Kabul non è Saigon: il futuro dell’Afghanistan

di:

afhanistan

Un’immagine fuorviante ma suggestiva potrebbe aver deformato il nostro criterio di valutazione di quanto accaduto a Kabul: è l’immagine dell’elicottero sull’ambasciata americana che ha fatto immediatamente scattare il parallelo con quanto accadde a Saigon.

Stabilire questo parallelo però, vista la natura ideologica del vecchio conflitto vietnamita, fa pensare che l’intervento militare in Afghanistan sia stato determinato dal destino delle donne afghane o dei giovani afghani sottoposti al governo dei talebani.

E invece questo intervento – come tutti dovremmo sapere – fu determinato dalle pulsioni politiche americane avverso a Bin Laden e alla sua al Qaida: prevenzione del terrorismo e netta rivalsa. Dunque, se a Saigon un popolo aveva sconfitto un disegno coloniale, a Kabul accade qualcosa di molto diverso. Il destino infausto dei profughi – in queste ore sui nostri schermi – ne è la conferma.

La percezione volutamente erronea rimuove l’immagine – di segno opposto ma anch’essa significativa – del ritiro sovietico dalla stessa Kabul. La propaganda sovietica aveva decantato nelle sale cinematografiche che il regime di Najibullah apriva, portando la modernità, le porte di Kabul.

Ma il vero obiettivo – per cui molti giovani russi perirono – non era altro che la conquista, dall’interno freddo, dei tanto desiderati “mari caldi”. Contro quel disegno sovietico Washington armò i “freedom fighter”, tra i quali crebbe bene Osama Bin Laden, che nel 2001 gli americani sarebbero andati a cercare tra le caverne di Tora Bora. Lo si trovò solo anni dopo, in Pakistan.

Il globalismo dell’islam asiatico

Così – se ci rapportiamo alla realtà e non ai desideri – il paragone tra Saigon e Kabul va ora riletto alla luce di un’altra domanda: esiste ancora al-Qaida? Esiste ancora lo spettro del terrorismo internazionale, in grado di colpire gli Stati Uniti e l’Occidente?

La risposta più nota e convincente – per chi si occupa di intelligence – è che le quotazioni di al-Qaida siano precipitate e che sia stata parzialmente sostituita dal rivale Stato Islamico del Khorasan (ISKP). Questo sarebbe la costola asiatica dell’Isis che, al contrario di al-Qaida, vagheggia la costituzione di uno stato islamico globale che unisca tutti i musulmani del mondo sotto lo stesso unico governo “eversivo”.

L’ISKP esiste da anni ed è stato in passato molto più forte di quanto sia oggi: ha l’obiettivo di creare un conflitto con l’Iran sciita – parlando al dolore di tutti i sunniti – estendendo l’insurrezione verso Oriente, verso il Kashmir e l’India, ove l’ISKP è presente, per inglobare le questioni locali in una grande questione insurrezionale asiatica.

Non è casuale che molti suoi comunicati siano rilasciati in lingua urdu, diffusa in India. Il colpo più devastante attribuito all’ISKP è stata la strage dei bambini sciiti – circa cento di etnia hazara – in una scuola di Kabul, nel maggio del corrente anno. L’8 giugno 2021 è avvenuta poi la rivendicazione dell’attacco a una ONG a Baghlan, costato la vita a dieci persone. L’ISKP aveva già peraltro colpito anche l’università di Kabul.

Tutto ciò, da alcuni, è stato attribuito ai talebani, da altri, interpretato come manovre di apparati deviati intenti a mostrare l’ISKP come alleato dei talebani. Sta di fatto che molte fonti convergono nel ritenere che l’ISKP abbia incrementato recentemente i suoi attacchi, nonostante le pesanti perdite patite dal 2015 al 2016, e proprio dopo la firma degli Accordi di Doha tra talebani e Stati Uniti.

Il localismo dei talebani

La valutazione più semplice di questo concentrato di attentati dell’ISKP in grandi città per ottenere la maggiore visibilità e la “migliore” ricaduta d’immagine, confermerebbe altresì che i talebani siano, dal punto di vista politico, effettivamente cambiati, benché, dal punto di vista sociale, siano ancora gli stessi dei tempi del mullah Omar.

La loro scelta sembrerebbe proprio quella di ottenere il riconoscimento internazionale dell’emirato afghano, una linea opposta a quella dell’ISKP.

La storia avrebbe dunque insegnato ai talebani a distanziarsi dall’insurrezionalismo terrorista, contando di ottenere il riconoscimento politico desiderato, posto che non è certo il destino delle donne afghane a interessare le cancellerie occidentali.

Ora è importante capire se i talebani stanno usando o useranno quel che sussiste in Afghanistan dell’ISKP per rafforzare la propria posizione negoziale.

