Siamo ancora obbligati, ripetendo letture obsolete, a scegliere tra stati e regimi che controllano individui egoisti e consumisti, che pensano di essere liberi, e stati e regimi che controllano il gregge, obbligato da leggi ferree a servire il collettivo e il bene ritenuto comune? O è possibile costruire nuove prospettive e nuovi cammini?
Credo che sia sempre stato un equivoco politico pensare che fosse impossibile un’alternativa alle due antropologie riduttive e malate. Siamo stati schiavi di due sistemi che promettono pane e giustizia per tutti e, alla fine, tradiscono le illusorie aspettative.
Bisogna però ammettere che il socialismo funzionò perlomeno come forza politica che obbligò il capitalismo ad occultare la sua violenza disumana con la farsa della democrazia e dei diritti umani, segreto inizialmente violato dal nazifascismo e, oggi, rivelato ampiamente dalla barbarie della crisi civilizzazionale.
Sia l’individualismo liberal-borghese, sia il collettivismo stalinista riducono la complessità dell’esperienza umana. In ogni essere umano incontriamo un processo che sintetizza l’irriducibile individualità e alterità di ciascuno, insieme alla costitutiva apertura alla comunità e alla società. Siamo frutto e riferimento di relazioni familiari, amicali, amorose, religiose, economiche, politiche, siamo liberi e fragili, esposti a conflitti, a volte malati, minacciati dalla natura, destinati alla morte, frequentemente carnefici o vittime della violenza, della fame, dei soprusi, disuguaglianze, razzismi e ingiustizie, soggetti di diritti e responsabilità.
Gli stati, ma pure le chiese, non riescono a coniugare questa complessità. E il diritto e l’economia hanno mostrato ovunque la loro tragica incapacità di rispettare e promuovere gli esseri umani, in tutta la storia dell’Occidente.
Allora, essere “a sinistra” – per me – è essere “contro”, ma non “un contro” circostanziale, elettorale e opportunista, bensì “un contro” radicale, contro il tempio e il palazzo, denunciando instancabilmente tutto ciò che è contro gli esseri umani, la vita, la libertà: come se sapessimo cosa si deve fare, come se sapessimo condividere il pane e le cose della vita, come se sapessimo che è possibile farlo. Insomma, significa mantenere acceso il fuoco dell’Agape, della Verità e della Giustizia, ancelle del Regno di Gesù di Nazareth.
Chi sta aprendo di nuovo questo cammino in difesa della vita si trova nei settori significativi delle nazioni e dei popoli indigeni dell’Abya Ayala, che hanno costruito processi civilizzatori senza lo stato.
È ovvio che non avrebbero potuto pensare di creare alternative di organizzazione sociale quando ancora non conoscevano gli effetti problematici e letali dello stato, ma, di fatto, hanno prodigiosamente costruito sistemi che controllano la prepotenza e gli eccessi del potere. I capi esistono, ma non comandano, anzi, tra i popoli originari, è impossibile vedere la coercizione: nessuno comanda e nessuno obbedisce. E nessuno può decidere da solo il destino di tutti.
Altrettanto prodigiosamente vivono spiritualità che dispensano i templi e le caste sacerdotali e considerano sacra e spirituale solo la Terra in quanto tale.
Se “il cielo sta cadendo” – come ci dice lo sciamano Yanomami Davi Kopenawa – è da prendere sul serio la profezia che può aprire nuovi cammini per uscire dalla crisi mortale che attanaglia l’Occidente.