Don Daniele Simonazzi, da lunghi anni, è cappellano delle carceri di Reggio Emilia. Conosce precisamente le condizioni di vita dei detenuti, degli agenti, del personale di servizio, dal di dentro dell’istituzione carceraria. Dopo la rivelazione dei fatti di Santa Maria Capua Vetere – di cui non si mostra affatto sorpreso – e in questo pesante periodo estivo, ancora condizionato dalle limitazioni anti-Covid, Settimananews ha raccolto la sua testimonianza.
Volentieri condivido alcuni pensieri in ordine alla condizione carceraria. Non che sia convinto che questo possa cambiare – purtroppo – la condizione di coloro che sono “ospitati” nelle carceri e pure nell’istituto di Reggio Emilia, del quale sono cappellano. Può semmai servire ancora a riflettere sul nostro servizio di cristiani in carcere.
Premetto che la mia ottica è senz’altro parziale: condivido alcune cose al fine di creare e suscitare emozioni, legami, comunione umana e di Chiesa.
Quando parlo di sistema carcerario, penso a volti, a storie, a cammini di vita. Perciò dico che il sistema carcerario è fondato su un’assenza che mi pare una delle cause – se non la principale – per ritenere il carcere perfettamente inutile. L’assenza più grande è delle vittime dei reati. Lo Stato si sostituisce alle stesse: in questo modo non solo le isola, ma le ignora.
Il sistema carcerario entra in gioco conferendo priorità al reato e a chi lo ha commesso. Se, altrimenti, si assumesse la condizione della vittima del reato – che si vede segnata la vita da un evento con tutta la famiglia e per sempre – penso che la vita del carcere potrebbe acquistare un suo ben diverso significato.
Non porre il reato al centro
Il senso da acquisire è quello per il quale è chiesta una vera conversione. Arriverebbe dal coraggio di non porre più al centro del carcere il reato, bensì di partire dal reato per imbastire un cammino nuovo.
Cosa accade ora? Si commina una pena tarata sul reato, in maniera tale che il legame che si ingenera tra detenuti, agenti e personale civile è un legame infetto, malato, velenoso, perché gli anni da scontare da parte dei detenuti o da far scontare da parte di agenti e personale, non hanno quale prospettiva il rimarginarsi delle ferite prodotte, ma una sorta di vuota espiazione nel dolore. L’intento è “fargliela pagare e basta!”.
Inevitabilmente questa impostazione giustizialista, oltre a non suscitare alcuna novità di vita in una prospettiva che si possa considerare minimamente costruttiva, alimenta semplicemente sé stessa, nella presunzione del diritto dello Stato ad ergersi quale unico vindice di quanto avvenuto.
Questo ha come effetto paradossale creare ulteriori vittime, tra fratelli e sorelle di una umanità stravolta dalla colpa. Ciò che è avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, pertanto, non mi stupisce affatto, se non per il numero di agenti coinvolti e per l’efferatezza della violenza usata.
Negli stessi giorni – nel nostro carcere di Reggio Emilia – era stata ordinata una perquisizione in una sezione che appariva fuori controllo. Sono giunti agenti da altri istituti ai quali è stata affidata la cosiddetta “carta bianca”.
Le condizioni in cui hanno ridotto, al loro passaggio, le celle in cui le persone detenute vivono – tra l’altro in assenza degli stessi ospiti – mi ha fatto e ci ha fatto riflettere insieme ad alcuni amici e graduati della Polizia penitenziaria su almeno due aspetti: il primo legato al cuore, alla coscienza, alla mentalità di coloro che hanno eseguito la perquisizione o di chi li ha comandati o indotti a farlo; il secondo riguardo alla formazione degli agenti di Polizia penitenziaria.
