XVIII per annum: Una scoperta oltre gli equivoci

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Com’è noto, la brevità del vangelo di Marco ha costretto i redattori del Lezionario a integrare la serie delle letture con quattro spezzoni del lungo discorso sul pane di vita del capitolo 6 di Giovanni che segue il racconto della moltiplicazione dei pani ascoltato domenica scorsa. Va detto che, a causa della coincidenza dell’Assunta con la domenica 20, si salta la sezione Gv 6,52-59 prevista per quella domenica, anche se, per lo sviluppo integrale del tema, è bene aver presente l’intero discorso.

La scelta costituisce comunque un’ottima soluzione, sia perché il miracolo dei pani appare in tutti e quattro i vangeli, e dunque risulta di importanza cruciale nel percorso di Gesù, sia perché il compito che Giovanni si assegna è precisamente quello di aiutare a leggere il miracolo come un segno (cf. Gv 2,11). Siccome il segno è qualificato come qualcosa che rimanda ad “altro”, le letture che accompagnano il racconto evangelico sono mirate appunto a introdurre il vario significato che prende di volta in il termine “pane”.

Pane dal cielo

Per cominciare, si parte con il segno che accompagnò il faticoso cammino dell’Esodo nel deserto (Es 16,2-4.12-15). La situazione per Mosè si è fatta molto difficile: il popolo ha fame e sete, cresce la nostalgia per il paese da cui sotto la sua guida è uscito, dimentica la “libertà” verso la quale è diretto davanti all’esigenza di sopravvivere. Tutta la comunità “mormora”, un modo gentile per dire che “protesta”. Arriva a pensare che, forse, era meglio morire in Egitto!

Davanti a tale situazione, Mosè riceve dal Signore la promessa che il popolo avrebbe ricevuto un «pane venuto dal cielo». La reazione dal popolo al vedere al mattino come «una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra», si chiese cosa fosse, man hu?, da cui la parola “manna”.

Due annotazioni in proposito. La prima consiste nel “non sapere” di cosa si tratta, il che apre la strada alle varie interpretazioni che riceve questo “pane che viene dal cielo”; la seconda riguarda la misura di cibo che ciascuno è autorizzato a prelevare, e questo per mantenere la fiducia nel nutrimento offerto da Dio, da rinnovare ogni mattina, per affermare la nostra dipendenza da lui e insieme celebrare la nostra gratitudine.

C’è già qui un principio che mette radicalmente in causa l’ingordigia, causa e radice di tutti i mali (1Tm 6,10), e ci impegna a ritenere che il “pane quotidiano” che domandiamo nella preghiera è pur sempre un dono, destinato a tutti come bene vitale per l’esistenza.

Imparare Cristo

La seconda lettura (Ef 4,17.20.24) potremmo leggerla come la risposta a una domanda: di quale nutrimento abbiamo bisogno per passare da “uomini vecchi” a “uomini nuovi”? Detto altrimenti, quale “manna” ci è necessaria perché i nostri pensieri, e ancor più i nostri desideri, non siano “vani”, cioè vuoti e sterili? La risposta è chiara, e consiste “nell’imparare a conoscere il Cristo”.

Qui va fatta un’osservazione sulla traduzione offerta, perché nel testo originale, greco e latino, non compare quella che si rivela essere la “parafrasi” di un’espressione più compatta e più ricca di senso. Forse con la traduzione offerta si è pensato di rendere più “facile e comprensibile il testo”, ma in effetti se ne riduce il significato. Per diventare “uomini nuovi”, infatti, diventa obbligatorio imparare Cristo, studiare e imitare il suo comportamento, quale ci è trasmesso da una frequentazione assidua e partecipata dei vangeli.

Questo approccio ci sottrae al rischio di leggere primariamente il testo in chiave di “conoscenza”, che temo indirizzi istintivamente a uno studio teorico o teologico che dir si voglia. Questo non basta, e non sembra neanche una preoccupazione primaria. Del resto, il seguito è chiaro nel dire che, per diventare «uomini nuovi creati secondo Dio nella giustizia e nella vera santità», è giocoforza «abbandonare la condotta dell’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli».

Sarebbe meglio, insomma, parlare di “imitazione di Cristo” piuttosto che di “conoscenza di Cristo”, o comunque tenere in sano equilibrio sia la conoscenza intellettuale sia l’imitazione personale, dove l’accento principale è sulla seconda, come le tante storie di santi ci insegnano.

A scuola dei “segni”

Si arriva così al brano evangelico (Gv 6,24-35), che comincia a metter in chiaro di quale tipo di pane intende parlare Gesù, e cosa ha inteso fare con la moltiplicazione dei pani per la folla. Questo perché in quello che dice o fa Gesù il rischio dell’equivoco è altissimo, come si è appena visto nel brano ascoltato domenica scorsa, dove la gente cerca Gesù «per farlo re».

