L’intera Chiesa cattolica è impegnata nel Sinodo universale. In parallelo, per scelta “di metodo” di papa Francesco, la Chiesa italiana avvia il proprio percorso sinodale, a partire dalle diocesi. Francesco ha chiesto un Sinodo basato sull’“ascolto”. E, in effetti, le voci che varrebbe la pena ascoltare sono tantissime, forse anche un po’ al di fuori del perimetro “tradizionale” del consueto confronto ecclesiale.
Destinato ad essere lettera morta?
Un Sinodo è, in fondo, l’essenza stessa della Chiesa e della fede, che è appunto “cammino”, letteralmente “strada fatta assieme”. Ma in Italia veniamo da molti anni in cui Sinodi e Convegni ecclesiali – pur ricchissimi di contenuti, di importanti confronti, di stimolanti documenti conclusivi – sono rimasti quasi lettera morta. Incidendo ben poco sulla realtà ecclesiale e – ancor meno – sociale del Paese.
Del resto, che coinvolgimento hanno avuto, realmente, i fedeli o le comunità locali nelle decisioni di Palermo o di Firenze? E non a caso Francesco – lo scorso 24 maggio – ha proposto all’Assemblea generale della CEI che il Sinodo sia proprio un tentativo di attuare le scelte del Convegno di Firenze, che – parlando a braccio – ha associato al termine “amnesia”: come se, dal 2015, quelle scelte giacessero dimenticate e abbandonate.
Da laico davvero “comune”, da “praticante” come tantissimi altri, senza ruoli particolari nella Chiesa, posso solo dire con la massima sincerità – ma anche con la massima sollecitudine – che è difficile credere che il nuovo Sinodo possa produrre effetti diversi da quelli delle passate esperienze della Chiesa italiana, e “convertirci” realmente, laddove ne abbiamo bisogno.
Servirebbe forse, davvero, una profonda consapevolezza che i tempi che viviamo non sono ordinari e che i “segni” di questi tempi (la pandemia, certo, ma anche tanti altri: la rivoluzione digitale, la crisi ecologica e quella migratorio/demografica, solo per fare qualche esempio) sono davvero “segni” eccezionali, che richiedono un discernimento speciale e un impegno straordinario per chiedersi: ma che strada, che “sinodo” dobbiamo davvero intraprendere insieme, per navigare con la barca della Chiesa anche questi tempi?
Insomma, renderci conto davvero che continuare a ripetere e difendere (a stento) quello che si è sempre fatto non può più bastare, e che tante cose andrebbero messe in discussione, seriamente, perché la Chiesa possa restare una “luce” in questi tempi di difficile discernimento, e non finire sotto l’evangelico moggio.
Un tesoro di esperienze da valorizzare
Mi sono chiesto se c’è anche solo un minimo contributo che – da laici comuni – possiamo dare a questo discernimento, al difficilissimo lavoro a cui sono chiamati i vescovi, i presbiteri (sempre più anziani e sempre meno numerosi) e i laici più impegnati nelle diocesi, in vista del Sinodo. Perché non sia solo un compito “loro”, che poco tocca – e poco cambia – la Chiesa locale, le parrocchie, e la stessa società italiana…
Penso che, anche in questi percorsi, lo “specifico” dei laici sia sempre lo stesso: portare dentro alla Chiesa e al suo dibattito tutta l’umanità e le sfide che incontriamo ogni giorno, nel lavoro, nella scuola, nell’impegno sociale o, per i pochi rimasti a praticarlo, in quello politico.
C’è un “tesoro” di conoscenze, di competenze, di esperienze, che i laici maturano ogni giorno, tra famiglia, impegno e lavoro, e che non sempre transita dentro al dibattito ecclesiale, assai monopolizzato – francamente – dalle voci sacerdotali, che sono portatrici di uno “specifico” sicuramente superiore a quello laicale, ma non in grado di sostituirne la prospettiva di realtà.
Penso anche alle voci laicali di chi ha provato per anni – o ancora prova, sempre più faticosamente e isolatamente – a fare politica come «forma alta di carità» (Paolo VI).
