Si sono chiuse le Olimpiadi di Tokyo, lasciandosi alle spalle la scia luminosa degli spettacolari fuochi d’artificio della cerimonia conclusiva e tanta gioia per i successi, attesi ma per certi versi inaspettati, dei nostri atleti.
Resterà un’edizione olimpica memorabile, quella di Tokyo 2020, e non solo per il record del nostro medagliere con le sue straordinarie quaranta medaglie: già solo la discrepanza delle date, per cui la 32ª Olimpiade, svoltasi nell’estate 2021, si è comunque chiamata Tokyo 2020, servirà in futuro a ricordare e far ricordare gli anni difficili della pandemia di Covid-19 che, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi moderne, ha costretto il CIO e il Comitato organizzatore a rimandare i giochi, posticipandoli di un anno.
In questi giorni d’estate, in cui si guarda alla parola “ripresa” con un misto di fiducia, di speranza e di diffidenza, le vittorie dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze ci hanno regalato momenti di esultanza e di gioia limpida, pulita. Senza curarci degli eventuali strascichi polemici che anche questa Olimpiade inevitabilmente trascinerà dietro sé, ogni qual volta un atleta azzurro si è trovato in dirittura di podio, ci siamo lasciati coinvolgere dalla passione sportiva e dal desiderio di fare il tifo. Non abbiamo pensato agli sponsor, ai costi, al giro di miliardi; abbiamo guardato, e tifato, gridato, ammirato, esultato, gioito.
Da Olimpia a Tokio
Le prime Olimpiadi, intese come evento panellenico, vennero disputate nella città di Olimpia nel 776 a.C. La Grecia era allora, e lo sarà per diversi secoli ancora, fino ad Alessandro Magno, una realtà costituita da tante città autonome e indipendenti, animate da reciproche e spesso sanguinose rivalità. Ma in occasione dei giochi, che si tenevano ogni quattro anni, i greci erano tenuti a rispettare la cosiddetta “Tregua olimpica” e le inimicizie e le guerre venivano messe a tacere. L’importanza delle Olimpiadi era tale che se la cronologia romana si computava ab Urbe condita, cioè dalla fondazione di Roma, la storia greca aveva la sua base di riferimento cronologico proprio nella numerazione delle Olimpiadi.
Gli atleti olimpici vincitori nelle varie discipline erano, a tutti gli effetti, eroi nazionali, oggetto di entusiastica ammirazione collettiva e beneficiari di pubbliche onorificenze.
Molte delle più famose statue dell’antichità greca ritraggono giovani atleti nel pieno della loro prestanza fisica; pensiamo al Discobolo di Mirone e al Doriforo di Policleto, ma anche all’auriga di Delfi, di autore ignoto. Completamente nudi[1] o rivestiti da morbidi panneggi che, accarezzandone le forme, non le celavano ma le lasciavano trapelare, i giovani uomini ritratti dagli antichi scultori greci divennero prototipi di una bellezza ideale.
E i corpi degli atleti, così perfetti nella loro proporzionata armonia, si fecero modello anche per la rappresentazione del divino che – sappiamo – nel mondo greco aveva un aspetto antropomorfo: basti citare l’Hermes con Dioniso di Prassitele. Le gare atletiche nel mondo greco furono anche questo: il trionfo del corpo umano e delle sue potenzialità. Potenzialità così straordinarie da potersi dire divine.
E, dunque, corpi. Corpi muscolosi, forti, resistenti, vivi, belli. Perfetti. Così umani. Così divini.
Parole senza voce
In questa estate 2021, speranzosa ma diffidente, combattuta tra distanziamento sociale e desiderio di contatto, alle prese ancora con mascherine e gel sanificante, vaccinata o critica o perplessa, Tokyo 2020 ci ha messi di fronte, in modo diretto e quindi con molta semplicità e verità, alla bellezza del corpo umano e delle sue divine potenzialità. Se il Covid ci ha insegnato ad avere paura del corpo degli altri, Tokyo 2020 ci ha fatto vedere quanto sono belli i corpi e quante cose possono fare e come le possono fare.
Abbiamo ammirato dei corpi. Li abbiamo guardati e ammirati non come oggetti, ma in quanto soggetti. Soggetti capaci di imprese strepitose; capaci perfino di modellarsi plasticamente per assumere la forma più adatta a questa o quella disciplina.
Droni e telecamere ad alta definizione ci hanno permesso di cogliere da varie angolature e a distanza ravvicinata tutte le parole senza voce che i nostri corpi possono esprimere, e sul volto e nei muscoli degli atleti abbiamo letto la grinta, la sofferenza, la concentrazione, la determinazione, l’esuberanza della gioia più incontenibile, la commozione.
E poi abbiamo visto corpi che si stringevano, si rincuoravano, si confortavano, si scambiavano in un abbraccio la felicità incontenibile della vittoria. E tutte quelle immagini ci hanno restituito, più di tante parole, la verità del nostro essere corpo – non riducibile ad oggetto, non riducibile a virtuale.
Il rischio della virtualizzazione
La strada che porta alla virtualizzazione del corpo è una strada ampia su cui da tempo ormai ci si è incamminati a ritmo deciso e senza alcuna precisa consapevolezza dei rischi e delle responsabilità che vi sono connesse.
Covid-19 – si dice – è stato uno straordinario acceleratore di processi in atto ormai da anni, da decenni addirittura. Ecco, dunque, che le misure cautelari connesse alla necessità di contenimento della pandemia ci hanno abituato a limitare ancora di più l’approccio corporeo alle varie situazioni esistenziali: meglio il computer o il cellulare, meglio la DaD, meglio le App, meglio on-line. Meglio l’identità digitale che un abbraccio sincero.
Ad Olimpia, tremila anni fa, un corpo di uomo, perfetto nella sua semplice armonica bellezza, poteva diventare via per pensare il divino. Mi illudo, forse, pensando che Tokyo 2020 possa averci aiutato a riappropriarci, anche in minima parte, anche inconsapevolmente, della coscienza del nostro essere, prima di tutto, un corpo – di carne, di spirito, di mente – non cosificabile, non virtualizzabile nella sua verità più profonda.
Questione decisiva, questa del corpo. Lo sa bene papa Francesco: mentre la Chiesa rischia di morire disincarnata, agli inizi di marzo il papa, in una sua breve catechesi sulla preghiera, ha parlato dell’importanza del corpo nella liturgia[2]: Gesù Cristo non è un’idea o un sentimento, ma una Persona vivente, e il suo Mistero un evento storico. La preghiera dei cristiani passa attraverso mediazioni concrete: la sacra Scrittura, i sacramenti, i riti liturgici, la comunità. Nella vita cristiana non si prescinde dalla sfera corporea e materiale, perché in Gesù Cristo essa è diventata via di salvezza. Potremmo dire che dobbiamo pregare anche con il corpo: il corpo entra nella preghiera.
[1] L’aggettivo gymnòs, da cui l’italiano ginnastica, ginnico, in greco significa nudo; la maggior parte delle pratiche atletiche non prevedeva venissero indossati vestiti, per cui il sostantivo gymnasion è passato poi a indicare la palestra in cui si praticavano gli esercizi sportivi.
[2] Papa Francesco, Udienza generale di Mercoledì 3 febbraio 2021, Catechesi sulla preghiera – Pregare nella liturgia.