Le persone di 50 anni se ne sentono 43 dal punti di vista fisico e 41 dal punto di vista intellettuale; quelli di 65 se ne sentono addosso 53 e quelli di 85 si guardano come se ne avessero 68. «Non mi sento la mia età» è l’affermazione di molti. La percezione ha trovato conferma in una ricerca francese su 1.005 adulti (cf. La Croix-evenement 1 ottobre 2016). I progressi della medicina, una migliore igiene e alimentazione hanno permesso alla maggioranza della popolazione di invecchiare meglio dal punto di vista fisico e intellettuale.
Quando si diventa vecchi? Un politico di 50 anni è considerato giovane, uno sportivo di 30 anni è considerato vecchio, un muratore di 60 attende con ansia la pensione, un prete di 65 ha ancora 15 anni di attività davanti a sé. Per Ippocrate la soglia era i 56 anni, per Aristotele i 50, per Agostino i 60, per Montaigne il tramonto cominciava a 30. Ma per i ventenni di oggi la linea della vecchiaia scatta a 53 anni, per gli over-60 non prima degli 80. In sintesi, è difficile schizzare un modello-tipo di anziano e definire soglie di età.
Nello scostamento della percezione della propria età gioca la spinta sociale e culturale al giovanilismo e alle rappresentazioni sociali negative della vecchiaia. Il mercato e la pubblicità sono avvertiti e pronti: i beni per gli anziani sono presentati da uomini e donne, non giovanissimi, ma comunque in perfetta forma. È “necessario” essere giovane, parlare giovane, agire giovane, mentre la vecchiaia è presentata come stagione ansiogena e carica di negatività.
Nella realtà personale la sensazione della vecchiaia è legata all’apparire di elementi invalidanti, dolori cronici, difficoltà di deambulazione, disturbi della memoria e dell’equilibrio, l’assommarsi di molte malattie. Soprattutto il senso di inutilità sociale. Tutto questo può collocarsi in stagioni diverse ed è quindi opportuno considerare il continuum della vita piuttosto che le sue scansioni. «È più utile considerare la diversità dei bisogni delle persone anziane come un continuum personale», afferma il Rapporto mondiale sull’invecchiamento e la sanità (Organizzazione mondiale della sanità, settembre 2016). «Sebbene una parte delle diversità osservate (in ordine a ciò che caratterizza la vecchiaia) sia legata al nostro patrimonio genetico, la parte più significativa risulta dall’ambiente fisico e sociale in cui viviamo». E cioè, il domicilio, la famiglia, il vicinato, la comunità territoriale e la cultura dominante.
Nel XVII secolo si aveva una concezione molto negativa della vecchiaia nelle immagini, nella letteratura, in teatro ecc. Contrariamente al secolo successivo che vede rappresentazioni molto positive. Oggi siamo tornati a una valutazione dell’anziano come “problema”.
Ma invecchiare non è sinonimo di dipendenza e i costi prevedibili per gli anziani non sono necessariamente in crescita, soprattutto se si considerano i servizi e gli effetti positivi degli anziani nella società. Se nel 1700 solo una persona su tre poteva arrivare ai 60 anni, oggi può arrivarci la grande maggioranza della popolazione mondiale. «Benché le persone di 70 anni non costituiscano ancora la nuova generazione dei 60enni di un tempo, non c’è ragione per negare che questo potrà diventare reale nei prossimi decenni».
È opportuno un cambio di mentalità nelle politiche sanitarie – richiama l’Organizzazione mondiale della sanità – che lancia lo slogan: «invecchiare in buona salute». Ciò significa usare al meglio tutte le proprie capacità fisiche e intellettuali e agire contemporaneamente sui contesti ambientali che determinano la sensazione di benessere. «La società che invecchia richiederà una trasformazione dei sistemi di sanità, allontanandosi da modelli curativi basati sulle malattie per preconizzare la prestazione di cure integrate e concentrate sulla persona anziana. Questo significherà mettere in opera sistemi completi di cura di lunga durata, in alcuni casi (nazionali) partendo da zero. E sarà necessaria una risposta coordinata di numerosi altri settori oltre a quello della sanità, e a diversi livelli del governo. La risposta dovrà essere fondata su un mutamento decisivo nel nostro modo di apprendere l’invecchiamento» in buona salute, come un processo di sviluppo e di mantenimento di capacità funzionali nelle persone anziane.
Un’ars vivendi nova e un’ars moriendi nova che interpellano la pastorale e la teologia, non meno che la sanità e la cultura.