La tradizione del sacramento della penitenza deve restare vigilante su alcuni snodi fondamentali della sua evoluzione storica.
La pressione degli eventi può certo portare ad esagerazioni, che spesso condividono, sorprendentemente, alcuni “luoghi comuni” fondati, che però facilmente diventano unilaterali.
Il segreto
Così a verità che si possono dimenticare, e devono essere invece ricordate, corrispondono evidenze sospette, perché non fondate, tendenziose e svianti. Il card. Piacenza ha ricordato proprio oggi una verità che ha fatto parte della tradizione sacramentale in modo profondo e che deve essere accuratamente difesa: ossia il segreto del confessionale.
Colui che riceve la confessione sacramentale è tenuto al segreto più rigoroso. Tale segreto non può essere equiparato né al segreto professionale né a forme parallele di “copertura” o di “anonimato”. Il segreto è una delle condizioni fondamentali della confessione, almeno per la forma che essa ha assunto a partire dal II millennio nella tradizione latina.
Ma questa ammissione, che merita tutto il rispetto, non permette di risolvere con disinvoltura la questione della “confessione di abuso verso terzi” che un soggetto battezzato faccia al proprio confessore. Le parole del cardinale, infatti, dicono una verità che non può essere messa in discussione. Ma non dicono tutta la verità.
Non possiamo trarre, da questa affermazione, una serie di conseguenze che sembrano “ovvie”, ma che ovvie non sono. Voglio qui soltanto presentare le “altre verità” che occorre ricordare, perché la affermazione del Prefetto della Penitenzieria apostolica non diventi un’affermazione ambigua.
Il sacramento
Non sorprende che il discorso sul “segreto” possa apparire nel testo dell’intervista piuttosto ultimativo. Perché le fonti di questo ragionamento sono alterate da una nozione limitata e sistematicamente incompleta del sacramento della penitenza.
Non a caso il card. Piacenza cita tra le sue fonti il “codice di diritto canonico” e la definizione del canone 959-960. Proprio il codice ha diffuso, a partire dal 1917, una concezione formalistica del sacramento. Seguendo il codice, si potrebbe pensare che la confessione consista semplicemente nel confessare il peccato e ricevere il perdono. Ma qui manca tanto l’interiorità quanto l’esteriorità. La forma burocratica del sacramento non restituisce la ricchezza della tradizione.
Se si resta in questo modello, si fa della penitenza una specie di “nuovo battesimo”, per il quale non è necessaria alcuna penitenza. Una specie di “azzeramento dell’esperienza” che si realizza ogni volta in cui un battezzato si confessa. Ma anche questa è una forma di grave dimenticanza.
Uno dei nomi più interessanti con cui il Concilio di Trento definisce la confessione è invece “battesimo laborioso”. Qui troviamo una linea viva della tradizione. Fare della confessione una sorta di “secondo battesimo non laborioso” è un errore sistematico molto grave e che si paga caro.
Che cosa significa che il sacramento della riconciliazione deve riscoprire il suo carattere “laborioso”? Significa che non può ridurre il “dolore interiore” all’atto di dolore e le opere penitenziali a 10 Ave Maria! Questa differenza diventa assolutamente decisiva quando il sacramento della riconciliazione elabora effettivamente una “condizione di scomunica” come quella in cui cade chi si sia macchiato del peccato (e del crimine) di abuso.
Penitenza: il lato interiore e quello esteriore
La rilevanza “interiore” ed “esteriore” del sacramento implica la rilevanza interiore ed esteriore degli atti del penitente. Chi confessa una colpa grave entra in un percorso di trasformazione che è tanto interiore quanto esteriore. Questo non è un “surplus”, ma costituisce la ragione sistematica del sacramento. Che ha in comune con il battesimo l’atto del perdono, ma ha di specifico di chiedere la risposta del soggetto peccatore sulla bocca, nel cuore e nel corpo.
Pertanto al “segreto” del confessore non corrisponde il segreto del penitente. Anzi, una delle ragioni del sacramento è proprio quella di far uscire il penitente dal segreto. Al limite di chiedergli formalmente, come atto penitenziale, di parlare del proprio crimine con le autorità competenti. Questa non di rado è l’unica via per fare i conti davvero con il peccato.
La dimensione comunitaria del sacramento
Vi è però una ulteriore ragione. La Chiesa non può dimenticare che il sacramento non ha la sua giustificazione solo nella logica individuale del peccatore, ma trova il suo senso in una logica ecclesiale e anche sociale. Riparare al male compiuto è parte della tradizione che non può essere messa a tacere, come se fosse secondaria o addirittura deviante.
