È per me ancora recente l’esperienza del Sinodo nella mia diocesi, in Italia. Alcuni anni fa, mi azzardavo a tessere alcune considerazioni, cercando di giocare con tre parole – tre realtà – che dovrebbero, anche oggi, alla vigilia di un evento di riflessione e di condivisione di tutta la Chiesa, presentarsi unite, indivisibili e programmatiche: sinodo, metodo, esodo.
Allora scrivevo che il nostro era un sinodo tradizionale, organizzato e vissuto come un evento speciale per produrre un documento.
Non dobbiamo altresì dimenticare che la sinodalità è un aspetto costitutivo e quotidiano della vitalità della Chiesa. Sempre siamo chiamati a convertirci a una comunione che è camminare insieme (sun odon). Ma, per non confinare la comunione fraterna e sororale nell’astrazione e nelle buone intenzioni, è necessario coniugare sinodalità e metodo.
Il metodo ci dice del come camminare, dello stile, dell’organizzazione del viaggio; viaggio che, alla luce della profezia di papa Francesco sulla “Chiesa in uscita”, dovremmo ridefinire come esodo. Camminare insieme per “passare da una pastorale che si limita alla gestione dell’esistente a una pastorale decisamente missionaria” (AP 370). Insomma, convertirsi all’esodo per ispirare cammini di comunione.
Come fare? Il “come” non è qualcosa di esterno e di aggiunto al contenuto, al discorso e alla dottrina. Non è riducibile alla ricerca di dinamiche e di tecniche di comunicazione. Il “come” fa parte della ricerca della verità e finisce a volte col coincidere con la verità. Non è il “come” della ricerca sociologica, che individua tendenze a partire dalle opinioni e considerazioni dei partecipanti.
Dovrebbe essere il “come” dello Spirito, che continua libero di soffiare dove e quando vuole, disobbedendo alle nostre intenzioni organizzative e ai nostri propositi riformisti. Lo Spirito Santo è sempre una sorpresa: nel Sinodo e, allo stesso tempo, nonostante e oltre il Sinodo.
Se noi, infatti, ripensiamo al Sinodo passato, dovremmo chiederci quali sono stati i frutti del processo. Se ci giochiamo con sincerità, credo che dovremmo ammettere che i risultati dell’azione dello Spirito siano nascosti nelle pieghe dell’evento e nei cambiamenti avvenuti nelle persone, che – grazie a Dio – non sono rilevabili sociologicamente e quantificabili statisticamente.
Senza dubbio, nell’attualità, accompagnando le preoccupazioni di papa Francesco per le malattie dell’autoreferenzialità e del clericalismo, dovremmo davvero optare per un metodo, per un “come”, totalmente nuovo. Insomma, se vogliamo davvero che quelli che sono “fuori” siano i nostri compagni di strada, non dovremmo davvero preoccuparci di condurli “dentro” nelle nostre parrocchie e comunità.
Sarà davvero possibile questa rivoluzione di spazi, di territori di incontro e di dialogo? Infatti, incontrarsi con “chiunque”, soprattutto con chi è distante, lontano, oggetto di inferiorizzazione e di discriminazione, catalogato con criteri economici, etnici, moralisti, sessisti, patriarcali, esige una rottura radicale non solo della nostra mentalità, ma anche e soprattutto una riformulazione degli stessi spazi, delle gerarchie, delle dottrine e dei poteri.
E ci sono possibilità di rivoluzioni metodologiche che pongono chi è ai margini, occultato ed escluso, non più come comparsa, come oggetto di benevolenza, bensì come soggetto protagonista in grado di interpellarci e provocarci.
Sto pensando ad un concetto relativamente nuovo, che in Brasile, in questi ultimi anni, ha assunto una certa importanza: “o lugar da fala”, il luogo, la situazione da cui si parla.
È stata Djamila Ribeiro che ha inaugurato, con un libro, pubblicato nel 2019, l’attenzione al luogo che occupiamo socialmente, il quale ci proporziona esperienze distinte e prospettive diverse. Persone e gruppi che soffrono oppressioni ed esclusioni evidentemente vedono il mondo in un’altra maniera, diversa da quella delle persone socialmente privilegiate.
Se è così, ascoltare non è semplicemente porre l’attenzione solo su ciò che viene detto, ma essere attenti anche e soprattutto a chi parla, per ascoltare davvero la voce profonda che ci parla col luogo da cui ci parla.
Come si fa a fare un sinodo con queste modalità di pensiero?
