La pandemia che si è abbattuta sul mondo come un castigo inflitto agli uomini dagli uomini stessi, ha fatto capire ché delicata e dolce è la Bellezza e quanto delicato fosse quindi il nostro pianeta e quanto deboli quelle culture che nei secoli, specialmente l’inizio di quest’ultimo, hanno pensato di dominarlo e piegarlo agli egoismi di pochi. Le economie mondiali hanno tutte mostrato la propria fragilità e la globalizzazione, che tutte le orienta, ha così mostrato i suoi piedi d’argilla, rivelando quanto fossero inutili le scarpe eleganti e costose di cui erano rivestiti.
Tutti i governi sono corsi ai ripari inventando provvedimenti urgenti che potessero arrestare il corso sempre più drammatico impresso dal Covid 19 e ridurre così le sue più gravi conseguenze sui sistemi economici e su quello, non certo meno importante, che, dall’interno del primo, presiede alla tutela della salute e alle cure dei malati. Frementi e angosciati, uomini e donne hanno atteso che al più presto la ricerca offrisse all’umanità un vaccino capace di sconfiggere il virus e di restituire tempo e spazio, libertà e creatività a ciascun essere umano, per ricostruire tutti insieme un nuovo futuro e un vero progresso, al posto di questo troppo bugiardo.
La via l’ha indicata in quei primissimi giorni papa Francesco che mentre le piazze e le strade erano deserte, ha di fatto raggiunto con il suo appello ogni casa d’Italia e del mondo, esortando tutti ad essere diversi, a diventare migliori, operando per una comunione più forte tra le persone e tra queste e i governanti, affinché dalla terribile pandemia potesse nascere un mondo più bello e più sano. Un mondo fondato sulla vera eguaglianza, sulla donazione di ciascuno verso l’altro e sullo slancio di tutti verso la comunità umana. Che è una e indivisibile.
Il vaccino, in diverse vesti, pure quella della vecchia speculazione economica e degli egoismi miserevoli, è arrivato e così la speranza è riapparsa. Il dolore immane per i milioni di morti e per le lunghe sofferenze lasciate sui sopravvissuti, accoglie con sollievo la certezza che altrettante vite saranno salvate. L’Europa, dopo le molte incomprensioni tra i paesi membri, alcune davvero assai spiacevoli sul piano morale, ha varato un piano di intervento molto importante che prevede l’utilizzo di circa settecento miliardi di euro da distribuire ai paesi dell’Unione sulla base di una linea politica improntata al rigore gestionale e al varo delle tante attese riforme strutturali.
Il quaranta per cento di queste risorse è assegnato a fondo perduto, cioè non soggette a restituzione, mentre il sessanta per cento è stato concesso in prestito con un tasso di interesse definito da alcuni ragionevole. Non sono soldi piovuti benevolmente dal cielo e non v’è alcuna vera gratuità in essi. Li pagheranno i cittadini. Più avanti, con le conclamate riforme, vedremo a quale prezzo, ma gli annunciati aumenti del costo di alcuni beni di prima necessità (luce e gas per il momento), fanno udire fin da ora i drammatici squilli di tromba della povertà e dell’egoismo.
All’Italia arriveranno (una buona parte a fine luglio, viene assicurato), circa duecentocinquanta miliardi di euro, di cui sessantanove a fondo perduto. Il Parlamento, poche settimane addietro, ha varato quasi all’unanimità i provvedimenti per l’attuazione dei progetti relativi ai fondi assegnati al nostro Paese. Essi sono racchiusi nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), lo strumento cioè che dovrà attuare in Italia il programma Next Generation EU. Quante parole nuove di se stesse, quante sigle affabulatrici!
Il Piano si articola su sei linee di movimento, che i tecnici chiamano con un termine solenne, “missioni”. Esse sono:
1) digitalizzazione (innovazione, competitività e cultura);
2) rivoluzione verde e transizione ecologica;
3) infrastrutture per una mobilità sostenibile;
4) istruzione e ricerca;
5) inclusione e coesione;
6) salute.
Sembra ci sia tutto. I soldi, questa volta ci sono. I progetti e gli strumenti attuativi, ci sono pure. Un governo che orienti, vigili e direttamente operi, c’è pure, come anche è presente un Parlamento determinato, con tutte intere le forze politiche, a sostenerne i piani e gli sforzi.