Basta guardare lo spettacolo desolante della nostra politica nazionale, per renderci conto di come “fare politica” significhi coltivare una utopia tra le più alte (o forse, tra le più insensate). Si tratta di figure spesso considerate con sospetto, anche nel mondo ecclesiale. Sempre sospese, come sono, tra il servire l’evangelizzazione attraverso le scelte temporali, e il servirsi dell’appartenenza ecclesiale per consolidare consenso; tra “funzionalizzare” le istituzioni civili perché facciano arrivare fondi a iniziative ecclesiali, o rispettarle per quello che sono, cercando lo “specifico” laicale nel far funzionare la civitas in sé, non nel farla funzionare a vantaggio della Chiesa.
Un equilibrio difficile da trovare, da sempre, e da cui raramente si esce immacolati. Tanto più che, finita irrimediabilmente la stagione dell’unità politica dei cattolici, la loro divisione politica in mille rivoli ha determinato l’idea che fare “politica da cristiani” sia – a seconda dei casi – inutile, o utile solo a “coltivare” alcune sacche di consenso (sempre più marginali, del resto): insomma, dirsi politici cristiani sembra diventata una bandierina da sventolare in piazza (come certi rosari), o al massimo una difficilissima questione di coscienza personale. Ma da quanto tempo la Chiesa non sente più il dovere di formare comunitariamente questo servizio laicale alla politica? Accompagnarlo, perché non si sperda? Soprattutto, inondarlo della sua ricchezza culturale e della sua grazia, perché non si inaridisca e diventi sterile?
Eppure, non si può dire che la Chiesa non “faccia politica” in Italia e non sia sollecita della comune sfera civile. Papa Francesco, in particolare – sia detto col massimo rispetto – è forse il maggiore politico che faccia udire la sua voce nel nostro Paese, e forse nel mondo. Una delle pochissime voci che meriti davvero l’aggettivo “politico”: che è un aggettivo bellissimo e preziosissimo.
Il problema, però, è che una voce sola, o quella di un manipolo ristretto di vescovi e cardinali, non basta. Può certamente ispirare e influire sui processi decisionali e quindi sulla guida politica della società. Ma lo fa, inevitabilmente, “da fuori” le istituzioni, come vox clamans. In questo modo – pure utile – finisce persino per accelerare l’evoluzione perniciosa in atto nella politica, che sempre meno è questione di comunità, di gruppi, direi di “popolo”, e sempre più è scontro quotidiano (televisivo e social) di prese di posizione di attori singoli, più o meno autorevoli.
Partiti, sindacati, associazioni e tutto quanto è “comunitario” e “popolare” va da anni impoverendosi. E sarebbe necessario chiedersi che “cosa pubblica” sia quella che ha dentro sempre meno popolo, cioè – in greco – sempre meno laos (da cui “laico”) e sempre meno demos (da cui “democrazia”); insomma, un popolo che vota e basta, e partecipa poco alla costruzione delle decisioni.
Sarebbe bellissimo, allora, che il Sinodo (che ha dentro intrinsecamente questa idea del “fare insieme”) si facesse carico di questa duplice sfida: dell’usura della natura democratica delle nostre società, e dell’“utopia” di combatterla non con voci singole – per quanto altissime e ispirate – ma con un lavoro “dalla base” di formazione e – ciò che più manca – di accompagnamento quotidiano e “spirituale” dei non pochi ma “isolati” laici credenti impegnati in politica, nel sindacato e nelle forze sociali, o dei tantissimi che potrebbero decidere di farlo, se solo qualcuno li sostenesse nel “come fare” e nel “non scoraggiarsi”.
Le utopie di un papa
Ma non pretendiamo troppo, abbandoniamo le utopie, e ringraziamo che nelle sue tre encicliche papa Francesco ci abbia fatto dono di una lucidità politica e profetica che ai nostri leaders – in troppi casi – manca da tempo, presi come sono dall’agone quotidiano dei social e delle dichiarazioni, dei sondaggi e degli uffici stampa.
Sarebbe bellissimo, allora, che il Sinodo trovasse un modo per “spezzare” a tutta la comunità cristiana, anche a quella più impoverita e culturalmente sperduta, il pane preziosissimo della visione “politica” globale di Francesco. Fare in modo che questo pane entri davvero nelle menti, nelle vite, e che le pur importanti discussioni sulle sagre e sui trasferimenti dei parroci lascino un poco di spazio a quelle sulle priorità per costruire una società più umana e più giusta, e quindi anche più evangelica ed evangelizzabile.
