50 anni fa veniva fondata la Caritas italiana, fortemente voluta da Paolo VI per la promozione della carità delle comunità cristiane, al servizio dei poveri – con mons. Giovanni Nervo alla presidenza. Il lavoro svolto da C.I. è prezioso anche per una aggiornata conoscenza delle tante e, spesso dimenticate o ignorate, situazioni di sofferenza dei popoli nel mondo. In questa occasione Danilo Feliciangeli, coordinatore degli interventi di Caritas Italiana nell’area mediorientale, presenta ai lettori di Settimananews il dossier recentemente pubblicato sulla questione dei profughi palestinesi e riguardo al recente – ennesimo – conflitto in Terra Santa.
Propongo alcuni dati e alcune riflessioni ampiamente sviluppate nell’ultimo dossier.
Caritas da anni lavora nel contesto di tensione della Terra Santa auspicando il rispetto del diritto internazionale e le risoluzioni dell’O.N.U. Queste stesse dicono da tempo che cosa si sarebbe potuto e dovuto fare – e non è stato fatto – in 70 anni: 70 anni in cui buona parte della popolazione palestinese si è cronicizzata nella condizione di profughi.
La soluzione “due popoli in due stati” resta nelle prospettive di una pace ancora futuribile, ma non può chiaramente darsi sinché non ci sarà il riconoscimento ufficiale di uno Stato palestinese, così come nel 1948 è avvenuto il riconoscimento dello Stato d’Israele.
La condizione “indefinita” della Palestina ha fatto purtroppo comodo a molti, oltre che agli Stati dell’area politica mediorientale, anche tra gli stessi membri fella classe dirigente palestinese che si è resa protagonista di una gestione politica segnata da clientelismo e corruzione, lasciando così ampio margine di sviluppo alla componente radicale del partito di Hamas.
Se comparisse un nuovo Stato sulla scena internazionale, probabilmente il dialogo tra le parti potrebbe accadere in maniera diversa e migliore.
Un aspetto amaro – ma doveroso – da affrontare è quello della vendita delle armi alle parti in conflitto. Sappiamo che le convenzioni internazionali vietano la vendita di armi a Paesi in guerra. Eppure, in Terra Santa, arrivano ancora tantissime armi: ad Israele sono state recentemente vendute anche dall’Italia; ad Hamas sono giunte testate missilistiche, probabilmente da vari Paesi, ma soprattutto dall’Iran.
Le armi creano evidentemente le condizioni per il riesplodere periodico del conflitto armato. Mentre – all’opposto – la comunità internazionale avrebbe dovuto e dovrebbe finanziare la pace, perché la pace ha bisogno naturalmente di ben altre risorse, non di armi!
A nostro modo di vedere, dovrebbe pure cambiare il modo – tipicamente occidentale – di vedere questo conflitto, evitando di schierarci per gli uni o per gli altri in maniera astorica ed acritica. Le tifoserie sono affatto fuori-luogo: qui ci sono popoli che soffrono da 70 anni! C’è sofferenza vissuta e testimoniata abbondantemente da entrambe le parti.
Non possiamo usare più termini che – anche involontariamente – possano suscitare risentimento e odio. La situazione è delicatissima. La nostra organizzazione ecclesiale cerca e dovrà cercare in tutti i modi un approccio e un linguaggio di attenzione e di riconciliazione. Abbiamo amici palestinesi come abbiamo amici israeliani. Questo posso dirlo anche di me stesso.
Certamente nella striscia di Gaza – ove siamo presenti con progetti di cui più sotto scrivo – c’è molta sofferenza, a cui si è aggiunta recentemente molta altra sofferenza.
Sono passati vent’anni da quando il partito di Hamas ha preso il controllo politico di questa striscia di territorio di fatto abitata da profughi palestinesi. Il bilancio degli ultimi 11 giorni di radicalizzazione delle posizioni e di aperto conflitto armato è ora tragico. I dati riportati nel dossier sono di fine maggio scorso: 269 persone sono morte appunto in soli 11 giorni, 256 palestinesi e 13 israeliane.
La sproporzione delle forze militari risulta evidente. Ma il dato davvero sconfortante è che di 269 persone morte 140 siano civili – in proporzioni chiaramente diverse per una parte e per l’altra – di cui 66 bambini palestinesi e 2 israeliani.
È chiaro: anche solo una vita – specie di un bambino – ha un valore inestimabile. 3.000 sono i feriti rimasti di “lungo periodo”, anche con disabilità permanenti. Si contano 8.500 nuovi sfollati. Nella striscia 4.500 persone non hanno accesso regolare all’acqua, la corrente elettrica è disponibile – sì e no – per 12 ore al giorno.
Molti edifici pubblici, specie scolastici sono stati distrutti. Naturalmente anche molte case sono andate in fumo, in una condizione igienica ed abitativa già molto precaria, caratterizzata – inutile dirlo – da grave povertà.
Il 22% dei palestinesi nei territori occupati vive sotto la soglia di povertà: ma questa è solo la media. Nella città di Gaza la percentuale raggiunge il 53%: dal 2011 ad oggi, in 10 anni, si è passati dal 38,8% al 53% appunto, con un trend in continuo peggioramento e ben prima di questi ultimi 11 giorni di fuoco. La disoccupazione raggiunge livelli altissimi.
I giovani palestinesi che pure studiano e si preparano non trovano lavoro. Non solo: non possono neppure andarsene e sono costretti a restare in uno spazio costipato paragonabile per estensione alla provincia di Prato, senza poterne uscire (e neppure rientrare).
Il 97% della popolazione di Gaza non dispone in ogni caso di acqua potabile, pulita, il che la dice lunga sulle possibilità di igiene e sulla facile diffusione delle infezioni. 2/3 delle scuole hanno i doppi turni di lezione, con una media di 39 alunni per classe. Si stima che buona parte dei bambini palestinesi di Gaza – circa 900.000 – soffrano di Post traumatic stress disorder: una analisi clinica nel 2014 aveva individuato 350.000 casi almeno.
In questo quadro – già grave e aggravato dagli ultimi giorni del conflitto – si collocano gli interventi di Caritas Italiana nella rete internazionale. Interveniamo in particolare a sostegno di Caritas Gerusalemme e della direttrice sr. Bridget, da anni coordinatrice dei progetti nella striscia di Gaza e nei territori occupati. Bridget conosce benissimo la situazione.
Il piano prioritario di interventi in atto è, giocoforza, di carattere sanitario e umanitario. Si tratta di prendersi cura – attualmente e almeno per i prossimi due mesi – di circa 12.500 persone, bambini, donne e uomini, fra cui malati e disabili, con trattamenti di base realizzati a domicilio, ossia là dove le persone si trovano, perché nei territori risulta alla gente persino complicato spostarsi.
Cura delle maternità a rischio e fornitura dei farmaci e dei presidi essenziali sono ovviamente all’ordine del giorno. Ci sono poi gli ambulatori più specialistici con 5 cliniche mobili e una fissa, con un totale di 60 persone tra medici, infermieri e altro personale al lavoro.
Nel dossier si può trovare il tutto nel dettaglio, in maniera che chi voglia contribuire possa “adottare” anche solo voci di costo unitarie di piccole proporzioni, comunque preziose per andare incontro alle necessità di queste nostre sorelle e fratelli in Cristo nella disdetta palestinese.