Stallo sulla scelta del nuovo vescovo,
San Lorenzo ridotta dei “boariniani”
Eusebio Episcopo 07:30 Domenica 10 Ottobre 2021
Tra “suggerimenti” di nomi e veti si allungano i tempi delle consultazioni del nunzio apostolico. Sotto la cupola del Guarini grande apprensione nel gruppo di preti intellettuali, con un peso ancora rilevante in curia (e in una parte del clero)
I vescovi piemontesi stanno rispondendo all’invito del nunzio apostolico, monsignor Emil Paul Tscherring, e ognuno di loro si sta esercitando nel segnalare il nominativo di un confratello nell’episcopato o di un presbitero che, esaltandone le virtù di pietà e prudenza sia, a loro giudizio, degno di diventare arcivescovo di Torino. O anche, nel mettere in guardia da colui o da coloro che è bene non assurgano affatto a tale seggio. Appare ormai chiaro che non prima della fine dell’anno si avrà l’annuncio. Intanto la diocesi si sta snervando in attesa del nuovo pastore, tutto appare fermo in attesa di sapere chi ne prenderà la guida, quale linea adotterà, cosa ci sarà da aspettarsi. Tutto è come sospeso e nei conciliaboli clericali non si discute che del totovescovo.
Pare siano particolarmente in fibrillazione gli abitanti dei locali annessi alla Real Chiesa di San Lorenzo in piazza Castello, dove dimorano i canonici della Congregazione di San Lorenzo del capitolo della SS.Trinità e dove ha sede il serbatoio di pensiero, il think tank della diocesi. San Lorenzo è però molte cose. Soprattutto è il luogo in cui i più illustri adepti del clero “boariniano” hanno la loro residenza stabile e la loro “centrale operativa”. Si deve infatti sapere che mentre i preti tradizionali vengono dispersi sul territorio diocesano nella speranza (vana) che non possano unirsi tra loro – e questo già dice, in tempi di internet, dell’inefficacia di una simile antiquata misura – per i preti progressisti funziona all’opposto e San Lorenzo ne è un esempio dei più preclari. Fu il cardinale Severino Poletto, sempre attentissimo agli equilibri clericali e a compiacere chi potesse essergli debitore e tornargli utile, a riunire sotto lo stesso tetto, riorganizzando il capitolo di San Lorenzo, la scolta eletta della presunta intellettualità diocesana di cui comunque non si è mai fidato fino in fondo. Nacque così il Centro Culturale San Lorenzo in cui esercitano il ministero dell’intelligenza alcuni dei più noti docenti della facoltà teologica, in gran parte compagni di corso.
Il presidente del capitolo e rettore della chiesa è, dopo una vita trascorsa fuori diocesi, don Giovanni Ferretti, classe 1933, ordinato nel 1957, filosofo e storico della filosofia, ex rettore dell’Università di Macerata dove era professore ordinario di filosofia teoretica e che è un po’ la guida e l’ispiratore teoretico del gruppo di cui fanno parte don Roberto Repole, già presidente dei teologi italiani, don Paolo Tomatis, liturgista principe, don Alessandro Giraudo, canonista e cancelliere arcivescovile, don Germano Galvagno, biblista e responsabile della formazione del clero giovane. Ad essi si aggiunge l’emergente boariniano di complemento don Michele Roselli, classe 1973, ordinato nel 2003, direttore dell’ufficio catechistico e responsabile della formazione permanente del clero e dei laici. Tutti accomunati da un idem sentire, non tanto cum Ecclesia, quanto con una propria visione teologica ed ecclesiologica, ma anche da uno stile di vita più da intellettuali che da sacerdoti, secondo quel dualismo che ormai caratterizza il clero del nord-Europa, sempre più diviso tra studiosi da una parte e preti -trottola, oberati di incarichi e costretti appunto a girare in continuazione, dall’altra. L’aria che si respira a San Lorenzo è quella dello spleen meditativo che il garbo e il sorriso stereotipo dei canonici a mala pena riesce a celare.
Secondo Ferretti – personaggio di notevole statura – diventato tanto fan di Papa Francesco quanto era critico di Ratzinger – occorre «ripensare il cristianesimo» e «ritradurre la fede» secondo la coscienza ermeneutica della Modernità, per cui l’annuncio va «svestito» delle categorie di pensiero e di linguaggio passate e rivisto in riferimento alle categorie e alle sensibilità moderna e post-moderna. Così va superata la visione sacrale della Bibbia, di Dio e della morale e di conseguenza definitivamente accantonata la visione ascetico-sacrificale che ha caratterizzato il cristianesimo storico.
Don Roberto Repole, classe 1967, ordinato nel 1992, è il direttore della facoltà teologica torinese, la sua teologia si potrebbe definire il versante clericale del pensiero debole di vattimiana memoria. Dio e il cristianesimo non possono che essere pensati fuori dal «sacro» come «deboli», così una Chiesa – tutta da ripensare – deve essere umile, perché non ha pretese veritative ma è semplicemente al servizio dei poveri, così il sacerdote non può più essere “l’uomo dell’Eucaristia” ma soltanto un cristiano. Anche la Chiesa deve iniziare a sperimentare «processi democratici», similmente alle moderne forme statuali poiché alla secolarizzazione è illusorio opporsi e pertanto non ci si può che adattare alle mutate condizioni del credere che essa impone.
