Il 22 luglio scorso, nell’ambito delle iniziative dell’associazione Salentosophia, si è svolta a Santa Maria di Leuca la presentazione dei libri di Barbara Alberti, Chiara e Francesco (EDB 2019) e di Gianluca De Candia, Il rovescio del vangelo (EDB 2018). Riportiamo di seguito l’intervento di Gianluca De Candia sul romanzo di Barbara Alberti. Una presentazione dell’opera di De Candia fatta da Barbara Alberti è accessibile in formato audio a questo link.
Pioveva in quell’ottobre del 2007 quando conobbi Barbara Alberti. Fu per caso che ci ritrovammo a parlare a casa sua: e parlando, fummo di colpo iscritti in un cerchio quasi magico di intesa naturale fra di noi. Della storia della nostra conversazione – pullulante di personaggi, battute memorabili, risate e discorsi anche molti seri – racconterò solo la scena iniziale. Eravamo nel suo pensatoio, circondati da libri tutt’intorno a parlare di Dio. Come ci ha appena confidato lei, il Dio della sua infanzia era una sorta di poliziotto dietro la luna, per il quale tutto era peccato, anche mangiare un gelato o guardarsi troppo allo specchio. Non dimenticava la rozza malizia dei confessori, e l’idolatria delle suore dalle quali andava a scuola, e i colpi di riga sui geloni («ma soltanto ai bambini poveri»). Epperò il tono del suo racconto tradiva qualcosa come un distacco affettuoso, grato persino per quel non-so-che che aveva ricevuto suo malgrado da quel piccolo mondo antico.
«Eretica, ma non miscredente»
Barbari Alberti ama definirsi «eretica, ma non miscredente». E infatti il sacro e la trascendenza sono per lei una fonte cui attingere a piene mani. Uno dei suoi aforismi – e ce ne sono molti e tutti provocatoriamente illuminanti – suona così: “Fuori dall’eresia non c’è santità”. Questa sentenza l’ho letta la prima volta nell’esergo del suo romanzo del 1979 Vangelo secondo Maria, ristampato da Castelvecchi nel 2007, proprio in quel mese in cui ci conoscemmo a Roma. Quel pomeriggio, prima di congedarci, lei saltò dalla sedia come una gazzella verso uno dei suoi scaffali e mi mise in mano proprio quel suo vangelo, che aveva scritto anni prima, quando aveva 36 anni.
Fui così catapultato in una storia irriverente e originalissima, in cui il protagonista assoluto non è Dio, ma una ragazzina impertinente di Nazareth che conosce i segreti della natura, immagina la vita come un viaggio di scoperta, insegue la conoscenza ed è terribilmente fiera, indomita, cosciente di sé. Il vero grande amore di questa ragazza impetuosa non è forse tanto Giuseppe, ma la propria autonomia: l’unnico Dio a cui lei si è votata sembra sia il proprio libero arbitrio.
Nessun autore apocrifo o teologo, nessun filosofo o romanziere si era mai spinto fino a tanto prima d’ora, ovvero a dipingere il profilo di una Madonna Sessantottina. Non potremmo infatti comprendere questo racconto, se non sullo sfondo di quella strepitosa effervescenza idealistica della rivoluzione culturale e sessuale del Sessantotto, retta dal motto “il corpo è mio e me lo gestisco io”. E perciò quando Gabriele dalle grandi ali pastello plana a casa di Maria per annunciarle che diventerà la madre di Dio, la giovane di Nazareth non solo inarca le sopracciglia e mette le mani avanti, ma si oppone a quel destino che non si era proprio cercata. Lo sappiano: Maria aveva altri progetti con Giuseppe (che del resto fa una bella figura in questo romanzo: sembra più un filosofo o un sapiente dell’antico Egitto che un falegname d’Israele).
L’ombra dell’Onnipotente
E allora Dio cosa fa? Beh, l’Onnipotente – che qui è un vero e proprio Dio greco a là Zeus – non può permettere affatto che il suo piano vada in fumo a causa di una fanciulla, pur così graziosa. I capricci divini, per lui, hanno priorità. Così – ma mi guardo bene dal rivelarvi in anticipo il finale – Barbara Alberti rileggere la vicenda di Maria non a partire dal fiat, ma da quella enigmatico verso di Luca 1,35: «L’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35). Questa ombra dell’Onnipotente si allunga su tutto il racconto, piomba d’un colpo come una cappa infernale, toglie il respiro. In una parola: La fanciulla rimane incinta di Dio, contro la sua volontà, come trapassata da un fulmine. Ma in questo braccio di ferro fra Dio e la donna violata, alla fine vincerà Maria. Maria non si arrende: non vuole essere spettatrice, ma artefice della propria esistenza e così fugge in groppa ad un asino, vestita da ragazzo.
