l’appello denomina “decostruzione di un duplice dualismo” e lo presenta così: “Il nostro appello, infine, è un appassionato invito alla teologia professionale – e in generale ad ogni credente – perché offra uno spazio privilegiato e comune all’impegno di decostruzione del duplice dualismo che ci tiene attualmente in ostaggio: fra la comunità ecclesiale e la comunità secolare; fra mondo creato e il mondo salvato” (SF 16).
Qui siamo al nodo centrale del testo, quello che risulta più ricco e più gravido di implicazioni teoriche, pratiche, istituzionali e culturali. Esaminiamolo con cura questi due dualismi da disinnescare.
Chiesa e mondo non sono “due mondi”
Per così dire “le due città” non sono “due città”: sono una duplice ermeneutica dell’unica città comune. Non ci sono “storie parallele”. Per questo si deve superare il dualismo: per uscire da una scissione interna alla esperienza.
“L’autorevolezza di questa parola dell’intesa dell’uomo e della donna, che è chiamata a governare il mondo nell’attesa quotidiana dei doni di Dio è oggi troppo mortificata da una scienza presuntuosa e da una teologia gergale. Il compito primario dell’intellettuale, credente e non credente, è quello di restituire autorità di testimonianza dell’umano alla vita comune dei popoli. La fede stessa impara l’umano dall’umano” (SF 17).
Questa interrelazione tra il mondo che è chiesa e la chiesa che è mondo, e che si radica nella umanità divina e nella divinità umana del Signore, introduce una pedagogia che non si riesce a delimitare campi alternativi: “In questo scambio emozionante, il pensiero della fede e il pensiero umano crescono insieme. Nella nostra tradizione ecclesiale moderna, il governo esclusivo dei preti, il modello unico dei religiosi, l’enciclopedismo catechistico delle dottrine hanno realizzato un effetto di saturazione della forma fidei che l’ha allontanata da questa immediatezza della vita comune: e ora deve cedere sotto il suo stesso peso” (SF 17).
Questa è una visione singolarmente chiara e spiazzante. Dice di un “reciproco apprendistato” e di una “evidenza dei segni dei tempi” che solitamente la coscienza ecclesiale fatica ad elaborare.
Spesso, infatti le cose vengono ricostruite in modo capovolto: “L’isolamento del sistema ecclesiastico è per lo più alternativamente ricondotto all’indebolimento della tradizione sacrale e all’accerchiamento del progresso secolare. In realtà, esso è l’effetto di una Chiesa che si sta sempre più concentrando su sé stessa: e come chiunque, se cerca la propria vita in sé stesso, secondo il vangelo la perderà” (SF 17-18).
Mossa decisiva di questo appello, e sostanza di riforma ecclesiale, è la “dilatazione della rete della fraternità battesimale”. Il che comporta un profondo ripensamento delle logiche del ministero e della testimonianza, nel loro rapporto correlativo.
Insomma, la uscita dal primo dualismo comporta conseguenze istituzionali chiaramente delineate: “L’uscita dal modello clericale della forma cristiana, che restituisce al ministero ordinato la sua specifica autorevolezza e la sua limitata configurazione, comincerà teologicamente di qui. Senza dimenticare che il nuovo paradigma della ecclesialità fraterna e testimoniale dei battezzati, al servizio del quale devono riconfigurarsi ministeri e carismi, dovrà essere accuratamente determinato e autorizzato nel contesto sinodale dell’intera comunità, e non soltanto incoraggiato e raccomandato” (SF 18).
La “inadeguatezza degli apparati teologici, canonici e formativi” chiede una pronta riforma, perché possano liberarsi le energie positive di questo cambio di paradigmi. In tale cambiamento occorrerà tuttavia porre attenzione a non reinserire i “dualismi” attraverso l’uso di categorie non sufficientemente calibrate.
Un esempio può essere la correlazione tra ministero ordinato e sacerdozio comune, che le categorie ufficiali distinguono “essentia et non gradu tantum“, ma non dispensano affatto dal dovere di pensarne la distinzione in una correlazione maggiore, senza alcun parallelismo o concorrenza. Altrimenti il dualismo cacciato dalla porta, rientrerà dalla finestra.