Mi è capitato rare volte di essere chiamato a tenere incontri di formazione circa la figura del cappellano presso la scuola degli agenti di Parma. Quando ho potuto far presente le istanze di cui parlo – legate appunto al superamento della priorità del reato nel cammino carcerario – ho raccolto solo vibranti proteste da parte di coloro che mi ascoltavano, soprattutto nel corso tenuto a coloro che si stavano preparando ad assumere i posti di responsabilità.
Tornando a quella perquisizione: l’esito è risultato un telefonino sequestrato e una cospicua quantità di sigarette di proprietà di un solo detenuto: ritrovamenti evidentemente irrisori rispetto alla portata indotta nell’animo degli ospiti detenuti: amarezza, delusione, più che rabbia o volontà di vendetta!
Una domanda agli agenti
È inevitabile a questo punto porre e condividere con gli agenti la domanda: cosa ti ha portato ad arruolarti, a scegliere questa professione piuttosto che un’altra?
La risposta appare piuttosto scontata ed è legata al fatto che, a causa della mancanza di lavoro, soprattutto al Sud, le persone non hanno trovato niente di meglio da fare che questo mestiere. Tuttavia, se si vive un buon grado di prossimità e di amicizia con questi agenti, la risposta non risulta così scontata: si scopre che c’è un cammino in corso d’opera, in tutti.
Se pure la motivazione iniziale è quella dello stipendio sicuro – e chi può biasimare questo? –, nel corso del tempo ci si accorge della possibilità di una cosa nuova che si fa strada nelle persone, anche nel deserto carcerario. Quando si entra in sezione, ci si rende da subito conto se la responsabilità di questa è affidata ad un agente che si pone in un “cammino nuovo”, ovvero che deve ancora maturare la decisione di intraprenderlo.
Inevitabilmente, anche se in modi diversi, le domande che ci stanno davanti nel fondamentale passaggio di vivere la sezione, anziché solo l’ufficio della sezione, riguardano la totale inutilità del tempo, del lungo interminabile tempo che si trascorre in sezione e quindi in cella.
Persone, la cui potenzialità e le cui capacità, se messe al servizio, potrebbero portare ad un grande giovamento collettivo, si vedono ridotte, loro malgrado, ad attività che, al di fuori del carcere, avrebbero al massimo la dignità degli hobbies: il gioco delle carte, il modellismo, la cura della propria stanza sino alla minuziosità (sino a quando non arriva improvvisa la perquisizione). Sono tutte attività prodotte dalla frustrazione.
Può bastare allora un episodio a far sì che si possa intraprendere un’altra strada.
Bastano due uova di fagiano
P.H., ad esempio, ha trovato in un campo all’interno delle mura di cinta delle uova di fagiano, le ha raccolte e, in stanza, le ha messe sotto una lampada come fonte di calore. Per farla breve, sono nate due piccoline che sono divenute, in carcere, la ragione delle sue giornate: non della sua vita, ma delle sue giornate, sì. Terminato ogni giorno il suo misero compito di lavorante, ora ha “qualcuno” che lo aspetta in stanza. Lascio a chi legge le considerazioni del caso.
Certo è che P.H. ha pure detto che, chiunque avesse cercato di togliergli le sue piccole, ne avrebbe risposto con la vita.
Ho fatto questo esempio, ma, salendo una certa scala di priorità, come dimenticare l’attenzione, la cura, la premura di alcuni ospiti che si fanno autenticamente – direi evangelicamente – prossimi di persone disabili a loro affidate!?
Nei casi che ho in mente, succede che persone responsabili di reati “ostativi” – ossia con scarsa possibilità di ottenere benefici di pena – trattino come “loro carne” quella delle persone più fragili.
Chi è dunque più prigioniero? Chi è ospite in carcere o chi continua a mettere al centro del carcere il reato che porta a vivere in questa condizione? Mi riferisco anche a direttori, educatori, criminologi, senza dimenticare gli stessi magistrati di sorveglianza.
