Il governo fiammingo ha deciso di accelerare la riconversione delle chiese cristiane delle Fiandre (l’area a Nord del Belgio).
Ignorando le Chiese, e la Chiesa cattolica in particolare, ha dato mandato ai sindaci e alla struttura deputata (PARCUM) di accelerare i procedimenti di nuovo utilizzo degli edifici ecclesiastici aprendo anche a fini commerciali e di lucro. Potrebbero diventare supermercati, birrerie, studi di professionisti ecc.
Le Fiandre contano 1.786 chiese di proprietà pubblica e, nell’ultimo decennio, 181 sono state convertite ad uso civile (biblioteche, centri giovanili, sale concerto ecc.).
Il Programma per il futuro delle chiese parrocchiali è stato definito dieci anni fa dal governo, d’intesa con le Chiese, che hanno bloccato per l’uso liturgico-pastorale circa 700 chiese, riservandosi di affrontare caso per caso le altre.
Le autorità politiche e amministrative ritengono oggi troppo lente le decisioni e troppo vincolanti le condizioni. Il 77% dei sindaci (300) vedrebbe bene la riconversione delle chiese anche oltre gli utilizzi attuali, seppur privilegiando gli esiti socio-culturali e ricreativi. Il mantenimento e la custodia degli edifici sono considerati economicamente troppo pesanti.
Riconversioni “azzardate” sono già attive. La decisione del governo rafforza le strutture del PARCUM e mette a disposizione 15 milioni di euro per progetti di riconversione. Sposta in capo ai comuni la decisione sul riutilizzo delle chiese dismesse.
Un dialogo interrotto
Il coinvolgimento delle Chiese all’inizio del Programma aveva alimentato i dialoghi nelle parrocchie e nelle unità pastorali in ordine all’utilizzo dei propri edifici di culto e propiziavano la stesura delle Linee guida (2012). Già nel 2006 se ne era occupato un partecipato convegno ecclesiale sull’evangelizzazione e mons. J. De Kesel (allora vicario generale e vescovo ausiliare della capitale, oggi cardinale e vescovo di Malines-Bruxelles) scrisse una lettera pastorale che ridefiniva i territori, avviava le unità pastorali e distingueva negli edifici sacri fra chiese di unità e chiese di testimonianza.
Le prime era quelle più funzionali all’azione liturgica e pastorale, le seconde (cappelle, chiese conventuali, chiese monumentali) alla preghiera personale e alla testimonianza artistica. Le prime in funzione delle comunità cristiane (luce nelle città), le seconde in testimonianza per tutti (sale della terra). D’intesa con le autorità civili, le chiese non utilizzate erano disponibili per attività culturali e sociali, per le comunità linguistiche cattoliche degli immigrati, per le comunità cristiane non cattoliche.
Nel 2019 l’episcopato fiammingo riprende le linee guida fissandole in un opuscolo Chiesa. Significato e futuro. In esso i vescovi prendono atto della progressione dei processi secolarizzanti e sollecitano le comunità a pensare al futuro della gestione degli edifici sacri, tenendo conto dei molti significati del manufatto. Con l’obiettivo di razionalizzare l’orientamento delle diocesi sul tema, chiariscono i passaggi da adottare per l’uso “secondario” (oltre quello liturgico) e l’eventuale riutilizzo.
La decisione del governo è giunta inaspettata e la reazione, per bocca di Johan Bonny, vescovo di Anversa, è stata secca. «Ciò che gli ebrei giudicano inaccettabile per una sinagoga, i musulmani per una moschea e i massoni per una loggia, anche i cristiani non possono tollerarlo per una chiesa». «Le chiese sono state costruite e utilizzate per l’uso delle comunità cristiane». Se si legittima il riutilizzo commerciale, quale sarà il limite?
«Un supermercato, una palestra, una birreria, un ristorante, un rifugio per gli animali, un mercato di vestiti, un teatro e, perché no, un bordello». Equiparare gli edifici significa non capire l’anima di una città e di un territorio.
Convergenze sulle Linee guida
Il problema della destinazione d’uso delle chiese non riguarda solo le Fiandre e il Belgio. È presente in Gran Bretagna, Francia, Olanda, Svizzera, Canada, Italia, Spagna. I vescovi avvertono che il patrimonio immobiliare non corrisponde più alla situazione reale delle comunità, ma sono anche consapevoli della necessità di calibrare, condividere, moderare e verificare il possibile riutilizzo delle chiese. Quanto è successo dopo l’incendio di Notre Dame a Parigi testimonia l’estensione del significato storico e simbolico di un edificio.
Linee guida sono state elaborate in molti casi. In Francia, dove sono di proprietà statale 40.000 edifici sacri, quelli definitivamente sottratti all’uso liturgico sono 255 nell’arco temporale fra il 1905 e gli anni ’70, con un processo giuridico molto regolato.
Così in Germania, che ha un patrimonio di 45.000 chiese (le cattoliche sono 24.000). Ma una previsione di Thomas Erne, teologo protestante a Marburg in un articolo sul Frankfurter Allgemaine Sonntagszeitung, offre una realistica previsione per il 2060 prevedendo una loro riduzione di 15.000 a causa del calo degli appartenenti (dagli attuali 43 milioni a 20) con la conseguente riduzione delle entrate fiscali. L’indicazione è di privilegiare gli edifici di maggior pregio e di facilitare il riutilizzo in senso sociale e culturale.