È facile immaginare l’esito di questo vangelo secondo Maria, che fa tutt’uno – questo posso dirlo – con la celebre sentenza di Nietzsche, dirompente in Italia dopo il Sessantotto: “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso”. Che poi per il filosofo vuol dire: ognuno ha il diritto alla costruzione del proprio ordine di valori, proprio come fa la ragazza di Galilea.
Se questo racconto fosse apparso in tedesco o in inglese avrebbe scatenato senza dubbio un grande putiferio. Si sarebbero alzati gli scudi di teologi, preti, vescovi e papi per scagliare l’anatema contro l’autrice. E invece in Italia no: intorno a quel libro sono stati tagliati i ponti e solo i pochi coraggiosi hanno fatto la strada a nuoto per afferrarlo. Io lessi in una notte, tutto d’un fiato, questo vangelo secondo Maria. Il mattino seguente tirai fuori dalla mia piccola faretra un altro libretto, quasi un controcanto a quella novella, e lo infilai nella buca delle lettere di Barbara: Maria, donna dei nostri giorni. Questo titolo, qui a Leuca, è noto a tutti. Anche lì infatti la giovane di Nazareth salta fuori dalla nicchia, nella quale per troppo è stata relegata. E sogna, cuce, canta, ride, danza, corre: incarna una libertà che è molto più che libero arbitrio.
Cancel Culture
Non sarebbe possibile raccontare per filo e per segno ciò che seguì a questo scambio di libri. Certo Barbara fu toccata dal racconto di Antonio Bello. Da lì partì un colloquio mai finito ed io mi tuffai a capofitto nella lettura di quasi tutte le sue opere. E rimasi sopraffatto dall’ispirazione immensa che li invade. Questi solo alcuni dei suoi titoli: Dispetti divini (Venezia, Marsilio, 1989); La donna è un animale stravagante davvero (Milano, Frontiera, 1998); L’amore è uno scambio di persona (Bologna, Gallo e Calzati, 2003); Il ritorno dei mariti (Milano, Mondadori, 2006); Riprendetevi la faccia (Milano, Mondadori, 2010); Amore è il mese più crudele (Roma, Nottetempo, 2012); Non mi vendere, mamma! (Roma, Nottetempo, 2016).
Già i titoli ci avvertono che la voce dell’Alberti sarà fuori dal coro – e questo suo tono ci fa molto bene, ora più che mai. Uno spettro infatti si aggira oggi per l’Europa, giunto fino a noi via etere dalla lontana America. Assistiamo infatti in questi ultimi anni all’imporsi di una nuova forma di puritanesimo censorio, che va sotto il nome di cancel culture. Grandissimi autori, come Philip Roth, Jane Austen, non vengono più ristampati per immoralità privata. L’dea è la seguente: la condotta privata dell’autore decide della ristampa di una sua opera. Comprendiamo subito quanto pericolosa possa essere una tale politica, per la quale – a rigor di termini – dovremmo cancellare con la candeggina le tele di Caravaggio e rinunciare alla Pietà di Michelangelo, bruciare le opere di Shakespeare, Verlaine, Rimbaud e Oscar Wilde e abbattere le sculture di August Rodin e dimenticare di film di Pasolini.
Vi è pure chi ha suggerito di tagliare alcuni fotogrammi da celebri pellicole cinematografiche, come Via col vento, o addirittura dai vecchi cartoni animati di Walt Disney, perché non rispetterebbero ciò che oggi è ritenuto politicamente corretto. Per capirci: La bella addormentata sarebbe una storia di molestie, perché, alla fine della favola, la fanciulla viene baciata dal principe senza il suo consenso. Oppure il lupo cattivo del film I tre porcellini del 1933 viene rappresentato come un ebreo ortodosso nei panni di un venditore con barba e naso adunco. E questo influenzerebbe i bambini, spingendoli a diventare antisemiti.
Ora io, che già trovo riprovevole il puritanesimo di una certa chiesa elisabettiana, figuriamoci se posso tollerare questo bieco puritanesimo censorio filo-americano.
