Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio.
Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia.
(L. Milani, Lettera a una professoressa)
C’è bisogno di una vera ermeneutica evangelica
per capire meglio la vita, il mondo, gli uomini […]
di un’atmosfera spirituale di ricerca e certezza.
(Francesco, Discorso alla Comunità della Pontificia Università Gregoriana
e al Pontificio Istituto Biblico e al Pontificio Istituto Orientale, 10 aprile 2014)
La riflessione sulla formazione all’amore civile e politico è oggi singolarmente urgente. Proponiamo qui, senza alcuna pretesa di completezza, una serie di atteggiamenti di fondo da riconoscere e da valorizzare in vista di una rinnovata − e non illusoria − educazione all’azione sociale e politica che sia capace di ispirarsi, in maniera intelligente e responsabile, alle vie del Vangelo. Svolgiamo tale riflessione nella forma di una serie di tesi che possono rappresentare vettori di sviluppo, piste di lavoro ed elementi − probabilmente − capaci di dar forma ad un’atmosfera spirituale adatta per la maturazione della dimensione civile e politica della coscienza cristiana.
Il pensare responsabile
Una prima dimensione da riconoscere e coltivare è quella che potremmo descrivere come l’attitudine a pensare responsabilmente. Qui ci riferiamo idealmente alle riflessioni di un teologo e filosofo di origini canadesi, Bernard Lonergan che, dopo lunghi studi, arriva a descrivere la coscienza umana come una realtà dinamica che:
a) si interroga sulla realtà e la sua consistenza;
b) lavora per comprenderla con intelligenza, scoprendone i nessi, le implicazioni e le connessioni;
c) riflette sempre di nuovo sulla realtà − sperimentata e compresa − chiedendosi: «è davvero così che stanno le cose?»;
d) assume tali elementi – la conoscenza della realtà, la sua intelligenza, la verifica attenta della conoscenza che ne abbiamo – come passaggi che portano ad una domanda etica ed esistenziale: «Se le cose stanno così, qual è la mia posizione? Qual è il mio/nostro compito ora in questa situazione?».
Per Lonergan nella coscienza umana − che lotta per non essere oscurata, sviata o comprata − vi sono dei movimenti di fondo che si articolano in quattro appelli, i quali risuonano costantemente nell’interiorità affermando: «Sii attento, sii intelligente, sii capace di ragione critica e autocritica, sii responsabile [e, se necessario, cambia]».
Tale prospettiva che vede la coscienza come un luogo dinamico e vivo si collega con quella di molti pensatori moderni che riconoscono come proprio dell’essere persona l’esistenza di un dialogo interno. Quel dialogo tra le voci dell’interiorità umana che pone l’uomo in tensione con sé stesso e con la realtà consiste nel chiedersi come stanno le cose in verità e qual è la risposta etica alla realtà sperimentata.
Una filosofa come Hanna Arendt ha sostenuto che la rinuncia a essere persona sta nel mettere a tacere tale dialogo interno e tale dualità della coscienza quale spazio di dibattito e ripensamento; ed è ciò che ha permesso l’attuazione della Shoah rendendo gli uomini, che hanno messo in atto una simile tragedia, uniformi, adattati e irresponsabili.
La rinuncia al dialogo interno e la fuga dalle domande rilevanti ci rendono meno persone e rendono le nostre istituzioni più sorde, cieche e insensibili agli appelli della realtà. Si può collocare qui la nota affermazione del card. Martini il quale sosteneva che in futuro ciò che sarà decisivo per la convivenza umana non sarà tanto la differenza tra i credenti e i non credenti, ma tra i pensanti e i non pensanti.
Un senso profondo del Vangelo
Un secondo elemento consiste in un ascolto approfondito e rinnovato del Vangelo. In uno dei suoi ultimi interventi Giuseppe Dossetti − partigiano, politico, padre costituente, monaco e cristiano appassionato[2] − ha affermato:
«Il vangelo: che i preti e i laici, senza differenze […], si immergano nel Vangelo. Questo lo dico con una particolarissima e specifica insistenza, anche quantitativa: leggerlo, leggerlo, leggerlo, […] formarvi su di esso, sul Vangelo letto […] mille volte al giorno se fosse possibile, sine glossa. Leggete il Vangelo […] in un rapporto continuo, personale, vissuto, creduto con tutto l’essere; e sapendo di accogliere la parola di Dio come Gesù l’ha seminata quando andava per le strade della Galilea. Ascoltare il Vangelo così com’è, senza glossa, come diceva Francesco […]. È di una profondità infinita, inesausta e inesauribile. E continuamente ci plasma, ci sostiene, ci forma, ci crea, come cristiani prima di tutto».