A proposito di “volumetti”, occorre sapere che la definizione è da attribuirsi nientedimeno che all’emerito Benedetto XVI. Nel 2018 scoppiò lo scandalo che portò il capo della comunicazione vaticana monsignor Edoardo Viganò alle dimissioni per aver per aver clamorosamente manipolato – fabbricando una fake news – una lettera riservata di Benedetto in cui si usava il suo nome per lanciare la collana La teologia di Papa Francesco. Nella parte omessa, Benedetto definiva «volumetti» i libri dedicati al suo successore, chiarendo che tra gli autori figurasse anche il nome di Peter Hunermann il quale «durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative antipapali» arrivando a costituire in Germania un istituto per contrastare il suo pensiero. Fra questi «volumetti», era presente anche un testo di Repole il quale è noto per la teoria, ricorrente in tutte le occasioni, per cui esiste una Chiesa del prima e una del dopo, assolutamente incompatibili fra di loro. La prima – ancorché gloriosa e piena di meriti – non ha più nulla da dire agli uomini d’oggi, la seconda – quella che da cinquant’anni è in costruzione – ancora tutta da ideare, progettare e costruire. Come anche un giovane seminarista può notare, è questa la tipica ermeneutica conciliare della rottura e della discontinuità, sin dal 2005 stigmatizzata da Benedetto XVI, per cui si può comprendere bene come questi non abbia perso tempo nella lettura, fra gli altri, del «volumetto» del teologo torinese.
Don Germano Galvagno, classe 1968, ordinato nel 1993, riveste il ruolo dell’inquisitore, egli deve seguire i preti giovani, osservarne il comportamento, verificare che non si discostino – anche nelle scelte politiche – da quel modello di «prete torinese» che non deve avere più nulla di tridentino o troppo «classico» e meno che mai guardi alla tradizione superata dei don Bosco, Cafasso o Murialdo, che sia critico del magistero pontificio antecedente a Francesco e si ispiri all’uniforme grigiore, tendente al depresso, che è poi la cifra del conformismo ecclesiale progressista torinese.
Don Paolo Tomatis, classe 1968, ordinato nel 1993, liturgista, assolve alla funzione, sempre più oracolare, di riscoprire e far accettare, a cinquant’anni di distanza, la bellezza della riforma liturgica messa in confronto alla «povertà» della Messa antica e quindi nell’esaltare l’incomparabilità del nuovo Messale. Ultimamente, cerca di tenere una via mediana, tra eccessiva creatività e rispetto del rito, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma l’impresa appare impossibile.
Don Alessandro Giraudo, classe 1968, ordinato nel 1993, è il giurista del gruppo, attualmente stimato cancelliere, competente e professionale, per cui il confronto con il predecessore Giacomo Maria Martinacci è tutto a suo favore. Di lui è stata avviata l’inchiesta dei «promovenda» episcopali.
Da sempre, il gruppo ha avuto l’ambizione di essere non solo la mente – spesso inascoltata dai vescovi e ancor più dai preti – ma soprattutto la guida della diocesi. È stata così concepita e messa in atto dagli amici che siedono nel consiglio presbiterale l’dea di istituzionalizzare un organismo, non previsto dal diritto che – a prescindere da chi sia il vescovo – possa “governare” il clero, formarlo alla loro “buona” teologia e “guidarlo” nell’azione pastorale, attuando anche una specie di controllo contro le “deviazioni” e le “derive” del peggior nemico che non è l’indifferentismo o il relativismo, ma il tradizionalismo. Quello che è stato definito il «presbiterio», sarebbe una specie, per usare un termine politico, di super partito egemone, quasi un “Grande Fratello” in miniatura ma l’idea, elaborata e lungamente discussa, non ha avuto finora corso, forse perché se ne intuivano le sottese finalità. Sicuramente, al sinodo locale il gruppo – a differenza di altri, organizzato e coeso – farà sentire la sua voce. Il loro candidato ideale sarebbe l’arcivescovo di Modena e sodale di don Repole, monsignor Erio Castellucci.
Si comprende allora come, per i buoni canonici di piazza Castello e per i loro adepti, avere un vescovo amico, che li tenga in considerazione, ne ascolti i consigli e ne attui i propositi, nominando magari uno di loro o un loro amico meno protagonista – come potrebbe essere don Alessandro Giraudo – vescovo ausiliare o vicario generale, sarà assolutamente decisivo. Per questo sotto la cupola del Guarini sono tempi questi, più che altrove, di viva apprensione.
