La recente polemica mediatica su una frase di Alessandro Barbero in un’intervista a La Stampa può essere spunto per numerose riflessioni su alcuni temi contemporanei. Verrebbe da dire la visione della donna di un certo mondo maschile, ma portando maggior attenzione emerge anche la questione della comunicazione mediatica in forte crisi.
Rimanendo a questo livello, però, l’occasione rischia di essere sprecata. Il tema che Barbero solleva con la sua domanda – sì, è una domanda: non ha mai affermato, almeno in quell’intervista, che le donne sono “meno spavalde”, se lo è chiesto. E chiedere significa ammettere di non sapere e porsi in posizione di ricevere risposte, di imparare. Qualcosa fuori moda, nel nostro tempo – è quello dell’esercizio del potere e della mascolinità di questo concetto che pervade la nostra società.
Donne, potere, mascolinità tossica
Avanzerò ora quella che si può definire un’ipotesi di lavoro: non è una posizione forte e conclusa, ma va posta in essere per metterla alla prova e per vedere se, seguendola, possa portarci da qualche parte.
È un modo di dire diffuso che una donna dal carattere forte sia “una donna con le palle”. Per me, tradotto, significa che una donna che esercita una qualche forma di potere per farlo deve comportarsi da uomo: questo perché il potere che conosciamo è solo presente nella sua forma maschile e patriarcale. Viviamo una società che ci spinge ad avere successo sul piano economico, incoraggiandoci a utilizzare strategie aggressive e competitive, consentendo anche l’immorale pur di riuscire; atteggiamenti che non esitiamo a definire “mascolinità tossica”.
Penso che l’immagine di minor spavalderia in campo femminile possa dipendere anche da questo e che il tema della parità tra i generi non possa essere impostato solo sul piano dell’eguaglianza esteriore e formale, ma debba prendere anche in considerazione le diversità, che son forze e non debolezze. Il potere non va semplicemente esteso alle donne, ma riletto nella sua interezza. Anche i discorsi su una certa mascolinità tossica confluiscono qui: non c’è una semplice organizzazione su due poli, ma si devono prevedere le diverse sfumature.
In termini di patriarcato, il suo successo è proprio nel farci credere che non esistano strutture alternative; addirittura, questa credenza può appartenerci così tanto da impedirci di riconoscerla. La gestione, l’esercizio e l’idea stessa di potere ben si adattano a questo schema: lungo buona parte della storia umana il potere è stato definito da caratteristiche che non possiamo aprioristicamente escludere dipendano anche dal fatto che è stato nelle mani della parte maschile dell’umanità.
Interrogarci su un possibile esercizio “al femminile” del potere significa quindi anche interrogarci sulla nostra struttura sociale e, dove la troviamo dissonante rispetto ai nostri valori, cambiarla. L’esempio della diarchia di genere in alcune agenzie educative è una pista arricchente che, pur da rivitalizzare, risulta in moltissimi campi – politica, religione, amministrazione pubblica e privata – rivoluzionaria.
L’esercizio del potere e la Chiesa
Penso che questa riflessione debba interrogare anche la Chiesa cattolica; anzi, proprio nei mesi in cui si avvia il suo cammino sinodale e negli anni in cui si parla molto di lotta al clericalismo e di innovare la missione delle donne, ritengo non possa essere una chiave di lettura da scartare a priori.
Anche nella Chiesa cattolica il potere e il suo esercizio sono visti al maschile; di più, anche i ruoli ministeriali, nonostante le recenti aperture, esistono solo in questa unica forma. Forse la categoria del patriarcato, come oggi impiegata, non è parte del linguaggio dell’ecclesiologia, ma, come sempre, porsi delle domande è un passo cui non dobbiamo rinunciare. Sembra che questi pensieri non siano isolati o inediti negli ambienti della teologia e del cristianesimo, visto che qualcosa è in questi anni in movimento, anche ai livelli istituzionali.
Ciò che si è fatto, dopotutto, è stato aprire alle donne forme ministeriali che prima erano loro negate. Intendiamoci, è stata cosa buona; ma è davvero una strada rispettosa delle donne? Pensare che la parità ontologica nel Battesimo in Cristo si manifesti solo secondo l’adesione a uno schema costruito su un modello maschile non è una limitazione? Non esistono davvero altre strade? Trovare risposte a queste domande significa porsi su una strada che richiede, prima di tutto, di interrogarci su questioni che diamo per scontate e che, invece, così scontate non sono.
Qui lancio una provocazione: invece di dibattere dell’ordinazione delle donne al sacerdozio ministeriale nel presbiterato, perché non impegniamo la teologia nel pensare un sacerdozio ministeriale declinato al femminile? Di pari grado e dignità, ma differente, capace di pensare il servizio sacerdotale nella comunità non solo nell’ottica del presbiterato che conosciamo – ottica, questa sì, davvero e letteralmente patriarcale – ma in una forma differente, che emerga dalla capacità sempre viva della Chiesa di leggere la Rivelazione e farne Tradizione.
Una capo scout di cui ho grande stima mi ha insegnato che la Tradizione è un fuoco vivo da mantenere acceso, non l’adorazione delle braci. Un fuoco da campo, se ne avete esperienza, è qualcosa di mutevole, eppure uguale a sé stesso, che si adatta per rispondere agli stimoli e alla realtà, alla nuova legna e al soffio del vento, ma, se non si spegne, è sempre il medesimo fuoco. Porre nuova legna e ascoltare altri soffi non mette in discussione la Tradizione in quanto tale, ma alcune sue manifestazioni puntuali e molto umane.
In questo cammino, trovo utile porsi in ascolto anche dei fratelli e delle sorelle delle altre Chiese: alcune di esse, infatti, hanno già tematizzato queste problematiche, talvolta dando loro una risposta. Potranno non essere risposte aderenti alla nostra sensibilità, ma possono insegnarci molto, quantomeno sul metodo e sul coraggio.
L’essenziale su questi fronti non è proporre soluzioni, non ora: è aprire la discussione. Aprirsi al soffio dello Spirito. C’è qualche finestra da spalancare e deve essere un impegno comune – di tutti e per tutti – quello di ascoltare, meditare, dire, in un confronto franco, sincero e rispettoso. La via del silenzio che alcuni vorrebbero percorrere, invece, è l’unica che non ha alcuno sbocco.
Attenzione a ben discernere ciò che ci viene dal mondo, scrive l’Apostolo: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono”.
Negli anni dai ’50 ai ’70 molti, anche autorevoli, teologi e pastori premevano perché l’ideologia comunista entrasse in qualche modo nella Chiesa. La ferma opposizione di santi papi ci salvò da un sostanziale snaturamento della fede pur ritenendo ciò che di buono (il poco) quell’ideologia proponeva.
Oggi facciamo i conti con tutti questi nuovi (ma li direi vecchi perché tutti figli del ’68) venti di dottrina: genderismo, neofemminismo antipatriarcale, postumanismo ecc.
Attenzione a non ingurgitarli acriticamente pretendendo già di farne “tradizione”. Piuttosto – non restando nel silenzio così come consiglia l’articolista – seguiamo il consiglio paolino rigettando ciò che è male e ritenendo ciò che è buono. Ci aiuti lo Spirito di Dio.