Natura e extra-natura
Il secondo dualismo da cui prendere congedo è il cambio di registro che riguarda la opposizione tra naturale e soprannaturale, tra creazione e redenzione. Anche qui il lavoro di conversione e di trascrizione cui è chiamata la teologia deve lasciar cadere le troppo facili evidenze per cui in taluni casi è la natura a garantire la grazia, mentre in altri la grazia ha spazio solo “oltre”, se non “contro” la natura. Il semplicismo di soluzioni “standard”, elaborate in altri tempi e per altri mondi, quando le parole natura, città e cultura significavano cose molto diverse, e venivano usate con intenzioni talora capovolte, non sono più adeguate alle questioni nuove che dobbiamo affrontare.
E questo secondo compito di decostruzione (e di ricostruzione) si chiude con una piccola profezia: “La fede imparerà ad abitare i linguaggi del mondo secolare, senza pregiudizio per il suo annuncio della vicinanza di Dio. E la prossimità ecclesiale della fede sarà abitabile anche per la Cananea, la Samaritana, Zaccheo, il Centurione. Senza pregiudizio per la loro distanza” (SF 19).
La salvezza della fraternità passa così attraverso questa “ascesi di decostruzione”, che implica un grande lavoro di conversione, di traduzione e di aggiornamento del linguaggio e del pensiero, delle forme istituzionali e delle forme di vita, almeno nell’ambito della esperienza ecclesiale.
L’abisso e il comune amore
L’ultima parte del testo è costituita da una “lettera aperta” i cui destinatari sono gli intellettuali esterni alla tradizione ecclesiale. Qui si nota, fin dalle prime righe, un approccio molto vigoroso: si chiede, con una supplica, agli intellettuali contemporanei “di purificare la cultura dominante da ogni compiaciuta concessione agli spiriti conformistici del relativismo e della demoralizzazione” (SF 19).
Per evitare un effetto di distorsione, credo sia bene precisare due punti: da un lato è Fratelli tutti il contesto della affermazione. Relativismo e demoralizzazione sono il prodotto di una ingiustizia della povertà e dello scarto.
Dall’altro, però, si avverte come un “cono d’ombra” della lettura antimodernistica, che si manifesta ancor più in un passaggio di poco successivo: “L’autoreferenzialità esasperata dell’individuo moderno, soggetto di un desiderio che cerca realizzazione di sé nella separazione dall’altro, ha contaminato le forme della comunità. Esse stesse stanno diventando permeabili ad uno spirito della competizione ostile per il godimento dei beni resi disponibili dalla natura e dalla cultura” (SF 20).
Qui, inevitabilmente, si lascia spazio ad una visione che contrappone l’individuo moderno alle forme della vera comunità. Riemerge la possibilità di una lettura un pò contrapposta e con qualche traccia nostalgica.
Curiosamente ciò che la parte più “interna” del discorso nega con grande efficacia, qui, nel dialogo “ad extra” sembra riemergere come un registro che permane. Non sarebbe stato azzardato aspettarsi qui, oltre alla giusta critica, anche una valorizzazione della “scoperta del soggetto”, della “coscienza storica”, del “pluralismo vitale”, che certamente non è assente nelle menti degli estensori, ma non appare nel testo.
Alla cultura si rimprovera di non avere quasi parole per quei milioni di uomini e donne che continuano a tener fede, con dignità, al compito del rispetto, della fiducia, della ospitalità e della generatività. È più facile isolare, dividere, contrapporre, sospettare.
La supplica si rivolge, così, ad un “atto di custodia”: che il “Nome di Dio” sia custodito da tutti. Che si possa tutto criticare, mettere sotto giudizio, smascherare, ma che si custodisca il Nome di Dio, che sul volto del prossimo risplende per tutti. Ritrovare questa comune origine e comune destinazione, che nell’amore del prossimo si fa visibile, implica una scoperta radicale, che viene espressa così: “O prima e dopo l’abisso qualcuno ci ama, o niente. Per nessuno” (SF 22).