La vita dell’opera d’arte e l’ambivalenza delle cose
Ciò che più mi mette in allarme è il fatto che in tutto questo dibattito si dimentichino due principi decisivi dell’arte. Anzitutto che l’opera d’arte – sia essa pittorica, musicale, letteraria, cinematografica – ha una vita indipendente dall’autore. L’autore o l’autrice scrivono un’opera, le danno voce, ossatura e carne, ma poi l’opera – come il burattino di Collodi – prende fiato e cammina con le sue gambe per il mondo. L’autore dunque (e tanto più la sua vita privata) devono ad un certo punto sparire dietro le lievi quinte del racconto, perché l’opera sia.
In secondo luogo, non esiste grande arte senza l’esperienza e il senso dell’ambivalenza delle cose. Per non fare che un esempio. Dostojewski non avrebbe potuto scrivere ciò che ha scritto, se non avesse avuto una vita avventurosa, e se non fosse stato un epilettico infestato da demoni, non da ultimo quello del gioco d’azzardo. Ma lo stesso potremmo dire di Proust, di Herman Hesse, di Tolstoj, di Kafka, di Musil e, in fondo, di tutti i grandi.
Ora, una delle ragioni per cui i libri di Barbara Alberti dovrebbero essere letti oggi più che mai, è il fatto che lei, in tutti i suoi racconti, guarda in faccia l’ambivalenza: non teme di indicare il lato violento dell’amore, l’impudicizia della purezza, l’istinto a tratti masochista che ci portiano addosso, l’impotenza dei potenti, la meschinità dei maschi, la stupidità delle donne, la genialità dei folli, l’ottusità e sublimità della religione, l’allegria e libertà dei poveri. Lei gioca con i lati oscuri del fenomeno umano, come la luce gioca con l’ombra e coi colori. E ogni vola che apriamo un suo libro ci troviamo difronte ad un affresco di questi chiaroscuri, ma dipinto non con acrilici sgargianti, senza sfumature, o con colori grassi come quelli ad olio, ma col brio delicato dei pastelli o degli acquerelli.
Davanti a una scrittrice così, hanno il fiato corto tutti coloro che cercano di normalizzarla, di incasellarla in schemi preconfezionati, come quelli di opinionista TV, di dispensatrice di consigli d’amore per rotocalchi come Gioia o Amica, o come rappresentate di un certo femminismo d’antan. Che poi: sarebbe un femminismo davvero originale quello di chi, come lei, nel libro Riprendetevi la faccia! celebra le rughe delle donne contro la religione del lifting e della chirurgia estetica, e nel racconto Non mi vendere, mamma! – scaglia una vera e propria requisitoria contro l’utero in affitto.
Io azzardo che proprio questo suo squisito senso per il lato paradossale delle cose umane, per l’animo vano, vario e ondeggiante dell’uomo, abbiano aperto per Barbara Alberti un varco verso la Trascendenza. Perché anche la Religione, se è vera – come dice Pascal – deve aver a che fare con contrasti lancinanti, deve addirittura acutizzare tutti gli spigoli, per poterli arrotondare. Così Alberti – come Lessing prima di lei – né desidera che il Cristianesimo sia vero, né è lieta che non lo sia. E se qualcuno ne esaspera ideologicamente la necessità, lei lo contesta. Ma se qualche altro invece lo disprezza, misconoscendone qualsivoglia ricchezza, lei lo critica decisamente. Del resto questa idea è ben nota anche alla letteratura russa, di cui Barbara è grande conoscitrice ed estimatrice – come attestano i suoi strepitosi saggi su Majakovskij e Tolstoj. E proprio sulla scorta di “Tolstoi” giungo ora al suo ultimo romanzo Francesco e Chiara EDB 2019.
Chiara e Francesco
Nel terzo e ultimo dei Poemi italici di Pascoli, dal titolo “Tolstoi” appunto, il poeta immagina che in grande scrittore russo, nel bel mezzo della sua fuga, all’età di ottantadue anni, dalla tenuta familiare di Jàsnaia Poljana, abbia avuto tre incontri onirici: il primo con san Francesco d’Assisi nella campagna umbra, il secondo con Dante nella pineta di Classe presso Ravenna, il terzo con Garibaldi a Caprera, dove il vecchio e stanco Tolstoj decide di concludere la sua vita.