La lettura del Vangelo diviene così senso − inteso come direzione, significato e sensibilità – per la ricerca del volto di Gesù, del suo modo di sentire, di vedere il mondo e scegliere. Il riferimento al cristianesimo non può, infatti, essere solo un riferimento vago e valoriale, ma una relazione quotidiana, intensa e talora tesa con la parola evangelica.
«Parlare di […] Gesù vuol dire far riferimento a quel Gesù che non possiamo conoscere altrimenti se non per la predicazione e la parola della Chiesa, la quale si appoggia e si riferisce in tutto alla predicazione del Nuovo Testamento, alle parole e ai gesti di Gesù raccontati dai Vangeli, alle parole di tutta la Scrittura che lo preannunciano e lo spiegano. Che cosa conosci tu di Gesù Cristo, tu che ti dici magari “cristiano impegnato” e non hai mai letto a fondo i Vangeli, non li fai oggetto della tua meditazione quotidiana, non hai ancora appreso il metodo della “lectio divina”? Ascolta che cosa ti dice il Concilio: Tutti i cristiani apprendano la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle divine Scritture. L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo (DV 25). Non è dunque possibile ricevere Gesù Cristo e lasciarlo farsi uomo nella terra del nostro cuore senza fare continuamente riferimento alla sua Parola e alle parole ispirate che parlano di lui» (C.M. Martini, Cento parole di comunione, Milano 1987).
L’esperienza della povertà e dell’ingiustizia
Un pensare responsabile e un rapporto non superficiale con il Vangelo si accompagnano con un senso profetico della realtà ossia con una acquisita capacità di vedere i margini, le rotture e le molte sbavature umane. Questo non avviene attraverso un appello generico − e talora paternalista − di attenzione ai poveri, ma si verifica attraverso l’esperienza dell’incontro personale con coloro che nella vita si trovano − per gli eventi della grande storia, per le proprie biografie, per scelte sbagliate proprie o altrui, per limiti innati o acquisiti − a non poter esplicitare la propria personalità e creatività personale.
Vivere questo significa entrare in certe case, nelle carceri, nelle baracche, in certi luoghi di cura o semplicemente affacciarsi nella vita di chi ha perso, non ha sviluppato − o non ha mai avuto − pezzi importanti della propria esistenza. Questa esperienza aiuta ad intuire come la realtà sociale sia complessa e come la fragilità umana − che ognuno di noi porta in sé più o meno latente − sia una realtà pervasiva.
Il contatto con il mondo della fatica umana e con i molti naufraghi della nostra storia[3] muove il cuore a cercare nuove vie per sentire in maniera meno superficiale il dolore delle persone, muove l’intelligenza per capire le situazioni, le connessioni, le cause[4], muove il desiderio di cambiare – almeno un poco – la realtà per contribuire a quel movimento che la Bibbia attribuisce in senso ultimo a Dio che solleva il povero dalla polvere.
Una figura di intellettuale e di attento amico dei poveri − Paolo Serrazanetti[5] − ha affermato:
«Un giorno qualcuno ha detto: i poveri li avrete sempre con voi; non certo per rassegnarsi al peggio, ma per inventare, con umana attenzione e dedizione, qualcosa che aiuti a vivere, a respirare, a sperare; perché ci si possa guardare in faccia senza paura, senza vergogna, senza sottintesi amari, ma con quella volontà di bene che è in definitiva, espressione dell’unica resistente e convincente e coraggiosa speranza».
Solo il contatto con il mondo multiforme dei poveri e dei margini − umani e sociali − permette di intuire il senso profetico del vangelo e di cogliere la differenza tra giustizia e ingiustizia, tra regno di Dio e anti-regno, tra quanto solleva l’uomo e quanto lo umilia e lo calpesta.
Leali verso la realtà
Un quarto fattore di maturazione importante è la lettura leale del proprio tempo e contesto.