Un vecchio accordo tra talebani e la base di al-Qaida effettivamente c’è stato, ma le rispettive dottrine non erano allora incompatibili come sono ora tra talebani e ISKP: la base di al-Qaida può adattarsi a operare da emirato sovrano – come quello afghano di cui parlano oggi i talebani -, mentre l’idea stessa di qualsiasi emirato locale, afghano o altro, è incompatibile col delirio del neo-califfato universale che fu di al-Baghdadi.

Va sempre ricordato che al-Baghdadi si chiamò Abu Bakr (al-Baghdadi), cioè si attribuì il nome del primo califfo eletto dopo Maometto, per esprimere il sogno di cancellare la storia islamica e ritornare, dalle sue macerie, al califfato universale originario.

Visto in tale linea prospettica, il volo dell’elicottero su Kabul diventa molto diverso da quello dell’elicottero di Saigon. Così, ora, i fautori dello scontro di civiltà si possono vedere persino tra alcuni pacifisti che di fatto rimproverano agli americani di non aver combattuto per vincere lo scontro tra civiltà e barbarie.

Quando l’Occidente non si può esportare

Potrebbe dunque giocarsi una duplice incomprensione: quella che, da questi ambienti, avversando lo scontro di civiltà, di fatto lo hanno alimentato, desiderando che l’intervento esportasse in Afghanistan il modello occidentale di democrazia come il solo modello possibile.

Parlare infatti di “nuova Saigon”, cosa vuol dire? Auspicare il ritiro ordinato o piuttosto restare a usare ostinatamente le armi per creare la democrazia?

L’altra grave incomprensione – meno appariscente – potrebbe essere quella in cui stanno incorrendo gli strateghi euro-americani che non hanno ancora ben capito che la loro campagna – protrattasi dopo la morte di Bin Laden proprio nel nome dell’esportazione della democrazia – ha perso per effetto della corruzione dilagante e del traffico di droga che scorre a fiumi nel paese, nonostante gli investimenti stimati intorno ai due trilioni di dollari.

Si è mai veramente tentato di realizzare un sistema inclusivo, con la consapevolezza della complessità etnica e tribale dell’Afghanistan, termini – questi – assai sgraditi alle orecchie occidentali, ma pure assai reali?

L’illusione trumpiana di poter instaurare un governo di transizione in accordo con i talebani non ha fatto i conti con l’effetto pressoché immediato sull’esercito afghano che, all’annuncio del ritiro, se ne è andato in rotta. Con l’avvicinamento dei “signori della guerra” ai talebani – tutti armati sino ai denti – i poveri soldati afghani avrebbero dovuto restare i soli in divisa a nascondere una resa già decisa?

Avrebbero dovuto fare la guerra e morire per salvare il buon nome di chi già stava convenendo con i talebani anche il loro futuro e quello delle loro famiglie? I vertici militari americani – presumo – sapevano bene che sarebbe andata a finire così.  Ritirarsi dopo aver speso due trilioni di dollari in uno dei Paesi più poveri al mondo è un fatto di incalcolabile gravità che – certo – non avrebbe potuto determinare il saluto con le fanfare. Qualcuno si è illuso? Non penso!

In termini regionali il ritiro americano era cominciato da tempo. La loro presenza non ha mai fatto suonare le fanfare della popolazione e non è mai piaciuta, neppure a chi ha creduto che fosse davvero possibile esportare la democrazia.

Realpolitik e democrazia sui generis

Guardando – in parallelo – all’Iraq, dobbiamo ammettere che, dopo il ritiro, si sono notati flebilissimi progressi che, forse, senza il ritiro non sarebbero stati possibili.

Se il ritiro americano dall’Afghanistan favorirà un concerto asiatico sui destini di questo Paese – preservando il Kashmir dalle fiamme dell’ISKP e gli sventurati vicini musulmani cinesi – gli uiguri – da scontri,  così come i bambini sciiti da altre stragi, quantomeno la realpolitik potrà involontariamente rassegnarsi a una prospettiva meno odiosa di quanto in questi giorni possa apparire.

Una prospettiva nella quale gli afghani non siano più soltanto i traditi, prima dai sovietici e poi dagli euro-americani, bensì gli affaticati protagonisti della costruzione di una via afghana a una futura democrazia, cioè quella inclusiva e consociativa di una società composita, con lenti progressi che andrebbero sostenuti dal realismo di chi è consapevole che il benessere del vicino è la condizione del proprio.

Contro questa faticosa e incerta prospettiva la minaccia più grave potrebbero essere i trafficanti internazionali di droga. Corruzione ed enormi proventi – messi insieme – costituiscono una spirale che nessuno riesce a controllare. Ma intanto si parla d’altro.

Print Friendly, PDF & Email

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto