Desidero presentare, in forma assai sintetica, quattro testi recentissimi, frutto della ricerca in ambito francese, in ambito tedesco e in ambito “romano”.
Un testo è già scritto in italiano, uno di questi sta per uscire in traduzione italiana (quello francese) mentre di quelli tedeschi possiamo avere già recensioni disponibili (una è appena uscita su Il Regno). Mi fermo rapidamente sugli aspetti più qualificanti di ciascuno di questi importanti contributi.
Una Chiesa trasformata dal popolo. Una serie di proposte alla luce di Fratelli tutti, edd. H. Legrand – M. Camdessus (Milano, Paoline, 2021)
Le proposte fondamentali del volume sono 4 ripensamenti sinodali decisivi. Li cito come appaiono nei capitoli finali del testo, curati da H. Legrand:
- che il clero non abbia in sé tutto il potere
- che la chiamata al ministero non debba seguire una sola via
- che il potere del prete sia solo servizio all’unico sacerdozio di Cristo
- che la fraternità cristiana debba superare la subordinazione della donna all’uomo.
Esaminiamo brevemente ciascuno di essi.
a) La reazione della Chiesa all’esplosione della libertà nel mondo tardo-moderno ha determinato una teoria della concentrazione del potere nelle mani del papa e del clero. Ma questo non è affatto tradizionale. E’ uno sviluppo tardo-moderno che legittimamente può essere modificato senza perciò cadere in una “discontinuità”. Leggere in parallelo ciò che diceva Leone XIII a fine 1800 e le parole del Vaticano II1, a poco più di 60 anni dopo mostra bene il cambio di paradigma in gioco. Il raffronto tra “prima” e “poi”, condotto nella trama del XX secolo, permette una considerazione che risveglia la coscienza2 e rimotiva l’azione.
b) Nel campo della chiamata al ministero un’indagine accurata della storia permette di notare come, anche qui, l’accelerazione degli ultimi decenni tende ad imporre un immaginario capovolto: al primato dell’“ordinazione per costrizione” subentra la nullità della costrizione nell’ordinazione. Al primato della Chiesa si sostituisce il primato del soggetto. Con conseguenze non piccole sul modo di concepire il potere della Chiesa in rapporto a quello del prete.
c) La comprensione del potere sacro sta in un delicatissimo equilibrio tra “rappresentanza di Cristo” e “perdita di potere”. Ad una Chiesa delle “tre cose bianche” (Beata Semprevergine Maria, Santo Padre e Santissimo Sacramento) subentra una comunità in cui essere ministri è compiere un servizio a Cristo e alla Chiesa: ci si concentra meno sull’“identità sacerdotale” del singolo soggetto incaricato e di più sul “sacerdozio di Cristo e della Chiesa” che il ministro deve servire.
d) Infine, la faticosa uscita dalla strutturale subordinazione della donna e il recupero della fondamentale eguaglianza costituisce un’acquisizione preziosa della “fraternità/sororità” operata dal Vangelo nella vita degli umani: questo vale non solo per il mondo, ma anche per l’istituzione ecclesiale3. Restituire alle donne la parola e riconoscere la loro autorità è un percorso di trasformazione culturale e istituzionale in cui non è il Vangelo a cambiare, ma siamo noi ad iniziare a comprenderlo meglio, secondo la nota espressione attribuita a Giovanni XXIII in punto di morte.
Come è chiaro, ognuno di questi 4 punti implica un profondo ripensamento teologico, spirituale e istituzionale. Un Sinodo deve lavorare nella prospettiva istituzionale di un ripensamento di questi nodi dell’articolazione strutturata dell’autorità ecclesiale.
Amt – Macht – Liturgie, edd. Hoff – Knop – Kranemann. Herder, Quaestiones Disputatae, 2019
In traduzione italiana il titolo può suonare: Ufficio ministeriale, potere e liturgia. Commenti teologici per una Chiesa in cammino sinodale. Dal titolo, a dire il vero, emerge solo parzialmente il “vero motivo” del testo: ossia la necessità di offrire una risposta urgente al “dramma degli abusi” che ha profondamente scosso la coscienza ecclesiale cattolica, non solo tedesca, e che l’ha indotta ad affrontare il cammino sinodale, come riflessione profonda sulla correlazione di tre “voci” del vocabolario ecclesiale, sulle cui relazioni interne si soffermano i 18 saggi del libro (scritti da 12 teologi e 8 teologhe).
La prefazione chiarisce che, senza affrontare sul piano della teologia fondamentale, della storia, della dogmatica e della liturgia le relazione tra “ministero”, “potere” e “culto rituale”, non si potrà mai venire a capo né del dramma degli abusi, né della riforma della Chiesa.