Recentemente hanno ripresentato in occasione dell’anniversario dell’incidente atomico la serie televisiva Chernobyl della HBO che − molto apprezzata dalla critica − ha riprodotto gli eventi cruciali del disastro dell’aprile 1986 presso la centrale nucleare ucraina allora collocata nell’Unione Sovietica. La serie, costruita con una precisione storica non indifferente, mostra, tra le altre cose, un atteggiamento davvero significativo: i diversi responsabili coinvolti ai livelli più diversi hanno agito in maniera del tutto irresponsabile, negando di fatto la gravità della situazione per paura di avere problemi di carriera, per la difficoltà di ammettere l’enormità di quello che stava succedendo e per timore di porre questioni troppo serie che avrebbero disturbato i capi e l’immagine internazionale del paese. Questo ha significato perdere istanti preziosi e ha comportato il sacrificio di migliaia di vite, decedute tra dolori impressionanti a causa delle radiazioni a cui si erano trovati esposti.
Il filmato mostra in modo significativo il rischio della fuga e della negazione della realtà che può avvenire per motivi differenti ma comporta sempre l’incapacità di una presa d’atto del reale, di un’assunzione leale di responsabilità, di una volontà di affrontare seriamente i problemi. Questo ha come conseguenza la messa a rischio della propria vita, di quella altrui e della vita delle generazioni successive.
Mi pare una parabola importante che invita alla coltivazione di un senso acuto del reale, dei suoi movimenti ed evoluzioni accompagnata da un desiderio di assunzione di responsabilità, di volontà di fare la propria parte senza rifuggire le questioni scomode o inquietanti. Un’affermazione del 1942 di Dietrich Bonhoeffer − teologo luterano, resistente e martire per mano nazista − rende plasticamente l’importanza di tale atteggiamento: «Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene».
Il senso del mondo
La percezione del legame intrinseco tra Vangelo e povertà umana insieme alla capacità di comprensione responsabile delle domande del proprio tempo richiamano un’ulteriore e fondamentale dimensione. Si tratta della capacità di comprendere che la storia − sia quella, per così dire, grande che tocca popoli interi sia quella piccola che tocca le biografie personali e i loro intrecci − è un insieme interconnesso che implica una conoscenza attenta del locale e del globale.
Questo implica una sensibilità che si nutre di conoscenza storica e sociale e ha come campo la via, il quartiere in cui si vive, la propria città e, per cerchi concentrici, arriva a interessarsi delle grandi questioni umane a livello mondiale. In altre parole il provincialismo, la grettezza di visione, il nazionalismo, l’ignoranza della storia, la poca lungimiranza non sono virtù cristiane. Serve piuttosto un modo di guardare i problemi con uno sguardo capace di guardare lontano, consapevoli che davvero «tutto nel mondo è intimamente connesso»[6] e che i nostri destini sono tra loro intrecciati come quelli di fratelli/sorelle nella comune umanità[7].
Tale prospettiva emerge oggi in maniera ancora più urgente perché la pandemia, la violenza del capitalismo mondiale[8] e la crisi ambientale globale già in corso hanno mostrato l’interconnessione degli spazi, la dimensione finita e non inesauribile del pianeta terra[9] e la mutua dipendenza tra passato, presente e futuro[10].
Nell’enciclica Laudato si’ (n. 19) papa Francesco afferma: «Facciamo un percorso […] attraverso quelle questioni che oggi ci provocano inquietudine e che ormai non possiamo più nascondere sotto il tappeto. L’obiettivo non è di raccogliere informazioni o saziare la nostra curiosità, ma di prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare».
Il senso del mondo a livello locale e globale e con un’adeguata consapevolezza storica serve, cioè, per prendere dolorosa coscienza e per cercare di trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare.
Il senso della politica e delle istituzioni umane
La conoscenza della realtà – ed è un altro passaggio importante − nelle sue dimensioni locali e globali ha una fondamentale dimensione strutturale e istituzionale di cui avvedersi e di cui comprendere il peso. La questione è seria perché spesso una certa modalità spirituale cristiana ha sottovalutato − o ha assunto in maniera deprivata di filtri critici e profetici − la dimensione istituzionale e politica dell’esistenza personale e collettiva.
Qui la spiritualità cristiana è chiamata a comprendere che la scelta di determinate politiche o l’opzione per altre può migliorare o rendere impossibile la vita delle persone e il loro sviluppo. Si tratta di comprendere che l’esistenza di un apparato istituzionale, giuridico, educativo, sanitario, di equa gestione economica, di tutela ambientale che funzioni secondo i criteri della Costituzione italiana può comportare per l’esistenza di moltissime persone la possibilità di sviluppare una vita degna, creativa e davvero umana; al contrario, quando i valori costituzionali sono misconosciuti teoricamente o traditi praticamente questo significa che la vita di moltissimi si ritrova calpestata, bloccata, umiliata.
La spiritualità cristiana su questo punto è talora in deficit di realismo e consapevolezza nel cogliere che le scelte politiche e le istituzioni conseguenti sono strumenti essenziali perché ognuno possa vivere una vita degna. Non è un caso che Paul Ricoeur − cristiano riformato e filosofo molto attento al tema dell’interpretazione dell’identità e a quello della giustizia − ha descritto come il desiderio di una vita felice sia quello di «una vita compiuta con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste».
La coscienza cristiana quando capisce questo snodo diviene coscienza politica attenta ai problemi e ai drammi storici, con il desiderio di comprenderli umanamente ed evangelicamente, con il coraggio di affrontarli criticamente (e auto-criticamente), con il desiderio – personale e collettivo – di lavorare per un miglioramento possibile a livello esistenziale, politico e istituzionale.
Una via di maturazione personale e collettiva
Un ulteriore elemento intercetta quei dinamismi che Bergoglio chiama i processi. In un suo noto testo afferma:
«A volte mi domando chi sono quelli che nel mondo attuale si preoccupano realmente di dar vita a processi che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la pienezza umana. La storia forse li giudicherà con quel criterio che enunciava […] Guardini: “L’unico modello per valutare con successo un’epoca è domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge un’autentica ragion d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere peculiare e le possibilità della medesima epoca”»[11].
Attraverso quattro polarità − il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è superiore alla parte[12] − viene suggerito di praticare una cultura della maturazione ad almeno un triplice livello: personale, comunitario locale, sociale. Dove per maturazione significa scegliere la via lunga della co-educazione in cui insieme si cercano e si praticano le prospettive di bene dando il tempo alle convinzioni profonde di formarsi, verificarsi nella vita e così sedimentarsi nell’interiorità personale e nella consapevolezza collettiva[13].
Questo è di estrema importanza per una trasformazione politica che sia radicata nell’umano di ciascuno e disseminata collettivamente[14] e quindi sia davvero capace di influire sulle strutture profonde della convivenza: «Afferrare la questione contemporanea e incontrare la sua sfida richiede allora uno sforzo collettivo. Non è l’individuo, ma il gruppo che trasforma la cultura»[15].
Una via politica attuale, libera e responsabile
I passi fin qui compiuti implicano un ulteriore passaggio riguardante la consapevolezza che, per dare un contributo ai problemi del proprio tempo, serve un lavoro di preparazione serio che non conosce alcuna scorciatoia, per così dire, soprannaturale o ecclesiale. Non basta, cioè, credere e appartenere alla Chiesa cattolica per avere un programma politico e una visione sociale all’altezza dei tempi.
Su questo tema ha molto riflettuto Giuseppe Dossetti mostrando, con singolare lucidità, come i cristiani non abbiamo particolare titolo di intervento nella vita pubblica semplicemente perché si dichiarano tali o perché si pensano dalla parte della ragione[16]. Si tratta per le coscienze che aderiscono al Vangelo di lavorare seriamente per acquisire tutte le conoscenze e competenze che permettano di leggere e intervenire sulla realtà in maniera efficace e sensata.
Qui è in gioco la capacità di comprendere i problemi del proprio tempo e le possibili soluzioni non proponendo − come talora accade − ricette per i problemi dell’altro ieri, in maniera spesso anacronistica. Bisogna cioè leggere le questioni del proprio tempo, riconoscerne le dinamiche nascoste, sentire le domande che l’oggi pone per il domani, assumendo in tal modo una funzione che la Bibbia descrive come profetica: leggere nel tempo le questioni decisive e le loro conseguenze future. Per fare questo Dossetti invita non a stare solo sul piano teorico ma a coltivare una sapienza della prassi, ossia un modo di procedere cristiano che impari e si confronti con l’esperienza storica.
In particolare Dossetti fa qui riferimento al tema della libertà del cristiano. L’azione politica e civile – ma, a ben vedere, anche quella ecclesiale − hanno a che fare con l’autorità, l’esercizio del potere, la gestione delle decisioni e, come sappiamo, l’uso del potere comporta per ogni uomo molteplici − e talora irresistibili − tentazioni. Diviene così fondamentale che i cristiani siano avvertiti di tale importanza e ambiguità dell’esercizio dell’autorità e coltivino in maniera radicale un profondo senso di libertà e di distacco.
