È ben noto che la pandemia di Covid-19 ha creato numerosi ostacoli alla regolare celebrazione del culto. Ha incontrato difficoltà anche la cerimonia di beatificazione di Stefan Wyszyński, nato nel 1901, durante la seconda guerra mondiale cappellano del clandestino esercito polacco in lotta contro gli occupanti nazisti, dal 1948 arcivescovo di Gniezno e Varsavia, sede primaziale della Polonia e, dal 1953, cardinale.
Otto anni dopo il decesso, avvenuto nel 1981, Giovanni Paolo II, legato da una conoscenza di lunga data al porporato che era anche stato tra i fervidi sostenitori della sua elezione nel secondo conclave del 1978, aveva promosso l’introduzione della causa di canonizzazione. Nel 2017 papa Francesco ne aveva riconosciuto le virtù eroiche, due anni dopo si era accertato il miracolo.
Una immutata popolarità
Il rito formale era stato fissato per il giugno 2020 a Varsavia, dove si conservano le spoglie del cardinale. L’emergenza sanitaria ha costretto a rinviarlo. Si terrà il 12 settembre nel Tempio della Divina Provvidenza della capitale polacca presieduto dal legato pontificio, card. Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi.
Il Comitato organizzatore ha dettato le regole imposte dall’emergenza sanitaria: posti contingentati, riservati esclusivamente a delegati delle diocesi e delle associazioni legate alla memoria del presule. La distribuzione preventiva del ristretto numero di tessere di accesso ha provocato delusione e proteste. In risposta, è stato diffuso l’invito a seguire la cerimonia via radio o in televisione o in streaming sul web.
La vicenda ha ottenuto un primo risultato: i social media sono stati inondati da riferimenti alla biografia e all’insegnamento del cardinale. Dopo mezzo secolo dalla scomparsa, immutata sembra dunque la capacità della sua figura di suscitare in terra polacca un’attenzione di massa.
Le ragioni sono certo molteplici. Ma una motivazione non secondaria si ricava dalla considerazione dello straordinario successo popolare incontrato da iniziative prese nel corso della sua vita. Una testimonianza significativa viene da una manifestazione religiosa promossa dopo che era stato liberato dall’internamento triennale cui l’aveva sottoposto il regime comunista.
Nell’aprile 1950 Wyszyński aveva mostrato una realistica saggezza ben diversa dall’atteggiamento tenuto dalle gerarchie in altri paesi dell’Europa orientale. Nonostante il glaciale silenzio di Roma, aveva spinto l’episcopato polacco, a sua volta assai riluttante, a sottoscrivere un’intesa con il governo comunista: in cambio del riconoscimento politico e dell’accettazione della collettivizzazione dei mezzi di produzione, la Chiesa otteneva una certa libertà, in particolare in materia educativa e di stampa. Ma, nel 1953, in seguito all’intervento di Mosca che imponeva di sostituire il primo ministro Gomulka con il più rigido Bierut, la linea dell’esecutivo si inaspriva.
Il netto rifiuto del cardinale di accettare la nuova normativa che stabiliva un controllo ministeriale sulle nomine ecclesiastiche aveva portato al suo imprigionamento.
Nel 1956 le rivolte nell’Europa dell’Est avevano indotto l’URSS – in fase di destalinizzazione – ad accettare che si potesse sperimentare una qualche via nazionale al socialismo a condizione che non si mettesse in questione il sistema imperiale sovietico.
In questa prospettiva il Cremlino acconsentiva che in Polonia ritornasse a capo del partito e del governo Gomulka, che, liberato il cardinale, apriva con lui un dialogo: l’impegno della Chiesa a garantire ordine pubblico e pace sociale – in modo da evitare il ripetersi della sanguinosa repressione militare che Mosca aveva compiuto in Ungheria – veniva compensato con la riacquisizione di spazi di libertà.