Chi confessa il peccato di abuso trova un ministro che gli annuncia il perdono gratuito di Dio e la pena che questo perdono comporta. Tale pena può identificarsi con la disponibilità a scontare la pena prevista dall’ordinamento civile. Mostrare il legame della assoluzione ecclesiale con la condanna civile è uno dei compiti di confessori che abbiano a cuore il bene non solo del penitente, ma anche dei terzi che sono stati lesi dal peccato/crimine del penitente.
Federigo e l’Innominato
Un altro cardinale torna qui molto utile. Infatti, se il cardinal Federigo, nel famoso cap. XXIII dei Promessi Sposi, avesse semplicemente assolto l’Innominato, chiedendogli soltanto di dire 10 Ave Maria, il romanzo del Manzoni si sarebbe inceppato.
E Lucia, come “terza lesa”, sarebbe rimasta fuori gioco. Il card. Federigo ha rispettato il segreto, scrupolosamente, ma ha indotto il penitente a riparare, senza nascondergli che avrebbe avuto “tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!”.
Se oggi ripetiamo soltanto la giusta affermazione sul segreto del confessionale e non sappiamo più parlare del suo lato esteriore, manifesto e pubblico, della gioia e delle pene che ad esso si legano, esibiamo evidenze sospette e dimentichiamo verità decisive. E questi non sono tempi per smemorati.
- Ripreso dal blog dell’autore Come se non.
Quindi, secondo Grillo, il confessore dovrebbe chiedere, come atto penitenziale a chi si accusasse di aver commesso abusi, di autodenunciarsi all’autorità civile competente per essere condannato. Ma in che cosa ciò costituirebbe una riparazione del male compiuto? “Chi confessa il peccato di abuso – scrive ancora Grillo – trova un ministro che gli annuncia il perdono gratuito di Dio e la pena che questo perdono comporta”. Ma allora il perdono di Dio non sarebbe veramente gratuito se presupponesse, come condizione, il dovere di autopunirsi con il carcere. La penitenza che si richiede a chi si confessa non è una punizione, bensì l’impegno a percorrere una via di conversione e a cercare di riparare il male commesso, ma che riparazione sarebbe la detenzione (per sé e per la vittima)? Non sono pensabili altri percorsi di rigenerazione e di riparazione?
Occorre ricordare che il segreto confessionale NON sempre è rispettato, e questo molto di più di quanto si creda. Nella mia vita sono stato testimone di 3 violazioni dirette del sigillo sacramentale, 1 delle quali in un’aula di teologia da parte di un insegnante che faceva un “esempio” di una signora americana confessatasi nella sua parrocchia e aveva detto la tale cosa. Peccato che tutti noi sapevamo di quale parrocchia era parroco e avremmo facilmente potuto identificare la penitente straniera. Ho ricevuto innumerevoli confidenze ed esempi “in confessione” fattemi dal confessore, di situazioni e peccati di altri penitenti, pii esempi, destinati a chiedere la mia preghiera…in questo modo “di confessione in confessione”, “ti dico una cosa in confessione”, la riservatezza delle persone è violata gravemente. Senza parlare, casi che posso testimoniare personalmente, di pressioni fatte da superiori ecclesiastici per avere pareri dai confessori di penitenti sotto promessa che “niente sarà usato contro di lui”…con conseguente violazione del sigillo. Di questi abusi invece nessuno parla?
La soluzione al problema è molto, molto semplice. Dio non vuole una confessione circostanziata dei peccati, ma generica e vuole che tutti abbiano il perdono. La Chiesa deve dare il perdono e educare le coscienze al dovere di riparazione al male fatto. Il precetto della confessione dettagliata ad un uomo in vece di Dio, non è di diritto divino, è invece di diritto molto, molto umano, e presta il fianco a tutta una serie di abusi, di coscienza di potere ecc…
Il risultato del perdono può essere ottenuto con molta più semplicità e sicurezza per tutti. E tutti sanno che non è che si riceva l’assoluzione e “magicamente” siamo salvati, se non ci sono il pentimento e la riparazione. Ma occorre educare sui principi morali e lasciare alla coscienza del penitente scegliere i mezzi. O la Chiesa deve diventare una stazione di polizia?