Afferma nel 1987 nel testo Per la vita della città:
«Giustamente si deve» insegnare «al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare che questo egli deve sempre fare col massimo distacco possibile pena la perdita di tutta la sua credibilità come esploratore e testimone dell’invisibile. Deve sempre essere pronto a lasciare il suo ruolo – tanto più quanto più possa essere umanamente appetibile – come un viaggiatore deve lasciare la camera d’albergo in cui ha pernottato una notte, disposto persino a lasciarvi la valigetta con cui vi era entrato».
La storia politica, civile ed ecclesiale italiana degli ultimi settant’anni insegna che tale atteggiamento − certo molto esigente − è estremamente necessario per rendere il lavoro del cristiano in ambito sociale e politico serio e affidabile.
Lo scarto evangelico
La bella espressione di Dossetti sul cristiano inteso come «esploratore e testimone dell’invisibile» introduce un’ulteriore dimensione che non annulla le precedenti ma pone in una sana tensione l’impegno nella storia e la ricerca del regno di Dio.
Tale prospettiva è rappresentata al vivo da una lettera a un giovane comunista di don Lorenzo Milani − priore di Barbiana e maestro − che conviene qui ricordare:
«Caro Pipetta, ogni volta che ci incontriamo tu mi dici che se tutti i preti fossero come me, allora… Lo dici perché tra noi due ci siamo sempre intesi anche se te della scomunica[17] te ne freghi e se dei miei fratelli preti ne faresti volentieri polpette. Tu dici che ci siamo intesi perché t’ho dato ragione mille volte in mille tue ragioni: Ma dimmi Pipetta, m’hai inteso davvero? È un caso, sai, che tu mi trovi a lottare con te contro i signori. […] E quel caso è stato quel 18 aprile − dove avvenne la vittoria della Democrazia cristiana alle elezioni politiche italiane – che ha sconfitto insieme ai tuoi torti anche le tue ragioni. E solo perché ho avuto la disgrazia di vincere che […]».
Don Milani rivolgendosi a Pipetta – operaio della sua zona − gli mostra la ragione della lotta comune e tutta la problematicità di un partito di maggioranza che – pur rifacendosi espressamente al cristianesimo e alla Chiesa cattolica – non ha intrapreso su vasta scala un vero programma di riforme sociali a servizio degli ultimi della vita sociale. In questo quadro però, con il linguaggio tipico del priore di Barbiana, si rende evidente anche una sorta di irriducibilità del cristianesimo alle sole lotte sociali: «Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco. […] E se la storia non mi si fosse buttata contro, se il 18… non m’avresti mai veduto scendere lì in basso, a combattere i ricchi. Hai ragione, sì, hai ragione, tra te e i ricchi sarai sempre te povero a aver ragione. Anche quando avrai il torto di impugnare le armi ti darò ragione. Ma come è poca parola questa che tu m’hai fatto dire. Come è poco capace di aprirti il Paradiso questa frase giusta che tu m’hai fatto dire. Pipetta, fratello, quando per ogni tua miseria io patirò due miserie, quando per ogni tua sconfitta io patirò due sconfitte, Pipetta quel giorno, lascia che te lo dica subito, io non ti dirò più come dico ora: “Hai ragione”. Quel giorno finalmente potrò riaprire la bocca all’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Pipetta hai torto. Beati i poveri perché il Regno dei Cieli è loro”. Ma il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i … fame e sete”»[18].
L’immagine del ritorno nella casetta piovosa con il crocifisso spiega benissimo lo scarto permanente del Vangelo per cui la sequela di Gesù − e la ricerca incessante del mistero del suo amore − pur essendo solidale e dentro alle lotte − politiche e civili − per la giustizia ne è sempre anche oltre e più in là[19].
In quale Chiesa?
La riflessione su alcune dimensioni dell’amore politico e sociale, volte alla costruzione di una più ampia amicizia sociale[20], non riguarda solo i singoli cristiani o gruppi di cristiani, ma implica anche una questione di natura ecclesiale che potrebbe essere così formulata: quali sono gli atteggiamenti ecclesiali che nutrono e aiutano la maturazione di tali prospettive? Quali invece le prassi che bloccano tali sviluppi? Certo, sono domande troppo ampie; possiamo però, a titolo di esempio, evidenziare − prima − una dimensione, per così dire, bloccante e − poi − una caratteristica ambientale positiva e promuovente l’amore politico e sociale.