Così inizia il poemetto di Pascoli, che è un pastiche di francescanesimo misticheggiante ed evangelico:
Cercava sempre, ed era ormai vegliardo…
E si trovò sotto un pallor d’ulivi.
Ed una voce udì soave accanto:
“Frate Leone, Dio ti benedica”.
Ed era un poverello, ch’avea rotta la tonica e il cappuccio ripezzato,
e scalzo andava, con la tasca al collo sospesa, cinto d’un capestro i fianchi.
Erano intorno strida di cicale,
canti d’uccelli in chiarità di sole.
E il poverello disse al pellegrino così:
“Frate Leone pecorella,
ben tu scrivesti, ove è perfetta gioia.
Quando giungiamo al nostro loghicciolo
Santa Maria degli Angeli, e la porta picchiamo,
ed esce il portinaio, e dice:
– Chi siete voi? –
Siam due dei vostri frati –
e colui dice: – Voi non dite vero; andate via, che siete due ribaldi –
se noi gli obbrobri sosteniamo in pace;
frate Leone, ivi è perfetta gioia.
E se, da fame stretti pur, picchiamo (ancora)
e in pianto e per l’amor di Dio preghiamo
ed egli esce e ci batte a nodo a nodo con un bastone, e noi soffriamo in pace;
frate Leone, ivi è perfetta gioia.
E però scrivi, che se il male al mondo resta,
soffrirlo è meglio assai che farlo;
meglio che dare, è che ti diano;
meglio giacer Abel, che stare in piè Caino.
Sprezzatura
Come Pascoli, anche Barbara Alberti ha subito il fascino irresistibile di questa perfetta gioia del poverello d’Assisi. Ma che cos’è questa perfetta letizia? Può apparire passività, debolezza, inattività, ed invece richiede una energia, una forza da giganti. La perfetta letizia è una sorta di trascuratezza maestra. È’ una noncuranza di sé che brucia di ardore creativo, è fuoco, non cenere.
La parola che più le si avvicina l’ha inventata Baldassar Castiglione nel 1528, nel suo celeberrimo Cortegiano per dire il massimo dell’eleganza. Lì lui parla di “sprezzatura”. Essa, dice Cristina Campo, è una “briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile – che ad occhi non avvertiti può parere callosità – di situazioni immodificabili che essa tranquillamente “statuisce come non esistenti” (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più alto che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura[1]”.
Ne ho letti molti di racconti sul Santo Patrono d’Italia, ma mai uno come il Francesco e Chiara dell’Alberti. Qui non troverete traccia alcuna di quel tono dolciastro che invece incontriamo ad esempio negli omonimi racconti di Dacia Maraini. Come nei Fioretti anche qui i fatti straordinari sono così familiari, così sicuri, che l’autrice li racconta con la naturalezza con cui si racconterebbe un risveglio mattutino o lo sbrigare di faccende giornaliere. Le visioni, i rapimenti e le estasi, la ridda dei demoni e il soccorso degli angeli, i miracoli e le premonizioni, qui tutto è naturale, come la cosa più semplice di questo mondo.
Il ribaltamento che è il vangelo
Per una misteriosa affinità elettiva – del resto Barbara è originaria dell’Umbria come San Francesco – la poetica del suo racconto sembra discendere direttamente dalla mistista delle Fonti francescane, opera non dei poveri di mente, ma di coloro che sono abituati a sfrondare le cose del mondo. Tutto in questo libro è leggero, liricamente elementare, tutto è luce, gioia, sorriso, ma perché è al tempo stesso dolore, perché i fraticelli – come l’autrice – sanno, che anche la luce getta ombre. E perciò il Francesco di Barbara Alberti è sì pieno di armonia, ma è una armonia che nasce dall’aver ammesso, attraversato, superato e rovesciato l’ambivalenza: Dove è odio, che io porti amore, dove è offesa che io porti perdono, alle percosse, che io risponda col sorriso. Davanti a questa letizia beffardamente evangelica, ci si butterebbe quasi in ginocchio.