Si arriva infine a due proposizioni conclusive, che riprendono il messaggio fondamentale, in tutta la sua ricca e convincente articolazione. Anzitutto la necessaria correlazione tra pensiero “laico” e pensiero “teologico”: “Salvare la fraternità per rimanere umani. Senza l’apporto delle ragioni umane del senso, sempre di nuovo cercate per prove ed errori, il pensiero cristiano della fede non può realmente abitare la terra con l’onestà intellettuale che la sua testimonianza dell’incarnazione di Dio esige. La teologia deve a sua volta accettare di fronteggiare criticamente le perversioni del sacro, per prove ed errori, in modo che non godano della complicità della fede” (SF 23).
La critica esercitata dalle “ragioni umane” e la autocritica che la teologia deve assumere circa le “perversioni del sacro” diventa un compito decisivo per “salvare la fraternità”. Qui, come è evidente, si delinea un compito comune e una sorta di alleanza tra sapere civile e sapere ecclesiale. Ma non basta.
“Dopo aver passato qualche secolo a imporre alle coscienze la necessità della loro reciproca estraniazione, per puro assoggettamento alle discipline di partito, siamo convinti che è venuto il momento di sperimentare la libertà della loro empatica frequentazione, in vista di nuove politiche dello spirito. Disposti alla sublime sprezzatura di tutti gli apparati religiosi e secolari che, nelle guerre fratricide – delle religioni e contro la religione – hanno campato fin troppo, a spese nostre e dei nostri figli” (SF 23).
Superare le forme di “reciproca estraniazione” tra ragione e fede, tra coscienza libera e coscienza credente, diventa il metodo perché una “empatica frequentazione”, che implica una intensa e diffusa conoscenza interessata e vicendevole, metta in campo tutte le risorse disponibili al servizio della fraternità tra diversi.
Raccogliere l’Appello
Se volessimo riprendere il senso di questo bel documento, potremmo dire così: a 60 anni dal Concilio Vaticano II, con tutto quello che è accaduto dentro e fuori della Chiesa, la sollecitazione che viene da papa Francesco, in particolare dal suo testo Fratelli tutti, suona contemporaneamente “da dentro” e “da fuori” della tradizione ecclesiale: perché è arrivato a Roma, ma “dalla fine del mondo”.
Perché lavora nel Palazzo Apostolico, ma vive fuori, in albergo. Perché dopo una sterminata serie di papi europei, è il primo che viene dalla geografia, dalla storia e dalla cultura extra-europea. Con tutte queste dinamiche estraneità, Francesco ci fa sentire la urgenza di un cambio di paradigma, che metta da parte le “guerre di posizione” in cui, da quasi due secoli, eravamo divenuti maestri, come teologi e come intellettuali.
I figli ci chiedono di smetterla. E il primo papa “figlio del Concilio”, appunto come un figlio, ha cambiato domanda, prospettiva, argomentazioni e passo. E ci chiede di non cadere nelle trappole che noi avevamo costruito “per i nemici” e nelle quali oggi finiamo per cadere più facilmente noi stessi. Il liberalismo, con le sue ombre, ma anche con le sue luci, non è “il principio antidogmatico”. Il dogma, con le sue luci, ma anche con le sue ombre, non è “oscurantismo fuori tempo”.
La fratellanza – che nella sua inevidenza funziona quasi come un dogma (il Figlio di Dio è figlio di Maria, nostro fratello) – mostra che la libertà e la eguaglianza presuppongono la comunità e che la comunità è legittima solo se produce vera libertà e apre pari opportunità per tutti.
Salvare la fraternità e la comunità significa che “liberi e uguali” non è né l’inferno garantito, né il paradiso chiavi in mano. Una mediazione fraterna della società passa per una nuova fraternità culturale, che si costruisce senza scomuniche reciproche e senza irenismi formali.
La “materia del mondo” chiede spiriti liberi, ossia obbedienti al servizio di una intelligenza del reale. Questo servizio possiamo farlo solo se lo faremo insieme. Tutti e tutte interessati/e a valorizzare le differenze benedette di cui vive una comunità veramente fraterna.