Forse è la prima volta, almeno a mia memoria, che in un’emergenza così drammatica istituzioni europee, Italia, partiti e forze sociali, si ritrovano insieme nella comune volontà di realizzare fatti necessari alla ripresa delle economie e della piena vita sociale. C’è tutto, quindi? Si può stare tutti tranquilli? Io sono un prete e, per quanto abbia letto e studiato, e mi sforzi ancora di farlo, tutto il voluminoso dossier, così elegantemente rivestito di formule e di titoli affascinanti, che da mani a mani, dall’Europa è giunto fino a noi, avverto la sensazione che manchi ancora qualcosa. Lo sguardo fiducioso della gente, per esempio.
Quello sguardo così profondo che muove poi le coscienze per trasformarle in forza unitaria e partecipativa, in azione politica dal basso a favore di una vera cultura della solidarietà, che non può che essere la fratellanza umana, è necessario a ogni progetto di governo affinché abbia più forza lo spirito democratico che deve accompagnare sempre ogni decisione politica. Ché nella democrazia, luogo privilegiato per la tenera custodia della libertà, si deposita il senso umano delle cose.
La gente, però, è stanca. Per lunghi anni ha dovuto sostenere il peso di una crisi che è stata scaricata impunemente proprio da chi l’ha provocata, in tutto o in parte, come una colpa da attribuire a persone e famiglie: la colpa di vivere e di consumare risorse. Tale atteggiamento non ricorda forse quella cultura senza pensiero e priva di generosità che è diventata parola avvelenata in taluni paladini della produttività che in pieno dramma Covid hanno descritto i nostri vecchi come persone inutili, rei di non essere produttivi e di vivere, come se rubassero, della loro pensione.
Di quel piccolo provento, cioè, frutto di anni interminabili di duro lavoro e che ancora oggi, spesso sostituendosi a uno Stato che ha dimenticato la preghiera laica della vicinanza ai più deboli e bisognosi (lo chiamavano Welfare, quando c’era) essi, i “guerrieri della “quarta età”, interamente impiegano per sostenere figli e nipoti espulsi dal mondo del lavoro o che il lavoro non riescono a trovare. Che straordinaria estensione dell’Amore, questa, a cui però non si accompagna la Politica che di quel sentimento paterno dovrebbe alimentarsi. Sempre!
Io sono un prete, un umile servo del Signore, un appassionato del Vangelo, un uomo che ha fatto tutta la sua “peregrinazione” verso la Verità ricercando nella giustizia un suo fondamento, nell’ancora troppo lontano Sud. Dalla Calabria sono giunto per volontà del Signore nella città che ancora il Sud rappresenta in tutte le sue dimensioni e contraddizioni, in tutti i suoi colori chiari e scuri e in tutte le sue melodie, festose e tristi. Napoli è una città bellissima.
Tutto il Sud è una terra bellissima. Di questa estesa terra ricca di paesaggi e di storie, di mare e di cielo limpidi, di monti leggeri e di valli ondulate, di cultura e di umanità, di pensiero alto e di braccia forti, di incanto meraviglioso e di mani incallite, ho visto, e ancora da questo luogo straordinario vedo, le sofferenze degli uomini e delle donne, il loro coraggio di combattere ancora. La loro vivida intelligenza e profonda bontà.
Ho visto, e vedo, le ingiustizie inflittegli anche da chi – a causa di un antico e reiterato preconcetto – considera il Sud una zavorra e non una risorsa, credendo di poter agganciare il treno dell’Europa abbandonando sul binario morto quella parte del Paese che in più di mezzo secolo gli ha offerto non soltanto le braccia per le industrie, ma anche le intelligenze per farlo diventare quel ricco e potente territorio che è. Del Sud ho visto, e vedo ancora, le terre arse e i volti di marinai e braccianti bruciati dal sole e dalla fatica “tradita”. E il viso triste di giovani in attesa. Uno sguardo triste il loro, ma non domo.