La struttura del testo divide i contributi in tre campi, che ruotano intorno al tema del “potere”: il primo è dedicato alla “estetica del potere – nell’ambito della liturgia”; il secondo alla “pragmatica del potere – ordinamenti liturgici”; il terzo alla “logica del potere – nell’orizzonte delle disposizioni ecclesiologiche”. La semplice elencazione dei titoli delle tre parti, ciascuna composta da 6 saggi corposi, può essere utile ad offrire il quadro complessivo del testo e a chiarire l”ampiezza della sua riflessione.
Senza entrare nei 18 densi studi4, alcuni con un imponente apparato di note, mi limito a osservare quanto segue.
Ciò che desta maggiore interesse, e forse qualche sorpresa, almeno per il lettore italiano, è che tutti questi saggi, spesso corredati di un apparato “iperscientifico” di note e di rimandi, sono chiaramente orientati ad offrire materiale prezioso per la riflessione del “cammino sinodale” in corso nella Chiesa tedesca. Un logica di comunione che non di rado può essere interpretata esattamente al contrario, quasi come una logica di presa di distanza, quando non di separazione.
Ristabilire il valore di “servizio ecclesiale” della più audace riflessione teologica e il bisogno che la Chiesa locale e universale hanno, entrambe, di un tale servizio di “intelligenza della fede” è forse la motivazione più urgente che spinge alla positiva considerazione di questo importante volume.
Una Chiesa che decida di muoversi con stile sinodale – a nord o a sud, a est o a ovest del mondo tedesco – dovrà necessariamente affrontare tutti gli snodi e i problemi che questo volume affronta con parresìa, con grande coraggio e con notevole lucidità. Quanto più grave viene percepito il problema, allo stesso tempo degli abusi e della riforma, tanto più grandi debbono essere le risorse di immaginazione e di riflessione che vengono giustamente ritenute irrinunciabili.
Gottesdienst und Kirchenbilder, edd. S. Kopp – B. Kranemann, Herder, Quaestiones Disputatae, 2020
Altrettanto interessante, sul piano della riflessione liturgica in relazione agli assetti ecclesiologici, è il secondo volume (Liturgia e immagini di Chiesa). Qui si studia in modo accuratissimo la correlazione tra “partecipazione attiva” e “struttura ecclesiale”. Molti studi approfondiscono in modo originale e assai interessante questi punti-chiave. Ne indico solo alcuni:
– Chi celebra l’eucaristia? Alla domanda si risponde con saggi neotestamentari, liturgici, dogmatici, e con rilevazioni anche di carattere sociologico e culturale
– La riproduzione liturgica della Chiesa come problema dogmatico (Seewald)
– Il fenomeno delle “Liturgie aperte” (Kranemann) sul tema dell’ecclesiologia di liturgie alternative, con 5 tesi conclusive, che arrivano all’orizzonte sinodale come obiettivo
– Infine, una grande riflessione (Haunerland) sul valore sistematico e strutturale del concetto di “actuosa participatio”, che cambia l’autocomprensione della Chiesa.
Salvare la fraternità, teologi dell’Istituto Giovanni Paolo II e Pontificia Accademia per la Vita – Roma, 2021
Questa riflessione5, sollecitata dall’enciclica Fratelli tutti, costituisce un documento assai significativo per il prossimo cammino sinodale, italiano e universale. Ne desumiamo solo alcuni spunti assai chiari:
a) L’istituzione deve prendere congedo da forme di vita e di governo ecclesiale che soffrono di una deriva clericale patologica. Ci sono “segni” che annunciano il “nuovo mondo che dobbiamo imparare ad abitare”. Qui il testo riprende con nuovo slancio la sollecitazione che viene da Giovanni XXIII, da Paolo VI e ultimamente da Francesco: la Chiesa può/deve imparare dai “segni dei tempi”, che sono una forma di “apprendistato”.
b) Una visione della Chiesa, tra Ecclesiam suam (1964) e Fratelli tutti (2020), è profezia di un’“evidenza testimoniale della forma ecclesiale”, ossia della destinazione universale della salvezza.
Questo punto-chiave della dottrina e dell’autocoscienza cristiana deve ridiventare “immediato nella percezione di chiunque e saldo nella convinzione dei credenti” (Un appello ai discepoli). Ciò impone un “duplice addio”:
– dalla “regia ecclesiastica della società civile” e
– dalla “regia ecclesiastica dei saperi umani”.