Il fraintendimento, almeno iniziale, è una regola nei vari dialoghi che Giovanni presenta nel suo racconto, da Nicodemo, che non capisce il senso del “nascere di nuovo”, alla Samaritana, che fraintende sul senso della sete e dell’acqua che offre Gesù, dal “cieco nato”, la cui guarigione introduce tutta una serie di equivoci che, una volta chiariti, porta all’affermazione paradossale per cui i veri “ciechi” sono proprio quelli che credono di vedere, e per finire lo scambio di battute con Pilato che non riesce minimamente a seguire e a capire ciò che dice Gesù circa il suo “regno”, al punto che, davanti alla pur comprensibile incomprensione del procuratore romano, Gesù cessa di rispondere e si chiude nel silenzio.

Tutto questo, e altro che si potrebbe aggiungere, ci porta a una conclusione di somma importanza: le domande che costellano il discorso sul pane di vita non sono solo la registrazione di quanto è accaduto, ma sono soprattutto le stesse domande che ci facciamo noi oggi, e che dobbiamo continuare a porci, se vogliano capire bene da dove Gesù viene e a cosa ci vuole condurre.

Non è casuale che la pagina cominci con l’annotazione che la folla va alla “ricerca” di Gesù, e le domande con cui lo bersagliano in questa prima serie riguardano il quando è venuto dove lo trovano ora, il che cosa si deve fare per compiere le opere di Dio, quale “segno” lui compie perché possano “vedere e credere”. A questo ne seguiranno altre man mano che la spiegazione del segno mira a far comprendere cosa sia, e Chi sia, il “pane di vita”. Nel brano di oggi ne troviamo almeno tre.

“Rabbi, quando sei venuto qua?”. La risposta di Gesù mette subito in crisi il perché della loro ricerca: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato e vi siete saziati». È la denuncia di un equivoco che genera una falsa aspettativa. Questo che va cercato, invece, «non è il cibo che non dura, ma per quello che rimane per la vita eterna», e aggiunge: «quello che il Figlio dell’uomo vi darà».

Il primo passo da fare è dunque “purificare l’attesa”, operazione che va fatta ripetutamente nel corso dell’esistenza. C’è un tempo liturgico specifico consacrato a tale esercizio: è l’Avvento con cui si dà ogni volta inizio al cammino di imitazione di Cristo circa il quale le nostre attese vanno continuamente messe sotto esame e, nel caso, provvedere a raddrizzarle.

La folla sembra aver capito, perché pone una seconda domanda: «Cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?», cioè per nutrirci del cibo che dura? La risposta è rapida e semplice: «Questa è l’opera di Dio, credere in colui che egli ha mandato».

In realtà, la cosa non è poi così semplice come appare: come si fa a operare con delle “azioni” mediante quello che sembra un atteggiamento fondamentalmente intellettuale? La risposta ora ci costringe a riflettere su cosa intendiamo per “fede”.

Due affermazioni vengono alla mente: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1); l’altra dice che «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). C’è, dunque, una combinazione che unisce un sentimento interiore, che si materializza in opere esteriori. Una cosa senza l’altra sfuma nell’insignificanza.

A Gesù che chiede di credere in lui, viene contrapposta una terza domanda: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo?». È evidente che il “segno” che Gesù ha già offerto con il miracolo dei pani non è bastato, anzi – e questo è ancora peggio – è stato frainteso.

E qui interviene il ricordo di Mosè che – come è stato ricordato nella prima lettura – aveva ottenuto dal cielo la manna per sfamare il popolo. Qui la risposta è chiara ed esplicita: «Non è Mosè che vi ha dato il pane del cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane del cielo, quello vero». Sempre nel segno dell’incomprensione, la risposta rimane nel segno già denunciato di una ricerca di Gesù per aver garantito il pane senza fatica, la stessa reazione della donna samaritana che aveva capito la stessa cosa quando Gesù le parlava di “un’acqua” capace di dissetare per sempre.

A questo punto, nella speranza di ave chiarito a sufficienza la spiegazione, Gesù si decide e proclamare apertamente: «Io sono il pane della vita: chi viene a me non avrà fame, e chi crede in me non avrà sete, mai!».

Come già accaduto con Nicodemo, con la Samaritana, con il cieco nato, per capire quello che intende Gesù, è necessario passare da un livello interpretativo ordinario al vedere nelle cose una dimensione più profonda di quella superficiale, vedervi un “segno”, cioè qualcosa che indirizza a qualcosa di “altro”.

Questo è il principio che funziona in tutto Giovanni: si parte da un fraintendimento per introdursi in un mistero più alto, per passare dalla transitorietà temporale all’eternità promessa che intravediamo e che ci attende, perché la fede, appunto, è «è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede».

Questo brano offre da subito uno schema interpretativo del “segno” che servirà a leggere tutto il resto, anche se questo non faciliterà automaticamente la comprensione, anzi! Interviene qui un’altra prospettiva che regge da cima a fondo il vangelo di Giovanni: quello della lotta tra luce e tenebre, già annunciato nel Prologo.

La conclusione della storia, ahimè, ha tutte le apparenze di un fallimento: quelli che erano venuti a cercare Gesù, alla fine lo abbandonano. Rimane chiara, alla fine, la confessione di Pietro: «Da chi andremo, Signore? Tu solo hai parole di vita eterna».

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