Il 17 dicembre 2018 il Pontificio consiglio della cultura ha pubblicato La dismissione e il riuso ecclesiale di chiese. Linee guida offrendo un punto di riferimento per tutte le diocesi cattoliche. Tre le linee di sviluppo più promettenti:
- collocare ogni singolo elemento del patrimonio ecclesiastico nel sistema urbano;
- il valore materiale custodisce un patrimonio immateriale che lo interpreta; – il coinvolgimento delle comunità locali, civili e religiose, in ordine al riuso delle costruzioni.
Quattro i criteri con cui leggere la trasformazione o la vendita degli edifici. Il primo è la resilienza, cioè la capacità di un patrimonio di mantenere la propria riconoscibilità, nonostante i mutamenti subiti.
Il secondo è la sostenibilità dell’edifico trasformato, almeno per il medio periodo.
Il terzo è la corresponsabilità, sia in ordine a soggetti diversi che si assumono la gestione (pastorali specializzate, movimenti, aggregazioni laicali ecc.), sia in ordine all’apertura come spazi di silenzio e di visita turistica.
Il quarto è la necessità che ogni intervento venga collocato dentro una pianificazione dell’uso del patrimonio immobiliare ecclesiastico.
L’eccellenza che manca
Ma c’è anche il problema inverso: la costruzione di chiese e la loro qualità architettonica. La possibilità di finanziamento legato all’otto per mille ha favorito molto la discussione in Italia fra le tendenze funzionali, simboliche e teologiche.
In un commento su Crux Now, John Allen Jr. richiama l’attenzione sulla progressiva assenza fra gli edifici di assoluto pregio dei manufatti religiosi. Citando uno studio sul supplemento Style del New York Times sui 25 edifici più importanti dell’architettura moderna dopo la seconda guerra mondiale, se ne registrano solo due con un legame alle fedi: la moschea Bait Ur Rouf a Dhaka e la cappella del convento domenicano a la Tourette (Evreux – Francia).
Uno studio di M.A. Crippa del 2014 su Decor relativo ai 40 edifici più prestigiosi degli ultimi decenni se ne citano solo 4 di indirizzo religioso.
In un saggio del 2017 su Architectural Digest sui 50 edifici più iconici e suggestivi del mondo nell’arco temporaneo della storia conosciuta, se ne registrano ben 23 che hanno una diretta ispirazione e appartenenza religiosa e 5 che sono ad essa afferenti. Come a dire: nel passato l’ispirazione religiosa suggeriva il meglio delle costruzioni, mentre nel contemporaneo sembra smarrire tale capacità che la spinta identitaria e tradizionalista avviata dalla globalizzazione penalizza ulteriormente.
Non è casuale che gli enormi investimenti per chiese di carattere nazionale come a Budapest, a Belgrado e in Russia ripetano senza fantasia e creatività gli stili della tradizione. Pietre, progetti e modalità di costruzione raccontano più di quanto si possa dire inseguendo le emergenze immediate.
Sono parroco di quelle che un tempo erano sette parrocchie, adesso confluite in unità pastorale, con sette chiese parrocchiali e numerose altre chiese e cappelle (di diversa proprietà: ecclesiastica, privata, dello stato). Una delle chiese parrocchiali, in cui si celebrava una Messa festiva con una partecipazione spesso inferiore alle dieci persone, ha subito il crollo di una porzione di tetto il cui ripristino (oltre all’intera revisione della copertura) comporta una spesa notevole, per la quale la Diocesi chiederà di accedere ai fondi CEI “otto per mille” che coprono il 70% dei lavori da eseguire. La restante parte resta da trovare. La comunità di riferimento di tale parrocchia è composta di circa trecento persone; per metà si tratta di persone straniere o comunque in buona parte estranee all’appartenenza comunitaria. La chiesa è posta in posizione irraggiungibile con le auto, il parcheggio più vicino dista settecento metri di strada in salita.
Se si riuscirà a completare i lavori, quando nell’unità pastorale ci sia un solo prete (per ora siamo in due, parroco e vice-parroco) nella chiesa riaperta si potrà celebrare la Messa al massimo per Natale, per Pasqua e per la festa patronale.
Confrontandomi con l’esperienza belga, mi pongo una domanda: in quante parrocchie o ex parrocchie si verificano situazioni analoghe? Ha senso sobbarcarsi spese e impegni notevoli, che assorbono energie da sottrarre ad altre attenzioni pastorali, nella quasi certezza della inutilizzabilità di molti edifici sacri a causa del prevedibile e progressivo calo numerico sia di clero che di fedeli?
Pur essendo lontani e diversi rispetto alle situazioni dei territori a cui il testo fa riferimento, sono tuttavia convinto che la CEI dovrebbe studiare seriamente la questione, arrivando a esprimere linee-guida che prevedano e programmino il da farsi, verificando una serie di condizioni:
– edifici di culto posizionati in centri abitati in via di spopolamento
– vicinanza di altre chiese aperte al culto
– scarso valore storico/artistico
– carenza di clero nella diocesi
– insostenibilità degli oneri di gestione da parte delle rispettive comunità.
Qualora le suddette condizioni si sommino, di dovrà seriamente, serenamente e razionalmente verificare l’opportunità o la necessità di prendere la decisione di dismettere, avendo come prospettiva l’alienazione della chiesa perché sia destinata ad altro uso (sala riunioni, biblioteca, centro sociale, spazio di accoglienza e simili, puntando al rispetto dell’originaria destinazione dell’edificio) o anche, in casi estremi, l’abbattimento offrendo così al territorio uno spazio verde e/o un parcheggio. Sempre previo accordo con l’Ente locale (di regola il Comune).