Nervi saldi, coscienze orientate e ragionevolezza infinita dovrebbero ispirare sempre, ma in particolare nei momenti difficili, la visione di riforma del complesso della giustizia.
Più o meno il contrario di quel che ha scritto Marco Travaglio nel recente e acido articolo dedicato al Ministro dal titolo “La vispa Cartabia”, ma pure a distanza di anni luce dalle posizioni radicali delle diverse forze politiche e in parte delle associazioni dei magistrati, degli avvocati e del mondo dell’accademia.
Il cuore della riforma
Finiremmo per perderci nel dedalo delle questioni se non ci riducessimo al cuore dei problemi più evidenti: durata dei processi penali e prescrizione, pena e carcere. Sull’efficienza che tutti ci aspettiamo da un servizio fondamentale dello Stato, mi limiterò ad osservare che non si può cadere nel circolo vizioso del cane che si morde la coda.
Se la riforma Cartabia è la premessa ineludibile ai finanziamenti europei e se la manna della disponibilità finanziaria consentirà tutti gli investimenti per coperture e per i potenziamenti degli organici, informatizzazione del processo e modernizzazione del servizio, occorre dar credito al Governo e confidare nel senso di responsabilità del Parlamento.
In passato ho avuto occasione di criticare la riforma Bonafede, specie in merito alla prescrizione del reato eliminata dopo il primo giudizio, osservando principalmente che per accettarne gli effetti si sarebbe dovuto farla precedere almeno da una corretta riforma processuale che garantisse la ragionevole durata dei processi.
Poi – solo dopo la verifica dei risultati sul campo in un arco temporale di almeno cinque anni – si sarebbe anche potuto abrogare l’istituto pur secolare della prescrizione. Tale sembra essere il percorso intrapreso dalla odierna riforma Cartabia, forte di almeno due supporti non trascurabili: da un lato la Commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi, altissimo magistrato e giurista, ha indicato questa direttrice sforzandosi anche di proporre soluzioni tecniche alternative; dall’altro lato la Corte Costituzionale, proprio in questi giorni, ha pronunciato la sentenza N. 140 con la quale ha ribadito – scolpito – l’imprescindibilità della prescrizione quale espressione del rispetto del principio di legalità.
Si deve esigere dal legislatore, infatti, “la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività della responsabilità penale”.
Il quadro costituzionale
Può essere che questo non piaccia a qualche politico, magistrato, avvocato, studioso o giornalista, ma è impossibile ad oggi calpestare i principi stabiliti dalla Costituzione vigente. Può essere che la soluzione di una prescrizione meramente processuale successiva al giudizio di primo grado – due anni per l’appello, un anno per la cassazione – adottata dal Ministro Cartabia sia tecnicamente eccepibile.
Ma gli aspetti citati non debbono frenare la necessità assoluta della riforma. Ed anzi, laddove si indicano termini così precisi, si lancia un messaggio molto positivo, condivisibile e desiderato, per percorrere la strada inutilmente sollecitataci dall’Europa per anni e anni.
Normalizzarci significa abbandonare l’evidenza dell’accidia. Quello Stato, che gonfia il petto per sostenere “il potere sono io”, non può far ricadere sui suoi cittadini la propria incapacità strutturale.
Laddove la nostra Costituzione, in linea coi principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, disciplina il Titolo dei “Rapporti civili” sottolineando prima i diritti e poi i doveri dei cittadini, ci dice dunque che deve esserci un equilibrio garantito fra libertà e potere. Al rispetto delle regole deve essere chiamata una persona che sa di poter confidare nel rispetto di altrettante regole da parte dello Stato.
Giustizia e pena: il dibattito nella Costituente
A questo proposito il pensiero non può che correre all’avvilente vicenda avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A chi sono affidati e in chi possono confidare le persone carcerate?
È noto – cioè è esperienza comune – che la fragilità del carcerato nasce da una doppia esposizione al sopruso, quello dei compagni di sventura e, ancor peggio, quello dei preposti alla custodia. Lo ha evidenziato Milena Gabanelli dalle pagine del Corriere della Sera, anche se è difficile condividerla nel punto in cui il problema sarebbe riconducibile alla mera libertà di movimento all’interno del carcere.
In realtà nel nostro Paese si trascina da sempre, quanto meno dalla nascita della Repubblica, la questione della pena da tenere distinta dalla sua esecuzione, ossia dal trattamento penitenziario.
I Padri costituenti ne hanno ampiamente e autorevolmente dibattuto nelle Sottocommissioni e nella Commissione per la Costituzione e nell’Assemblea, offrendoci il testo finale dell’art. 27, quello sulla responsabilità penale personale (non oggettiva né per fatto altrui), sulla presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva, ed infine circa le pene “umanizzate” a principiare dall’inammissibilità della pena di morte.
Fu il relatore Piero Calamandrei ad insistere ed ottenere che la norma dovesse “trovar posto” nella parte riguardante “i diritti dei cittadini”. Dunque, il “condannato” è un cittadino, con pari diritti rispetto a tutti gli altri.
Di straordinario interesse fu il dibattito che vide contrapposti scuole di pensiero, sensibilità e orientamenti ideologici, fatti convergere infine in una previsione unitaria. Il terzo comma dell’art. 27 esordisce con “le pene”, cioè rende centrale la questione delle pene per sé stesse, prima ancora della modalità della loro esecuzione.
Per questo aspetto venne tenuta ferma la proposta del Presidente Ruini perché pure la Costituzione – e non semplicemente il legislatore ordinario – dovesse avere a cuore il sistema delle pene, nel momento stesso nel quale si voleva costituzionalizzare l’eliminazione della pena di morte.
Così i costituenti di estrazione marxista Terracini e Nobile proposero un emendamento davvero rivoluzionario ovvero che “le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni”. Pur disponibili a discutere al rialzo tale limite, questo doveva comunque “dare un contenuto umano alle pene” cioè “un limite commisurato alla durata della vita umana e allo scopo per cui sono inflitte”.
È vero che la spinta contro “l’abbruttimento progressivo” indotto da pene detentive di eccessiva durata e in favore del “progresso sociale del mondo” traeva ingenuamente origine dalle previsioni del codice penale russo. Ma è altrettanto vero che così si poneva con serietà la tesi dell’abolizione dell’ergastolo, fortemente propugnata dall’on. Togliatti.
Così, tra gli applausi di molti, Nobile concluse il suo intervento per la soppressione senza riserve – cioè neppure nel tempo di guerra – della pena di morte, osservando: “ma, allora, perché conservare quella morte in vita che è la pena dell’ergastolo?”.
I costituenti di matrice cattolica, anche molto autorevoli come Bettiol, Leone e Moro, invocarono la concezione cristiano-sociale del duplice fine della pena: preventivo per la conservazione dell’ordine etico vigente nella società, vendicativo-satisfattorio, per la restituzione dell’ordine violato, ritenendo l’emenda, cioè il fine rieducativo della pena, uno scopo complementare, apprezzabilmente rispettoso dei valori di carità e di fraternità.
Ne seguì il compromesso del “devono tendere alla rieducazione del condannato”, anziché “hanno finalità rieducative”. Tutto quello che si è sviluppato nei decenni successivi suggerisce il permanere dell’inadeguatezza strutturale, ma pure la positiva evoluzione verso un trattamento più umano del condannato, grazie proprio agli stimoli posti dalla Corte costituzionale.
Il carcere di Santa Maria Capua Vetere
Tra le tante prese di posizione dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere sento il dovere di fare mio il comunicato espresso dal Conams (Coordinamento dei Magistrati di sorveglianza) laddove invoca “un nuovo catalogo di pene alternative alla detenzione, attraverso seri percorsi rieducativi, risocializzativi e riparativi”.
Con encomiabile onestà intellettuale e con la forza di chi opera quotidianamente per la “vivibilità delle carceri”, il Conams “interpella anche tutta la magistratura giudicante e requirente sulla profonda esigenza di una comune concezione delle finalità costituzionali del processo e della pena e sulla condivisione sinergica di intenti e interventi che tali finalità realizzino nella concreta pratica giudiziaria”: parole sacrosante di adeguamento culturale e di conversione morale.
Un paese in via di cambiamento
In un Paese che ha mantenuto un codice penale degli anni ’30 del secolo scorso, di impronta carcero-centrica, ovvero di individuazione del carcere quale unica, effettiva, sanzione al reato, con la previsione per di più della massima pena dell’ergastolo – arrivando ad irrigidirlo nell’ergastolo ostativo! – c’è davvero molto che non funziona, senza peraltro rimedi efficaci laddove ci si arresti alla soglia del cortocircuito delle diverse istanze politiche.
Questo Paese sta cambiando. Personalmente ho fiducia nella capacità del Ministro Cartabia. Il mondo stesso sembra lentamente recuperare terreno.
Se non ora, quando? “In fretta”, “subito”, direi: aboliamo l’ergastolo! Finirà per trarne giovamento l’intero sistema. Anche il condannato sarà considerato e trattato quale persona umana.
Un processo giusto nei suoi tempi ne sarà la premessa più coerente.