Ho visto pure le solitudini degli abbandoni. E la condizione di isolamento, territoriale oltre che economico e politico, in cui il Sud viene ancora tenuto rispetto al resto del Paese per non dire dell’Europa. Un abbandono insistente, anche se talvolta mitigato da promesse insincere o che si interrompono a metà, perpetrato da un potere e da una classe dirigente troppo distanti. Classe dirigente, generalmente intesa, che da queste parti si affaccia per utilizzarlo, il Sud, come riserva di caccia di voti o come un utile consumatore di beni altrove prodotti.
Ecco, come prete e come uomo del Sud sento, forse mi sbaglierò – ovvero vorrei tanto sbagliarmi – che a questo Piano “nazional-europeo” manchi il Sud. Manchi il Sud nella sua specificità di questione morale e politica e, quindi, democratica. E se manca il Sud in quanto tale, mancano anche i poveri nella loro drammatica peculiarità. I poveri in carne ed ossa, uomini, donne e bambini, volto per volto, nome per nome, che spero finalmente fuoriescano da quelle fredde statistiche che non impressionano più un’Italia divisa su tutto e che rischia di esplodere in una guerra intestina tra egoismi intrecciati, sopra la quale ogni giorno più indifferente sta quella parte progressivamente più ristretta di ricchi sempre più ricchi.
Chi sono i poveri oggi? Sono quelli che ancora le statistiche misurano sulla base di ciò che possiedono di misero in un contesto miserevole. In poche parole, formule numeriche che misurano la fame delle persone e la quantità di cibo che riescono a portare a tavola, in abitazioni assai incerte, il cui tetto, per tanti in numero crescente, è il cielo che li copre senza che qui esso acquisti nulla di poetico e di romantico. I poveri sono ovunque nel Paese, dispersi e nascosti nelle pieghe del proprio pudore e della ipocrisia di chi fa finta di non vederli, se non in qualche telegiornale, ingannevolmente di inchiesta, che li riprende davanti alle mense della Caritas, irrispettosi della loro dignità umana e di quella della “cittadinanza” sequestrata.
I poveri sono anche le regioni povere, le terre inaridite e assetate dell’acqua che si perde nello spreco e nelle condotte inesistenti o rovinate. Le terre consumate dal cemento e dal cedimento per incuria o per devastazioni diverse. I poveri, sono il lavoro. Quello che manca e quello dequalificato, quello sfruttato e quello mal pagato. Sono il lavoro che uccide nelle fabbriche “distratte”, nei cantieri insicuri, nei campi della nuova schiavitù, dove quella carne umana sopravvissuta al mare viene comprata e venduta a pochi euro.
I poveri sono il lavoro, la questione oggi delle questioni irrisolte di un nuovo capitalismo cinico e beffardo quanto crudele e stupido. Un lavoro, sottopagato, che spesso dequalifica e aliena giovani che hanno studiato tanti anni, non solo per sentirsi nobilitati secondo quell’antico principio, ma per sentirsi protagonisti della crescita complessiva della società, costruttori della ricchezza per tutti. La ricchezza, non dimentichiamolo, che è di tutti. Sempre.
I poveri, sono anche quella politica che, disgiunta dalla morale, si priva della sua intima natura, del suo scopo primario, lasciandosi cosi logorare dalla corruzione dilagante e non di rado dall’incompetenza devastante. E così la politica dimentica il suo fine “primo”, che è realizzare l’impossibile, il sogno. E non è affatto vero che i sogni siano castelli di sabbia dimenticati al mare della nostra fanciullezza, recuperabili in età avanzata per non “morire” completamente di nostalgia e rimpianto. Come vero non è che la felicità non sia di questo mondo, se essa si fonda sulla realizzazione del bello e del giusto e del vero. Per ciascun essere umano.
Il Mezzogiorno, all’interno del Piano di resilienza, non può essere, pertanto, soltanto un’area da risollevare e neppure, se anche lo si volesse, un motore che ne accenderebbe altri. È il luogo, invece, dove si può compiere, insieme alle storiche riparazioni dei danni provocati, un’autentica opera di giustizia e di umanizzazione della Politica. Il luogo in cui può nascere, proprio per la consistenza delle risorse e degli strumenti europei, un nuovo modello di sviluppo fortemente proiettato alla costruzione del vero progresso.
