Dico: “andiamo oltre la sinistra”, così spavento tutti quelli che si nascondono dietro la negazione dogmatica della “terza via”, solo, alla fin fine, per opporsi a un’altra via e a un’altra sinistra.
Mi stupisco del fatto che ancora oggi siamo ostaggi di una polarità arcaica tra destra e sinistra, prigionieri di una falsa dialettica che paralizza ogni creatività. La responsabilità di questa impasse non è della destra, che negli ultimi 150 anni purtroppo ha sempre saputo riproporre la sua violenta egemonia sulle società, senza rinnovarsi, senza perdere l’iniziativa. Le colpe di questo vicolo cieco sono, infatti, tutte della sinistra, che ha sempre sofferto per un trauma apparentemente insanabile: la coazione a ripetersi. Fu nel secolo scorso che la sinistra inaugurò con lo stalinismo la rincorsa alle ripetizioni.
Lo stalinismo non si limita alla geografia della vecchia URSS che, fin dagli inizi leninisti e troskisti aveva tradito, insieme a Nestor Makhno e ai marinai di Kronstadt, i consigli operai e i contadini, ma era sostenuto e difeso dalla solidarietà di tutti i partiti comunisti occidentali.
Rinunciare ad aprire gli occhi sulle purghe e gulags e omettere la critica degli orrori del regime comunista era il prezzo da pagare per potersi ritenere fedele allo schieramento antimperialista. E a questo, pare, siamo condannati anche oggi quando, tranquillamente, ripetiamo lo schema stalinista, optiamo cioè per la fedeltà canina ai miti della sinistra e rinunciamo a leggere criticamente ciò che accade a Cuba, nel Nicaragua, nel Venezuela o nel Brasile del Partito dei Lavoratori.
I sintomi di questa sindrome sono l’ottusità e la feroce parzialità di comportamenti che sarebbero considerati barbari anche nel caso delle tifoserie del calcio. Sembra che la certezza della complessità degli eventi e delle relazioni politiche non faccia parte del bagaglio politico della sinistra.
A fianco di questa posizione incontriamo, come nel processo di trasformazione del Partito Comunista Italiano, la soluzione di “buttare il bambino con l’acqua sporca”: la rinuncia, nell’ambito dei grandi cambiamenti sociali, a rileggere la storia in termini di lotta di classe, consegnandosi, ormai disarmati, alla farsa della democrazia liberale.
Qualcosa di simile succede durante la stagione lulista del Partito dei Lavoratori, in Brasile, dove si mescolano schizofrenicamente discorsi radicali di classe, fatti alla luce del giorno, con decisioni politiche “notturne” a servizio del capitalismo e corroborate dalla spudorata alleanza con la destra oligarchica e del ceto imprenditoriale.
Non dobbiamo ignorare inoltre il destino di tanti comunisti che, tranquillamente, ma con l’alibi di una lettura dialettica suppostamente marxista, sono passati dalla lotta armata contro la dittatura civile-militare all’adesione entusiasta al comunismo albanese e, infine, all’opportunista e corrotta aderenza allo status quo.
In queste terre, non possiamo dimenticare l’invenzione – tutta latino-americana – dello sposalizio tra stalinismo e caudillismo, versione in cui le uniche classi sopravviventi ma occultate – i burocrati e i militari – si confrontano con un popolo genericamente inteso.
La sinistra che prevale nel cosiddetto Nuovo Mondo, è quella che si ritiene soddisfatta quando può avere l’identità garantita da un nemico, come figura fondante e legittimante: l’unica cosa che sa fare è essere contro qualcuno. Questo è successo nel Maranhão, dove la sinistra si è definita per circa cinquant’anni solo per l’opposizione a Sarney e alla sua famiglia. Con il disastroso nulla che ne è seguito. Senza accompagnare i cambiamenti sociali e il sorgere di nuove sfide politiche. Senza un progetto.
E questo si ripete oggi quando il nemico è Bolsonaro e il bolsonarismo. Essere “contro” in questo modo è opportunisticamente più efficiente per garantire il gioco degli interessi elettoralisti. In tal modo il tramonto dell’occidente, le questioni ambientali e climatiche, insieme alle sfide anticoloniali, cessano di esistere come eventi che interpellano la politica.
Viva Lenin, viva Marx, viva Mao-Tze-Tung.
“(…) la rinuncia, nell’ambito dei grandi cambiamenti sociali, a rileggere la storia in termini di lotta di classe, consegnandosi, ormai disarmati, alla farsa della democrazia liberale.”
L’articolista utilizza un armamentario analitico antico quasi quanto le categorie teologiche scolastiche: sicuramente le società contemporanee contengono conflitti e contraddizioni ma certo non più analizzabili “in termini di lotta di classe”.
Fa piacere però che si auspichi il superamento delle categorie di destra e sinistra nate nell’assemblea nazionale costituente figlia della rivoluzione francese… forse i tempi per superarle sono maturi.
Infine Dio salvi la “farsa della democrazia liberale” che, con tutti suoi limiti, rappresenta ancora la migliore forma politica disponibile.
Ovviamente tutto è migliorabile a patto di non regredire a forme di dittatura fossero anche quelle del proletariato.