È riapertura, nella storia comune, di una speranza di riscatto per il mondo condiviso, anzitutto per i poveri e per gli scartati.
c) Insomma, l’uscita da un primo dualismo comporta conseguenze istituzionali chiaramente delineate: l’“inadeguatezza degli apparati teologici, canonici e formativi” chiede una pronta riforma, perché possano liberarsi le energie positive di questo cambio di paradigmi. In tale cambiamento occorrerà tuttavia porre attenzione a non reinserire i “dualismi” attraverso l’uso di categorie non sufficientemente calibrate.
d) Il secondo dualismo, da cui prendere congedo, è il cambio di registro che riguarda l’opposizione tra naturale e soprannaturale, tra creazione e redenzione. Anche qui il lavoro di conversione e di trascrizione cui è chiamata la teologia deve lasciar cadere le troppo facili evidenze per cui in taluni casi è la natura a garantire la grazia, mentre in altri la grazia ha spazio solo “oltre”, se non “contro” la natura.
Solo alcuni tra i molti spunti di un testo ricco e singolarmente esplicito, che molto può contribuire a istituire un cammino sinodale aperto e lungimirante.
Una provocazione finale “de episcopo”
Non è sbagliato dire che la “riforma liturgica” è l’unica vera novità “istituzionale” scaturita dal Concilio. Non voglio rimangiarmi ciò che ho appena detto, ma se faccio memoria delle parole sapienti di Gh. Lafont, il grande teologo e amico che abbiamo perso quest’anno, debbo ricordare che lui diceva sempre una cosa decisiva: il Concilio, recuperando la “sacramentalità dell’episcopato” ha fatto un’operazione davvero rivoluzionaria a livello teologico.
La sinodalità, se pensata fino in fondo, è la conseguenza (e forse la causa) di una profonda modificazione nel modo di pensare l’identità episcopale ed ecclesiale. Provo a dirlo in breve, quasi a mo’ di schema:
a) Se il vescovo è semplicemente il titolare di una “potestas iurisdictionis” – come abbiamo pensato nell’occidente latino per più di un millennio – anche il sinodo è, per tradizione, uno strumento di esercizio del potere episcopale. Così è stato gestito fino agli anni 50 del XX secolo. E così lo pensa anche Trento, 500 anni prima: in un quadro chiaro e lineare ma chiuso, irrimediabilmente chiuso in una piramide che non può essere capovolta.
b) Chi esercita il “potere” nella Chiesa? La domanda ottiene oggi una risposta “teoricamente” diversa, ma praticamente molto simile a prima. Abbiamo cambiato “teologia”, abbiamo anche un papa che parla di “piramide capovolta”, ma restiamo nell’ancien régime delle pratiche formali. L’unica pratica che è obiettivamente mutata è la liturgia e perciò abbiamo cercato di far diventare “opzionale” il mutamento, rimettendo in vigore, dal 2007 al 2021, accanto alla forma nuova, la forma vecchia. Che era come dire: la piramide si può anche capovolgere, ma se la mantieni per il verso classico, nessuno può dirti nulla. In questo senso Traditionis custodes è un documento fondamentale in vista del Sinodo.
c) È curioso, però, che l’“autocensura” sia radicale, a tutti i livelli. Clero e laici, per usare la nomenclatura più diffusa, tutti chiusi nella stessa lettura. La stessa domanda sulla “struttura del potere” viene spesso censurata, sulla base di un principio “per cui nella Chiesa la domanda sul potere sarebbe già distorta”. No. Non è così. Anzi, dobbiamo essere ancora più netti. Dietro la ricostruzione cattolica dell’identità del Vescovo, per come si è sviluppata dall’800 in poi, si legge, in controluce, la nascita dello “stato liberale” da contrastare e da confutare.
d) Ecco allora la questione, papale papale, che cerco di formulare nei termini più chiari: è possibile che il vescovo, e per antonomasia il papa, sia compreso come “titolare di tutto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario”? Se è così, la sinodalità è una “mera cerimonia” senza frutto. Se non vogliamo che sia così, dobbiamo elaborare nuove categorie istituzionali per comprendere il fenomeno. E non potremo troppo compiacerci di “non avere parlamenti”, perché dovremo ascoltare la Parola anche nell’esperienza del popolo, trarne il succo e parlarne alquanto, tra di noi, anche a costo di litigare.
e) Ma questo vale per la “figura classica” del vescovo. Che cosa capita se il vescovo viene ricompreso come “vertice del sacramento dell’ordine”6? Sicuramente cambiano le cose, non necessariamente nella direzione più opportuna. Vi è stato, in questi 60 anni, un “uso strumentale” della sacramentalità episcopale, che ha semplicemente reduplicato l’esclusiva di potere della concezione classica, spostandola sul piano sacramentale.
f) Se il “sinodo” è la apertura ad una riconsiderazione dell’“autorità dei battezzati”, tale apertura deve avere gli strumenti istituzionali per essere esercitata. Qui interviene l’“immaginazione” e la “creatività”, di cui abbiamo bisogno. Sarà inevitabile che, per la buona riuscita di ogni iniziativa, ci si muova sempre su un piano istituzionale da riscoprire come “profezia”. Senza un lavoro profetico, anche dei canonisti non ne verremo fuori: abbiamo bisogno di nuove norme. Altrimenti moriremo delle norme inadeguate che sono nate in altri mondi e che non rispondono più ai nostri bisogni.