Un modello che punti decisamente, attraverso le mani e la testa e il cuore di una classe dirigente aperta, colta, matura, “innamorata” della Bellezza, alla valorizzazione delle proprie risorse. A partire da quelle, anche umane, già presenti nel territorio, che l’emergenza planetaria, al Covid preesistente, indicano quali “salvavita”. Sono le risorse che abbiamo colpevolmente dimenticato: la terra, madre sempre benigna e generosa, l’acqua sua figlia prediletta, il cielo con l’aria da “liberare”, il mare da restituire pienamente alla sua grazia così ricca di beni, i fiumi da proteggere dal rischio, che essi stessi soprattutto subiscono, di tracimare modificandosi e rovinando il territorio, invece che scendere dolcemente verso il mare che li accoglie.
Sono i doni di Dio per tutti gli esseri umani e di cui il Mezzogiorno ampiamente dispone ancora. Ma sentiamo forte la necessità di giustizia sociale, senza la quale non potrà mai esservi pace. Troppo spesso i poveri sono stati offesi con generalizzazioni ingiuste, che non tengono conto della dignità, delle aspirazioni, dei sogni, dei talenti di ognuno. Nella dimensione della “prossimità”, ripartire dagli ultimi significa metterli concretamente al centro di un processo di “liberazione” teso a restituire loro piena dignità umana.
Se pensiamo, ad esempio, alle politiche delle nostre città, ai servizi verso i cittadini più deboli e fragili, e proviamo a farlo attraverso le chiavi di lettura della giustizia, non potremo più limitarci a percorsi meramente assistenziali, diritti sociali che appaiono come concessioni, come un lusso che non sempre ci si può permettere. La Politica, se davvero vorrà riscrivere la storia di questi territori, avendo cura anche e soprattutto dei propri figli più fragili, dovrà riaccendere la fiamma della speranza e ritessere i fili della fiducia. Due elementi, speranza e fiducia, che sono al momento le vere risorse assenti nelle nostre comunità.
Si tratta di ripartire dalle persone, e quindi dalle relazioni, riattivando i legami solidali tra i cittadini. Occorre restituire loro la dignità, e quindi l’orgoglio, di essere meridionali. Ma per farlo occorre ripensare ad un modello di sviluppo che sia integralmente sostenibile, che parta dalla consapevolezza che «tutto è connesso» riconoscendo la relazione profonda ed inscindibile tra la sfera sociale, spirituale, economica e ambientale, come pure quelle fra dimensione locale e dimensione globale.
Se davvero si vorrà costruire una nuova prospettiva di futuro, il modello di sviluppo dovrà vedere protagoniste le persone che formano le comunità, quale intreccio di relazioni, identità ed appartenenza. Sono i sogni, le aspirazioni, i legami e le interazioni tra le persone che conducono alla individuazione del modello più coerente con il “sentire” della comunità. Il territorio rimane quindi strumento, complemento oggetto, di un processo in cui soggetti attivi restano le persone. Il compito dell’uomo che governa è davvero quello di fare della Politica la propria missione, la propria “più alta opera di carità”. Oggi, non domani.
Nella vita delle persone e in quella della natura, non ci sono partite da giocare ai tempi supplementari e vincere poi ai rigori, come i nostri ragazzi hanno “eroicamente” fatto in quel di Wembley, richiamando tutti al dovere gioioso dell’unità di popolo. Quell’unità sincera che commossi pur se preoccupati, abbiamo visto nello spettacolo del tricolore che ha camminato da cuore in cuore, da coro in coro, in tutte le piazze italiane.
Quell’unità che io auspico, con l’ausilio di forze politiche che operino concretamente ed esclusivamente per il bene dell’Italia, permanga nel tempo del pieno recupero dell’identità smarrita. Una identità bella, la nostra, che con il buon vento del Sud voli lontano e si mescoli felicemente in quella del popolo europeo. E più alto e più giù ancora voli, senza stancarsi, verso la più nobile delle bandiere e la più bella delle nazioni, quella dell’intera umanità e del mondo pacificato nella giustizia. Con umiltà ed amore.
Napoli, 20 luglio 2021
- Domenico Battaglia, dal 12 dicembre 2020, è arcivescovo metropolita di Napoli, succedendo al card. Crescenzio Sepe.