Sennò anche all’adultero va imposto, come condizione per l’assoluzione, di svelare la sua scappatella alla moglie. Chi ha superato il limite di velocità deve andare a costituirsi ai carabinieri. Chi ha fatto una maldicenza deve ricercare la persona con cui ha parlato male e riparare. Chi ha pubblicato un libro con una opinione dubbia deve ritirare il libro dal commercio, sennò non può ricevere l’assoluzione. E’ questa la Chiesa che Gesù vuole? Queste chiavi Gesù le ha date a Pietro per distribuire il perdono abbondantemente o per far diventare matte le persone e abusare delle loro coscienze? Fino a che livello questa istituzione crede di poter abusare del potere datale da Cristo? La Chiesa ha ricevuto il potere di legare e sciogliere non quello di sostituirsi alla coscienza delle persone. Ovviamente deve fare tutto il possibile per prevenire e difendere le vittime di abusi, ma il sigillo sacramentale così com’è attualmente strutturato è una colossale macchina di perpetuazione di abusi. Occorre rimuovere il sigillo non rimuovendo il segreto, occorre che l’obbligo di confessione dettagliata resti soltanto un-pessimo- ricordo e si trovino altre vie, come formule standard da recitare a cui segue l’assoluzione. La Chiesa allora sarà più bella e come Gesù la voleva.
Ricordatevi che S Agostino ha scritto le confessioni, ma non si è mai confessato e a quanto pare è andato in paradiso
la ‘confessione generica’ rischia di far saltare una cosa invece molto importante: l’esame di coscienza, che permette a una persona di guardarsi dentro e capire cosa deve rettificare nella propria vita.
e l’assenza di un’accusa che copra tutti i peccati gravi rischia seriamente di impedire al sacerdote di fare da guida al penitente e consigliarlo nel processo di conversione continua
lei invece vuole una confessione come ‘gesto meccanico’ in cui una persona è automaticamente assolta
cara anima errante, si parla tanto di riforma della chiesa, Papa Francesco stesso afferma in Evangelii Gaudium, che i precetti imposti da Cristo agli Apostoli erano pochissimi e occorre tornare alla semplicità evangelica. Quale confessione ha fatto il paralitco a cui il Cristo ha detto: Coraggio figlio i tuoi peccati ti sono rimessi! ?- quali consigli gli ha dato e condizioni gli ha posto per ricevere questa assoluzione?
La confessione con un’accusa generica non sarebbe affatto un gesto meccanico e implica il pentimento, la fede, il proposito di emendarsi, l’esame di coscienza poi è molto più che qualcosa “in vista della confessione”, visto che è uno dei mezzi fondamentali della vita cristiana, faccio l’esame di coscienza perchè voglio piacere a Dio e avvicinarmi a lui, non perchè mi DEVO confessare.
Il fatto che il sacerdote debba conoscere i dettagli per offrire un consiglio spirituale è discutibile perchè soprattutto bisogna bilanciare i valori in gioco. Il perdono può essere ottenuto ugualmente senza esporre le persone- e il sacerdote- ad una apertura della coscienza e rispetto del segreto, che domanda al sacerdote di essere un angelo-non un uomo. Cosa che viene smentita però dai fatti e dalla realtà di come viene vissuto il sacramento e violato il segreto, che ricordiamolo si può violare anche con uno sguardo, un cenno, o con l’atteggiamento di evitamento del penitente da parte del sacerdote. Il sacramento della penitenza, come è attualmente strutturato, presta il fianco ad abusi di coscienza, di potere e perfino sessuali. La relazione è totalmente asimmetrica e presuppone una condotta angelica del ministro che ha il potere di vita e di morte sul penitente e può sì guarire, ma anche infliggere i suoi colpi, plagiare, e approfittarsi di qualcuno che è in una situazione di estrema vulnerabilità, dove non si può difendere. Porre queste condizioni è fede o una colpevole ingenuità perpetuata per secoli? Può la chiesa ignorare questa realtà? Veramente non c’è un modo meno pericoloso di ricevere il perdono e che non esponga a tali abusi? Legga l’articolo appena pubblicato “ho paura dei preti”. Vogliamo che le persone finiscano così?
http://www.settimananews.it/chiesa/ho-paura-dei-preti/
Perchè se giustamente si cercano le soluzioni perchè l’abuso sessuale non avvenga più, bisogna anche cercare delle soluzioni agli abusi di coscienza e di potere che ne costituiscono la base.
E vogliamo parlare dei danni psicologici-emotivi che ricevono i poveri sacerdoti nell’ascoltare- tutta la vita- questo mare di male che si riversa su di loro? Siamo sicuri che è quello che il Signore vuole?