La parola priorità, in tempi così complessi, dovrebbe essere davvero un obbligo morale. Definire priorità per non smarrire la bussola, per fare discernimento, per non vivacchiare nel giorno per giorno ecclesiale (che è esattamente il motivo che papa Francesco ha indicato alla Chiesa Italiana per avviare il Sinodo).
Si potrebbe allora provare a rileggere la nostra società italiana, soprattutto le sue tante civitas (le sue città e le sue piccole comunità locali e vitali), alla luce delle tre grandi encicliche di papa Francesco.
Sarebbe un lavoro immenso, pieno di tesori e ricchezze. Tra cui occorrerebbe comunque scegliere, per quanti sono. Nessuno, e men che meno chi scrive, può avere la pretesa di farlo, da solo. Ma può essere e deve essere uno sforzo di discernimento comune. Tre piccole – e grandissime – piste si potrebbero indicare solo per iniziare il lavoro, per partire, e vedere poi dove ci porta il Sinodo, la “strada fatta insieme” (magari, da tutt’altra parte di quella che ognuno di noi laici potrebbe adombrare, alla luce della sua parziale e limitata esperienza del mondo e nel mondo).
Tre spunti dalle encicliche di papa Francesco
La mia, di formatore professionale e di persona per qualche tempo prestata alle istituzioni locali, ad esempio, suggerirebbe tre spunti, tutti da verificare e sviluppare, uno per ciascuna enciclica di Francesco:
* Ricostruire le città. Nella Lumen fidei (2013), nel quarto capitolo, Francesco ci ricorda che il progetto di Dio è la costruzione di una città, il dono di una città: «Ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11,16). Il Regno di Dio è visibile come uno spazio di convivenza tra gli uomini, liberato dai suoi limiti attuali.
La famosissima affermazione di Francesco per cui «il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare» (n. 57) è molto spesso ricordata, ma quasi mai si ricorda che essa è inserita nel contesto di un capitolo che è appunto dedicato alla “città”, alla polis.
Sarebbe bellissimo, allora, se tra i frutti, o almeno tra i temi del Sinodo della Chiesa italiana, ci fosse la priorità – autentica – di chiederci come “iniziare processi”, nelle parrocchie e nei movimenti, perché nel tempo i cristiani italiani possano tornare in modo più visibile e consapevole ad essere costruttori della città dell’uomo, come immagine che apre alla speranza di quella che Dio ci donerà.
Già in realtà le Chiese locali lo fanno moltissimo, nel sociale e nell’assistenza (ad esempio): ma perché non porsi l’obiettivo “donmilaniano” di tornare seriamente a farlo nel sindacato, nella politica, che è iniziare processi per “sortirne insieme”?
* Testimoniare la sobrietà e l’equità. La Laudato si’ (2015), con la sua riflessione sul creato, suggerisce al capitolo IV (Per un’ecologia integrale) un’altra importante chiave “politica” per la Chiesa: la questione ecologica è una questione di relazioni. Tra uomo e natura, ma ancora prima tra uomo e uomo. La crisi dipende dallo stile di vita delle società umane che abitano il pianeta. L’ecologia integrale è per forza un’“ecologia sociale” (n. 142).
Quale migliore motivazione, allora, dell’urgenza ambientale e climatica – sempre più tragica – per dedicare alla nostra politica la sapienza millenaria e prospettica della Chiesa, proponendo più seriamente dai pulpiti e nelle catechesi – a partire dal Sinodo, ovviamente – una nuova etica del credente, in cui la sobrietà della vita diventa una chiave fondamentale dell’identità del cristiano?
Sobrietà che è anche equità nell’impiego delle risorse comuni, quindi attenzione alle povertà, alle periferie delle città e del lavoro…
Insomma, chi se non la Chiesa potrebbe oggi insegnare (e testimoniare) alle nostre società, ai nostri giovani, alle nostre città, uno stile di vita alternativo all’idolatria del consumo e alla cultura dello scarto? Sarebbe un’altra priorità importante per la Chiesa italiana e per il suo servizio al Paese.
* L’emergenza educativa come emergenza democratica. La Fratelli tutti (2020), infine, nella sua enorme ricchezza, propone la fraternità come chiave per salvare il futuro dell’umanità. È quindi inevitabilmente un’enciclica politica e sociale, che contiene un richiamo durissimo alla politica che sta diventando il luogo «dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico» (n. 197).