Le analisi storiche, teologiche e sociologiche lo mostrano ormai bene: una comunità ecclesiale che pensa troppo a sé stessa, che, nel fare questo, vive logiche castali o patriarcali − con un modello clericale preoccupato di perpetuarsi nella ripetizione estenuata dell’identico − non può essere luogo di maturazione di un amore che si senta socialmente responsabile. Ancor meno lo può essere una comunità in cui non si coltiva il senso critico, in cui non si stima il pensare e dialogare liberamente e nemmeno l’affrontare onestamente i problemi. Talora questo tipo di comunità sembrano piuttosto prediligere gli slogan e le parole d’ordine, il conformismo nel pensare e nell’agire, un modo di procedere che non disturbi troppo il manovratore del momento, la fuga dalle domande – esistenziali, teologiche e sociali – davvero rilevanti. Questa è una via – ne siamo ormai consapevoli da tempo – che non può produrre alcuna maturazione profonda, collettiva e duratura.
Si tratta invece di coltivare un diverso atteggiamento comunitario – una cultura dell’ascolto e dell’attenzione – che può essere enucleato dalla conclusione bellissima de Le città invisibili di Italo Calvino:
«[Parla Marco Polo:] L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e approfondimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»[21].
C’è, infatti, bisogno di attenzione, di approfondimento continuo, di un cercare e saper riconoscere il bene, di farlo durare e dargli spazio. È questo modo di procedere che può permettere di avvedersi di molte buone pratiche, di fecondi scambi, dell’importanza della diversità biologica, culturale, umana, della presenza di menti e cuori, spesso nelle periferie e nelle ultime file, disponibili ad un impegno serio, lucido e generoso.
Questa modalità capace di stupore, di attenzione e sensibilità, con cui la comunità cristiana si guarda intorno e si preoccupa responsabilmente di avviare processi che portino frutto nella vita delle persone e delle istituzioni, ci sembra il terreno e l’atmosfera spirituale necessaria per riconoscere e far maturare i germogli di un amore politico e sociale.
- Versione riveduta e ampliata dell’articolo pubblicato sulla rivista Vocazioni 4/2021.
[1] Cf. G. Dossetti, «Il Vangelo, i salmi e la storia», in Id., G. Dossetti, La Parola di Dio seme di vita e di fede incorruttibile, EDB, Bologna 2002, 219.
[2] Per notizie e materiali si veda il sito Studiare Dossetti www.dossetti.eu, cf. anche F. Mandreoli, Giuseppe Dossetti, EDB, Bologna 2020.
[3] Cf. S. Bongiovanni – S. Tanzarella (edd.), Con tutti i naufraghi della storia, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2019.
[4] Cf. M. Revelli, «Moussa Balde. Una morte che pesa come un macigno», in il Manifesto, 25.05.2021, 1.5.
[5] Per notizie più ampie si veda il sito dell’Associazione don Paolo Serrazanetti, www.donpaolino.it.
[6] Papa Francesco, Laudato si’, 16.
[7] Papa Francesco, Fratelli tutti, 1-8.
[8] Cf. S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma 2019.
[9] Cf. V. Balzani, Salvare il pianeta per salvare noi stessi, Lu.ce, Massa 2020 e Id., Energia per l’astronave Terra. L’era delle rinnovabili, Zanichelli, Bologna 2017.
[10] Cf. B. Latour, Essere di questa terra, a cura di N. Manghi, Rosenberg & Sellier, Torino 2019.
[11] Papa Francesco, Evangelli gaudium, 224.
[12] Ib., 217-237.
[13] Cf. D. Dolci, Dal trasmettere al comunicare, Sonda, Casale Monferrato 2011.
[14] Cf. S. Settis, L’azione popolare, Einaudi, Torino 2021.
[15] B. Lonergan, «Credenza: questione di oggi», in R. Finamore (ed.), Saggi. Seconda Edizione (Opere di Bernard Lonergan), Città Nuova, Roma 2021, 123. Ringrazio la prof. Stefania de Vito per la segnalazione di questo testo.
[16] Cf. G. Dossetti, L’eterno e la storia. Il discorso dell’Archiginnasio, EDB, Bologna 2021 e Id., Per la vita della città, Zikkaron, Marzabotto 2017.
[17] Si tratta della scomunica comminata dalla Santa Sede agli aderenti al partito comunista nel 1949.
[18] L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani, a cura di M. Gesualdi, Mondadori, Milano 1988, 19-21.
[19] Cf. M. Prodi, Regno di Dio e mondo nel De Civitate Dei. Una parola attuale per il cambiamento d’epoca, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2021.
[20] Papa Francesco, Fratelli tutti, 99.
[21] I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 2016, 190 (corsivi miei).