I preti e i vescovi devono imparare ad ascoltare tutti credenti pranticanti e non praticanti, credenti regolari ed irregolari. Quanti blocchi il clero mette davanti a noi fedeli? E’ inutile parlare di annuncio del vangelo se poi mettiamo ostacoli a partecipare alla vita delle comunità. Oggi molte comunità sono fortezze, in cui si rinchiudono pochi preti e e fedeli. Abbiamo bisogno, invece, di comunità umili, aperte ed accoglienti, come ha detto Papa Francesco all’ Angelus del 26 settembre scorso.
più che il clero ci sono fedeli che nelle parrocchie mettono blocchi per preservare status quo a loro favore
per il resto molte parrocchie hanno varie attività, principalmente caritative o educative, che coinvolgono molti credenti che non praticano abitualmente o addirittura non cattolici (quanti atei e musulmani con cui ho condiviso esperienze ai gruppi estivi!)
poi se uno non vuole partecipare minimamente alla vita comunitaria perchè dobbiamo coinvolgerlo a forza? piuttosto attraiamolo con l’esempio, integriamolo a pieno titolo tra noi, così potrà renderci partecipi della sua vita e delle sue esperienze
SI,il Sinodo inizia con un momento di ascolto del popolo di Dio.
Questa fase concordo con l’autore dell’articolo, se ho ben compreso, rischia di non funzionare; provo a spiegarmi.
Ascoltare il popolo di Dio non coincide con l’ascoltare i partecipanti ai gruppi parrocchiali o i battezzati che frequentano l’Eucarestia domenicale.
Un bel libro di V. Le Chavelier (V. Le Chavelier, Credenti non praticanti, Ed. Qiqaion, 2017) illustra benissimo come i non praticanti siano stati in qualche modo aiutati a non sentirsi Chiesa. Con l’avvento dell’analisi sociologica (e non solo) si sono ridotti i criteri per essere membri “reali” della comunità cristiana all’unico fattore della partecipazione alla messa.
Le persone alle quali è stato detto nei fatti, che non sono parte della Chiesa, in quanto non praticanti, non parteciperanno alla riunione con il parroco e gli altri parrocchiani. Ma purtroppo, o per logica evangelica, in loro vive una buona parte della novità del Vangelo per il mondo di oggi.
Per questo se vogliamo il loro contributo (probabilmente scomodo) dovremo cercarli e spingerli ad entrare, chiedendogli scusa per averli fatti sentire “non Chiesa”.
Dovranno sentire il nostro bisogno di loro e del pensiero che hanno maturato.
Anche dire che sono invitati i “lontani” è un messaggio contraddittorio: ti chiamo “vicino” e ti dichiaro “lontano”. Magari specifichiamo: “Abbiamo bisogno che coloro che sono vicini a Dio, ma che non frequentano la Chiesa partecipino al nostro Sinodo, altrimenti il nostro Sinodo porterà ben pochi frutti”.
Ho letto frasi “ufficiali” dove si afferma che il Vescovo convoca per la consultazione “i fedeli reali ed efficaci”. Questi messaggi sono escludenti in modo molto netto, e fa decidere di non partecipare a chi umilmente riconosce di non essere considerato all’altezza del compito… e forse perfino di non essere gradito (non sempre sbagliando!).
Benché non siano le mie preoccupazioni sconosciute ho piacere di ribadirle.
Grazie per l’attenzione, garantisco la mia preghiera per il giornale ed il Sinodo.
Samuele
Ma una persona che
– non partecipa al culto comunitario (salvo, vabbeh la Messa pasquale e/o natalizia)
– non partecipa in nessun modo alle attività della comunità (formazione, opere di carità, momenti di condivisione etc)
– non da nessun contributo alle necessità della comunità (o con il denaro o con le opere)
ha lo stesso diritto di essere ascoltata di chi, magari poco, queste cose le fa?
Io sono pienamente d’accordo nell’ascoltare tutti i non cristiani (atei, musulmani etc) che per vari motivi partecipano alla vita comunitaria (ne ho incontrati diversi) ma su questi fantomatici ‘credenti non praticanti’ ho molti dubbi, soprattutto perché rischiano di superare numericamente chi invece, magari tra mille difficoltà, sforzi, dubbi cerca di testimoniare la sua fede, magari in modo imperfetto e da migliorare, ma almeno qualcosa fa.
Dei dati della Chiesa d’Inghilterra dicono che i partecipanti alla Messa pasquale sono il triplo o il quadro di coloro che frequentano la liturgia e la comunità durante l’anno: immaginiamo che conflitto rischia di crearsi se ci fosse una ‘democrazia’
Le persone hanno si dei diritti, ma hanno anche dei doveri.