Il Codice del 1917 ha impostato una materia che quello del 1983 ha toccato in modo troppo timido e spesso irrilevante. La Chiesa è l’ambito istituzionale e pastorale che dà senso al Codice, non è il Codice l’ambito che dà senso istituzionale alla Chiesa. Su questo credo dovremo fare la discussione teologica, pastorale e spirituale più impegnativa in vista del cammino sinodale Universale e Nazionale che ci attende.
Senza mai cadere nella trappola di “trascurare” il livello istituzionale, perché il “bonum animarum” non prescinde mai dalle forme istituzionali che vengono adottate. E il principio di “apertura” del Codice deve essere utilizzato non solo “fuori” dalle norme, ma per concepire nuove norme più adeguate. Ipostatizzare le discipline e le normative è un errore che non dovremo commettere. Né come teologi, né come pastori, né come canonisti, né come fedeli. La prudenza implica oggi, per necessità e per tutti, una certa audacia.
1 Leone XIII all’arcivescovo di Parigi: «Solo ai pastori è stato dato tutto il potere di insegnare, di giudicare, di dirigere; ai fedeli è stato imposto di seguire i loro insegnamenti, di sottomettersi con docilità ai loro giudizi e di lasciarsi governare, correggere e condurre alla salvezza». Vaticano II, Lumen gentium 37: «I pastori, aiutati dall’esperienza dei laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità (distinctius et aptius) sia in cose spirituali che temporali e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo».
2 Analogamente a quanto H. Legrand compie in quest’ultima parte del testo, un altro “maestro” come Gh. Lafont ha svolto un percorso simile, rievocando “la Chiesa della sua gioventù” nel suo Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, alle pp. 72-80. Tutti noi, che siamo nati “dopo” il Concilio Vaticano II, abbiamo bisogno di leggere le descrizioni del “prima” – che sono veramente possibili solo a chi era allora già presente, confessante e orante (come era per Lafont, nato nel 1928, e per lo stesso Legrand, nato nel 1935) in una Chiesa dalle priorità in parte così diverse dall’attuale. Questo rapporto di “comunione tra generazioni” è una delle forme più preziose di sapienza ecclesiale.
3 L’accelerazione che negli ultimi mesi si è registrata con i due motu proprio di papa Francesco Spiritus Domini e Antiquum ministerium è simbolicamente decisiva: per la prima volta cade la “riserva maschile” per l’accesso ai ministeri istituiti del lettore, dell’accolito e del catechista.
4 Mi limito a rimandare alla presentazione che si trova in G.M. Hoff – J. Knop – B. Kranemann, Il potere sacro, “Il Regno”, 14(2021), 461-472.
6 Il sistema classico di comprensione dell “ordine sacro” (almeno a partire dal XI secolo) funziona in modo tale, da separare due ambiti – che oggi dopo il Concilio Vaticano II pensiamo invece unificati: la potestas ordinis e la potestas iurisdictionis. La prima appartiene al “sacerdote”, che è il grado massimo del “cursus” che inizia con la tonsura. La potestas iurisdictionis appartiene invece al “vescovo”, e si incarna sul piano della “dottrina” e del “governo”. Il sistema classico distingue profondamente il munus sacerdotale – attribuito al prete – dal munus regale e profetico, riferito invece al vescovo. Nella Chiesa, quindi, governo e dottrina sono in mano ai vescovi (e al papa), mentre il potere sacerdotale è in capo ai preti, mentre i “laici” obbediscono ai primi e ricevono i frutti della grazia dai secondi. In un tale sistema, il “sinodo” è uno strumento nelle mani dei vescovi, per il governo della Chiesa. Diversa la condizione della Chiesa postconciliare, che ricostruisce diversamente le cose:
- recupera l’episcopato, come grado massimo del sacramento dell’ordine
- attribuisce a tutti i gradi della scala gerarchica una relazione con i “tria munera”: dai battezzati al papa, tutti partecipano al sacerdozio, alla profezia e alla regalità di Cristo
- Il Sinodo, diventa, perciò, intersezione tra tutti i livelli della Chiesa, raduno per camminare insieme, nell’esercizio dei tre “doni” che Cristo ha fatto all’intero corpo della sua Chiesa.
Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.