Ma sentiamo la sua voce: “Il Vangelo ha una risposta per ogni cosa: Non ti affannare per il domani, il domani si affannerà di se stesso”. (pag. 21). E ancora, commentando la grandiosa conversione di piazza, quando Francesco si spoglia davanti a tutti del suo vecchio io lussurioso e guerrafondaio, scrive l’autrice: “Con un salto era entrato in un altro Francesco, in un altro mondo. Tutto diverso. Dall’ebrezza della violenza a quella della pace, l’amor di Dio era dilettevole come un vizio rovesciato. Il gusto che sentiva prima a sfidare chiunque lo avesse offeso, lo sentiva ora, moltiplicato, nella gioia di non reagire… Ogni cruccio proviene dal possesso, dalla fama, dal nome. Via tutto! Si mise a camminare sulle mani coi piedi in aria vedendo il mondo alla rovescia, e pensava – ma questo è il verso giusto!” (pag. 83s).
Il ribaltamento dei valori che il vangelo è – abbasserà i potenti, innalzerà gli umili – trova qui una geniale figura letteraria nel gesto del giullare di Dio che fa una capriola e guarda il mondo a testa in giù. E questa invenzione della Alberti ritorna più volte nel corso del racconto, ogni qual volta Francesco si trova in difficoltà, è tentato dal demonio e è ha bisogno di mettersi nella stessa prospettiva di Gesù. Scrive a pag. 192: “Con l’aiuto di Monaldo e Totò si mise a testa in giù per rovesciare la prospettiva e vederci meglio. In questa posizione tacque per un buon tratto finché si illuminò…”.
Avrei la tentazione di leggervi tutto il libro, ma devo fermarmi perché ciascuno possa poi godersi il viaggio. Vi assicuro che la lettura sarà un incantesimo, sarà come se i dipinti di Giotto iniziassero a parlare. Vedrete la figura di un mondo possibile e non di un’isola che non c’è. L’eco delle risate del giullare di Dio, la sua passione per ogni creatura; un amore di cristallo fra lui e Chiara; la sovrana noncuranza nei confronti del male; la spensieratezza con cui si beffa dei demoni bricconi. Strepitoso è il capitoletto dal titolo “I trucchi del maligno” in cui l’autrice mette in scena un dialogo fra Francesco e il Diavolo – un pezzo degno delle Lettere di Berlicche e della Leggenda del grande inquisitore.
Un epos del tempo e dello spazio
Vorrei concludere con una suggestione. Sapete, come i grandi poemi persiani, che costruivano opere immensi incastonando storielle quasi invisibili, l’intera opera di Barbara Alberti potrebbe essere un epos del tempo e dello spazio, che sono forse i veri protagonisti dei suoi racconti: essi trasformano e modellano le persone, gli incontri, gli eventi. Il gesto primo di Alberti è infatti quello di ostracizzare dai suoi racconti il telefonino e il Computer. Il tempo e lo spazio dei suoi romanzi sono quelli tradizionali, dove l’anima procede lentamente e sottostà al ticchettio dell’orologio e alle leggi della contingenza. E se deve accelerare una azione l’unico trucco a cui ricorre è quello di abolire per un momento la punteggiatura e di infilare uno dietro l’altro una manciata di soli verbi.
Ma ciò che stupisce è il fatto che questo suo amore per un tempo e uno spazio ben circoscritto non sono atei, non sono incatenati al solo qui ed ora, ma l’autrice ci fa comprendere che esistono, dietro le apparenze, possibilità, eventualità, speranze inaspettate – Come se ci fossero fori nel tempo e nella pagina che lei indica senza volerci entrare. Così accade, ad esempio, in maniera grandiosa nell’epilogo del suo recente: Mio Signore. L’apertura, alla fine dei suoi racconti, è infondo un inno al buon umore, perché l’ironia è l’arte di non accettare la realtà per come è.
Hofmannsthal sentiva invece il tempo come una tremenda oppressione: il tempo esigeva sempre qualcosa da lui: “lo scrittore vive, e ininterrottamente, sotto la pressione di incommensurabili atmosfere, come il palombaro nelle profondità marine”.
Non così Barbara Alberti. Il tempo per lei non spinge verso il basso, ma verso l’alto, non tira giù verso le profondità marine, ma incoraggia lo slancio verso il cielo. Il tempo che resta è dono: ogni giorno in più è una occasione per esserci, per respirare, vivere, scuotere la testa, e amare. Come nel celebre dipinto dello sposalizio mistico di San Francesco – stampato sul manifesto di stasera – vediamo Francesco e tre donne bellissime (povertà, castità, obbedienza) che sono contemporaneamente qui, i loro piedi calcano la terra, e insieme le vediamo già leggerissime spiccare il volo verso il Cielo.
[1] C. Campo, Gli imperdonabili, 100.