La celebrazione del sinodo, evento ecclesiale di primaria importanza, e la sconcertante questione dell’abuso, con il suo rosario sgranato su centinaia di misteri dolorosi, tanti quanti sono i nomi, le storie e i racconti delle vittime.
Le liturgie, i dialoghi, gli strumenti di lavoro, le tante celebrazioni diocesane, vescovi e preti in frenetica attività, qualche laico e qualche donna invitata come rappresentante di un pianeta lontano, la macchina della comunicazione ingranata, tra necessità di raccontare fedelmente quanto accade e timore che nulla esca dai binari prefissati dall’inizio.
In tutto questo percorso, che senz’altro può indubbiamente rappresentare un’occasione di rinnovamento ecclesiale, di verifica comunitaria, di crescita spirituale e di cambiamento di prassi, quale spazio avrà l’ascolto delle vittime di questi ultimi cinquant’anni e più?
Ciò che oramai si racconta in tutti continenti, e di cui la situazione francese è solo l’ultimo anello di una catena lunga, avrà diritto di cittadinanza nel cuore – non ai margini – del percorso sinodale?
Questi dolori innocenti saranno destinati ad essere temi trattati nelle nicchie di qualche circolo minore, dossier dati in studio a qualche specialista di psicologia, morale e diritto canonico o verranno invece innalzati ad icone dolorose da contemplare, a luoghi teologici in cui ascoltare lo Spirito che parla liberamente dalle piaghe dei trafitti dal potere e dalla cultura clericale?
Papa Francesco ha appena chiesto «di trasformare certe visioni verticiste, distorte e parziali sulla Chiesa, sul ministero presbiterale, sul ruolo dei laici, sulle responsabilità ecclesiali, sui ruoli di governo e così via», tutte dimensioni che, a ben guardare, si celano dietro il dramma degli abusi, il cui verificarsi insieme alle modalità omertose di gestione, rimanda appunto ad un potere verticistico sacrale, senza contrappesi, a un’idea di prete (e di vescovo) come monarca delle realtà che è chiamato a servire, in cui i laici al massimo possono aspirare ad avere un ruolo consultivo, di consiglio, di “yes man” (i “no man” vengono sempre messi presto alla porta) ma senza alcuna responsabilità reale, concreta, autonoma. Perché così vuole, nella maggior parte dei casi, la dottrina sacramentale e il diritto canonico.
Un libro di Silvano Fausti si intitola Occasione o tentazione: nessun titolo sarebbe più adatto al legame riflessivo che potrebbe unire l’evento unico del Sinodo ai migliaia di criminosi abusi.
Ben sappiamo tutti che non è certamente la Chiesa un luogo in cui, più che altrove, questi crimini avvengono. Ma sappiamo anche che essi sono procurati sempre da una asimmetria relazionale, da un sistema di potere e da un meccanismo di occultamento omertoso che é immensamente distonico rispetto al Vangelo di Cristo e alla concezione della comunità e dell’autorità che ne deriva.
Affrontare adeguatamente la questione degli abusi, con uno sguardo realmente spirituale e al contempo umanamente libero, non è solo frutto di una necessità di riparazione del passato e di prevenzione nel futuro. In gioco c’è molto di più: il destino dell’evangelizzazione e della testimonianza ecclesiale.
La cultura, la formazione, l’educazione, il diritto, la dottrina, e ogni cosa chiamata in gioco dal crimine o dalla gestione criminosa delle sue conseguenze è un impedimento all’evangelizzazione, un handicap per la testimonianza ecclesiale, una distorsione del fatto cristiano.
Per questo occorre discernere cosa in questa cultura, nell’educazione e nella formazione dei presbiteri e del laicato, nel diritto e nella dottrina, ha ragion d’essere difeso o ha necessità di concreta purificazione e di radicale riforma (che non può essere ridotta ad un’aggiustatina stilistica).
Tutto ha bisogno più che mai di un giudizio sereno e di un discernimento sano e spirituale che può essere tale solo se realmente comunitario perché, se è vero che la Chiesa non è una democrazia, è anche vero che occorre il rischio di divenire (o di essere già) un’oligarchia.
Occorre, oggi più che mai, una fantasia spirituale per comprendere come procedere, per trovare il giusto metodo, per camminare insieme nell’ascolto dello Spirito che parla non “sulla” ma “nella” storia.
Non mi sento un profeta di sventura nell’affermare che sarà proprio la storia, per grazia di Dio, a spogliarci di tutto prima o poi: di denaro, di strutture, dei tanti orpelli che crediamo essere il nostro proprium ma che rappresentano solamente la nostra zavorra.
Ciò di cui non potrà mai spogliarci nessuno è il Vangelo e la testimonianza di carità e di libertà che ne deriva. Se la vergogna degli abusi ci aiuterà a ricordarlo, diverrà un motore per il cambiamento necessario, affinché sia recuperata la centralità del Vangelo e non della struttura ecclesiale che è a suo servizio, la forza dell’amore e non dell’autoritarismo clericale, il dono della libertà e non il giogo del servilismo laicale.
Se ciò non dovesse avvenire, non c’è da temere, perché lo Spirito saprà allargare invisibilmente i confini della Chiesa, creando spazi di salvezza e di redenzione in luoghi diversi da noi, perfino distanti, magari marginali, addirittura da noi ritenuti impuri, ma capaci più di noi di incarnare realmente una Chiesa diversa da quella che oggi siamo noi.
Francesco, citando padre Congar, ci ha in fondo ricordato proprio questo: «Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa».
- Gennaro Pagano è presbitero e psicoterapeuta di Pozzuoli.
Un’altra chiesa è per forza diversa… credo che l’attuale struttura abbia ampiamente dimostrato i suoi limiti. Spero che non si perda l’occasione di questo sinodo per maturare una un’altra idea di chiesa futura. Il mio timore è che la scarsa presenza di profezia tra i vescovi non aiuti ad una reale modifica. A livello gerarchico avverto solo molto torpore e il silenzio di chi sta alla finestra per vedere cosa succede.