Dare nuovo senso alla parola “popolo” come attore partecipante, non come spettatore o consumatore della politica, come avviene nei populismi che giocano sull’«abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo» (n. 159). Perché il popolo non diventi spettatore, ma resti il sovrano della democrazia, e del proprio destino futuro, serve uno straordinario sforzo educativo e civico.
La digitalizzazione, in particolare, spiazza del tutto le nostre culture e chiama la Chiesa – soprattutto verso i giovani – ad un compito altissimo, che è quello di fronteggiare l’“emergenza educativa”. Senza successo educativo il futuro sarà manipolabile da pochi. Chi meglio della Chiesa italiana, con la sua enorme ricchezza di esperienze formative, potrebbe porre al centro del progetto sinodale la priorità di educare i giovani al nuovo millennio, “vaccinarli” verso i rischi della massificazione digitale, della comunicazione diadica e manipolatoria, dei monopoli dell’informazione e della ricerca su internet, che in ultima istanza sono pericoli (e insieme enormi opportunità) non solo per le menti, ma per le società democratiche stesse?
Aspirazioni eccessive?
Possono sembrare temi troppo alti. Ma, se li riportiamo nel piccolo delle nostre città e dei nostri paesi, potremmo scoprire, ad esempio, che:
* Scelte quotidiane e amministrative di urbanistica, mobilità e uso del territorio generano spazi non umani, e nuove esclusioni;
* Lavoro e tempi di vita, redistribuzione della ricchezza attraverso un giusto salario, sono priorità quotidiane per non generare alienazioni e discriminazioni destinate inevitabilmente ad esplodere;
* Solo uno Stato, un Comune, un “pubblico” autorevole può ambire a guidare o limitare i processi di accumulo iniquo propri della società digitale globale, pensando nuove forme di fiscalità e welfare;
* Solo uno sviluppo culturale diffuso, in ultima istanza, e scuole di educazione alla cittadinanza della “città globale dell’uomo” potranno salvarci da società elitarie e non democratiche.
Insomma, una Chiesa che nei paesi e nelle città parlasse davvero quotidianamente, e con profezia, di spazio urbano, di lavoro, di stili di vita, di valore delle istituzioni, di scuola e di educazione permanente, sarebbe portatrice di un servizio altissimo alla comunità civile e, insieme, alla propria vocazione evangelica.
Secondo le stime ONU, nel 2050 i due terzi dell’umanità vivranno in città. Ci sarà sempre meno popolazione isolata o rurale. C’è lo spazio, nelle priorità della Chiesa, per versare la sua saggezza millenaria in un nuovo “umanesimo urbano”, da donare all’umanità del XXI secolo? In una società e in una politica ormai estremamente superficiali, quali altre “riserve” di sapienza e di visione esistono ancora? Chi altri saprà pensare così globalmente e diacronicamente, se non la Chiesa cattolica?
L’immagine di paradiso che l’Apocalisse (cap. 21) ci ha voluto consegnare è quella di una città. Non di una foresta o di un giardino: ma di uno spazio dove gli uomini abitano insieme (con Dio). Forse prendere un po’ più sul serio i grandi temi che la politica globale e locale ci propone ogni giorno potrebbe aiutare anche la nostra Chiesa, nel Sinodo, a ritrovare sé stessa, la prospettiva del Regno, e a ritrovare priorità autentiche, per l’umanizzazione e l’evangelizzazione del terzo millennio.
Encomiabile l’analisi di Boschini. purtroppo utopica in quanto anche sulla pandemia, tema impegnativo ma anche molto etico e attuale siamo distanti anni luce soprattutto fra cristiani. nessuno eccetto pochi (come me) hanno contestato la “dittatura” scientista di governo e istituzioni sul vaccino salvatore e prima ancora sul lockdown salvatore… mentre il cristiano deve avere quella speranza, quella fiducia, quel coraggio di vivere in questa società ormai di NON MORTI (come citava un filosofo coreano tedesco). quindi ripeto che dobbiamo recuperare una voce sui media, fra di noi ove poter discutere e prendere decisioni anche contro corrente, ricompattando (anche sui vari temi del “decreto Zan” e altri tentativi di annacquare l’umanità, prima ancora che parlare di urbanistica. sui temi etici è in gioco il futuro dei prossimi 1000 anni, su quelli di politica spicciola le prossime elezioni. Buon lavoro e riflessione