Certo, in una nuova prospettiva – di questo genere – qualche considerazione è dovuta anche al volontariato. Anche a chi si candida per tale ruolo, andrebbe posta la domanda: chi e che cosa ti porta a fare questa scelta? Quante persone giovani e meno giovani hanno iniziato un percorso di condivisione con i detenuti per scoprirsi poi, in qualche modo, “traditori”, ossia “consegnatori” (dal latino tradere) alla struttura!?
Si potrebbe ovviare a tutto ciò se ci si rendesse conto che la vita in carcere è – e può essere – un’ottima palestra di convivenza. È l’unico posto al mondo che io conosca nel quale viene imposta la presenza di una persona senza chiedere il permesso a chi già vi abita.
Chi di noi è capace di una simile accoglienza? Come non partire da questa ovvia constatazione per imbastire percorsi che permettano di superare quell’individualismo sfrenato e ovunque imperante che è anche all’origine di tanti reati, oltre che di tanti mali?
Se questo è ciò di cui ci si rende conto, il passaggio è necessario agli ospiti quanto agli agenti.
Mi chiedo spesso cosa può attraversare il cuore e la mente di un agente quando rinchiude per 3 o 4 volte al giorno dentro a una cella una persona che può essere benissimo suo padre, suo figlio, suo fratello e anche suo nonno. Lo chiedo anche a loro: basta la giustificazione che è il tuo lavoro?
Penso che ci sia una cosa che fa prendere in considerazione la possibilità di rivedere la vita nella quale una persona si è permessa di privare altri della loro incolumità, se non addirittura della vita, e sia sempre quella di riaddestrarti nella “palestra” della convivenza.
La vita di sezione può uscire allora dalla sua inutilità devastante, governata da regole preoccupate dell’ordine esterno più che dell’interiorità delle persone. Per questo ritengo che la costruzione di nuovi penitenziari – più larghi e più moderni – sia pura insipienza. Si tratta invece di creare – credo! – penitenziari nuovi, radicalmente nuovi. La novità non verrà, come sempre, dai nuovi progetti edilizi, ma dalla novità dei cuori umani.
Domande senza risposta
Concludo con la consapevolezza di avere solamente sfiorato la realtà che vivo da più di 30 anni. Lascio a tutti il compito di giungere a rispondere affermativamente – se possibile – ad almeno una delle seguenti domande che ogni tanto – tutti – dovremmo porci rispetto al carcere.
Se fossi io al posto di chi sta in carcere – gli agenti non meno dei detenuti – vorrei essere trattato come loro? Ci sentiremmo tranquilli – come familiari di ospiti del carcere – di conoscere (come di fatto conosciamo) le condizioni in cui gli stessi vivono? Ci sentiremmo di accompagnare in sezione i familiari degli ospiti facendocene un onore per le condizioni in cui sono custoditi? Banalmente, ce la sentiremmo di usare i servizi igienici dei detenuti?
Probabilmente a nessuna di queste domande è stata data ancora una risposta affermativa. Può essere un buon inizio di sensibilizzazione e di comprensione. Di seguito, potremmo tutti continuare a chiederci, ciascuno per sé: ho mai chiesto veramente perdono? So se mi sia mai stato concesso? E io ho perdonato?
Dico, infine, dell’episodio di Augusto. Una domenica, alla preghiera dei fedeli, durante la messa, ha preso il microfono e, dopo interminabili secondi di silenzio, mi ha puntato il dito e mi ha chiesto in dialetto veneto: «Lei sarebbe disposto davvero a dare la vita per me?».
Augusto è morto senza ottenere la mia risposta. La prospettiva che Augusto sia ora in Paradiso offre a me ancora il tempo e la possibilità di non deludere (troppo) questa sua attesa.
non capisco l’affermazione “assumesse la condizione della vittima del reato”
Ho letto molto “non dovrebbe essere”; non ho capito come dovrebbe essere, tenendo insieme tutti i soggetti coinvolti