La Grande Novena
Il cardinale li utilizzava per lanciare il progetto della Grande Novena. A partire dal 1957, per i nove anni successivi, tutte le istituzioni cattoliche avrebbero mobilitato i fedeli su un tema religioso nella prospettiva di giungere nel 1966 ad un’adeguata celebrazione del millenario della cristianizzazione della Polonia. Si trattava di prepararli a ricordare che, nel 966, re Mecislao, riunite alcune tribù pagane in una unitaria entità politica, aveva ricevuto il battesimo assieme a buona parte della corte e aveva poi promosso la conversione al cristianesimo della popolazione.
La rievocazione della vicenda faceva perno sulla presentazione di un nesso costitutivo tra la nascita di un unitario Stato nazionale polacco e l’appartenenza cristiana della popolazione, che le vicende successive – la resistenza alle mire assimilatrici e sopraffattrici della Russia ortodossa e della Germania protestante – avrebbero connotato in senso cattolico.
La ricostruzione, più che alla storiografia, attingeva all’invenzione della tradizione del nazionalismo dell’età romantica. Ma un’esigenza politica spingeva il cardinale ad assumere il mito di una piena sovrapposizione tra cattolicesimo e Stato polacco.
Se il regime voleva perseguire una via nazionale al socialismo, non poteva che mantenere i patti con una Chiesa che, storicamente identificatasi con la nazione, continuava ad esserne espressione.
Nel luglio 1966, per dimostrare agli occhi del potente alleato sovietico il successo della via nazionale intrapresa nella costruzione del socialismo, Gomulka organizzava la commemorazione del millenario dello Stato con la più grande parata militare della storia polacca. In quegli stessi giorni la società civile affollava le chiese per celebrare in riti ad un tempo religiosi, politici e civili, segno della persistente vitalità dell’originaria identità cattolica della Polonia. Era la plastica dimostrazione che la politica del “paese legale” non poteva prescindere dal “paese reale”.
Il crollo del regime comunista
Negli anni successivi si sarebbero moltiplicate imponenti manifestazioni religiose che – evidenziando l’incapacità del governo comunista a conquistare consenso – declinavano in chiave sempre più nazionale la connotazione sociale e politica del cattolicesimo polacco. Avrebbero raggiunto il culmine negli incontri organizzati nelle visite compiute nella terra natale da Giovanni Paolo II, che, dal canto suo, traduceva la linea promossa in Polonia dal primate in una generale teologia del battesimo delle nazioni come proposta idonea all’evangelizzazione del mondo contemporaneo.
Il crollo del regime comunista che, contrariamente alle speranze di Wojtyla, ha avviato anche in Europa orientale i processi di secolarizzazione caratteristici delle democrazie occidentali, ha indebolito in Polonia l’orientamento nazional-cattolico assunto per contingenti ragioni politiche da Wyszyński. Ma non ne ha cancellato la presa tra i fedeli. Anzi, ha trovato nuovo alimento in una sua riconfigurazione. È stato infatti individuato come una risorsa in grado di difendere l’identità culturale di una nazione minacciata dall’immigrazione islamica.
L’iniziativa del rosario alle frontiere – nell’ottobre 2017 una catena umana con la coroncina in mano si è disposta lungo i confini del paese per segnare il limite posto dalla nazione polacca alla presunta aggressione musulmana portata dagli immigrati – ne è solo una delle espressioni.
In concomitanza con la beatificazione, Camera e Senato, dove il populismo nazionalista ha la maggioranza, hanno decretato che il 2021 sarà civilmente celebrato come l’anno di Stefan Wyszyński, definito «primate del millennio» per la sua difesa della patria e di Dio.
I siti tradizionalisti esultano: finalmente viene ufficialmente riconosciuta l’equiparazione del pericolo portato dall’islam all’identità nazionale e alla civiltà cristiana con quello un tempo arrecato dal comunismo.
Ovviamente il nesso sul piano storico è privo di qualsiasi fondamento e gli studi hanno mostrato i tragici disastri causati dalla cultura cattolica che ha legato il Dio di Gesù ai moderni Stati nazionali. Papa Francesco lo ha più volte ricordato. Ma politiche di canonizzazione, non accompagnate da adeguate contestualizzazioni storiche dei nuovi santi e beati, hanno spesso esiti imprevedibili.