La collana Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi (NVBTA) si arricchisce di un volume curato da Stefano Mazzoni, docente di AT presso la Pontificia facoltà di teologia Marianum di Roma, membro della Congregazione religiosa dei Servi di Maria.
Dopo l’introduzione generale (pp. 9-37), segue il testo biblico di Giobbe con l’originale ebraico sulla pagina pari di sinistra e la traduzione personale dell’autore su quella dispari di destra. Un secondo registro a metà pagina contiene alcune puntuali note filologico-teologiche, mentre nel terzo registro trova posto il commento esegetico-teologico (pp. 38-310). Il monaco camaldolese Matteo Ferrari espone, nel finale, la presenza del libro di Giobbe nell’odierna liturgia (pp. 311-315).
Il libro di Giobbe
Nella Bibbia cattolica, Giobbe si trova al primo posto tra i libri sapienziali, prima del libro dei Salmi. L’articolazione del libro è costituita da un prologo in prosa (cc. 1–2) e da un epilogo (42,7-17) pure in prosa.
Nel Prologo si narra come, su permesso pattuito con Dio, il giusto Giobbe viene messo alla prova dall’avversario, satan, circa la gratuità della sua fede mediante una prova durissima che lo colpisce nei suoi beni, nella morte dei figli e nella malattia fisica che lo emargina socialmente e religiosamente. Giobbe si mantiene fedele a Dio e viene visitato da tre amici.
L’epilogo è collegato al prologo e contiene il giudizio di YHWH sugli amici di Giobbe e sulle loro parole (42,7-9), a cui segue il ristabilimento di Giobbe nella prosperità (42,10-17). Nell’epilogo, Giobbe ritratta le sue parole dette verso e contro Dio a causa della sua sofferenza, nella ricerca della ragione del dolore innocente e viene reintegrato in maniera doppia in beni e in figli. Sembrerebbe una conferma della dottrina tradizionale della retribuzione: ogni male è punito da Dio, ogni bene è premiato da lui in modo corrispondente. Questa teoria è difesa strenuamente dai tre amici di Giobbe (con il quarto, Elihu) che vengono a consolarlo.
Nella sezione poetica centrale trovano posto tre serie di dialoghi degli amici con Giobbe, insieme a un poema sulla sapienza (c. 28), un monologo di Giobbe (cc. 29-31), il ciclo di Elihu, un amico non menzionato in precedenza, con quattro discorsi (cc. 32-37), il dialoghi di Dio con Giobbe: teofania e primo discorso di YHWH (cc. 38–39); interpellazioni di YHWH e prima risposta di Giobbe (40,1-14); secondo discorso di YHWH (40,15–41,26); seconda risposta di Giobbe (42,1-6).
Nel Vicino Oriente antico appaiono opere simili a quella di Giobbe. Si trovano in Egitto, nell’ambito sumerico (“Giobbe sumerico”), accadico e babilonese (il “Giobbe babilonese”, Dialogo di un sofferente con il suo pio amico).
Gli studiosi hanno proposto come genere letterario di Giobbe la tragedia, l’epopea, il dibattimento giudiziale, la lamentazione drammatizzata e il dibattito sapienziale. Mazzoni propende per quest’ultima proposta.
Secondo Mazzoni, la redazione finale del libro di Giobbe sembra sia da collocarsi tra il V e il III sec. a.C.
L’anonimo autore potrebbe essere uno scriba, un erudito ebreo cosmopolita che parla aramaico e che sceglie l’ebraico come lingua letteraria.
I destinatari sono forse gli esuli tornati da Babilonia che si interrogano sul senso della catastrofe e della giustizia di Dio oppure un gruppo di discepoli della diaspora, che lo scriba-autore istruisce, mostrando i limiti della dottrina tradizionale. Il libro trascende comunque l’identità dei destinatari e l’epoca di composizione, perché il problema della sofferenza umana e della posizione assunta da Dio nei suoi confronti sono problemi sempre attuali.
Tratti tipici esilici e postesilici del libro di Giobbe sono la figura del satan, la problematizzazione della dottrina tradizionale della retribuzione e la vicinanza poetica con il libro di Qohelet, con alcuni passi di Proverbi e di Geremia. Sono presenti anche la dimensione universalistico-monoteistica che emerge dalle scelte letterarie dell’autore e, infine, la mancanza di una prospettiva di vita ultraterrena che comparirà per la prima volta nel libro di Daniele, in una sezione attribuita al II sec. a.C. La redazione finale di Giobbe deve quindi collocarsi prima di questa data.
Prima di esporre alcune linee teologiche fondamentali, Mazzoni espone una breve storia dell’interpretazione.
Giobbe è stato visto come tipo dell’uomo paziente e generoso, modello di fragilità umana. Origene ha sottolineato la pedagogia del dolore. Crisostomo vi vede la figura del moralista e del filosofo, un uomo giusto e saggio che si affida completamente a Dio. Agostino sottolinea l’universalità del peccato, mentre Ambrogio sottolinea la tensione tra la ragione umana e il mistero dell’azione di Dio. La risposta di Giobbe a questa aporia è quella della fede, che si coniuga con la vera sapienza.
Tra il 579 e il 585 Gregorio Magno compone il primo commentario a Gb in 35 volumi: esegesi, lettura spirituale, ecclesiale e cristologica si mescolano con l’offerta di una riflessione teologica e l’attualizzazione. Giobbe è modello di perfezione morale e diventa il “tipo” di Cristo (e della Chiesa) sofferente.
L’enigma della sofferenza
Il libro di Giobbe contiene più domande che risposte – afferma Mazzoni – le cui riflessioni seguiamo da vicino. Il tema della sofferenza del giusto non è il solo e il più importante. Il problema più importante è quello della concezione di Dio e del rapporto dell’uomo con lui. Da esso dipendono tutte le altre tematiche.
C’è l’enigma della sofferenza del giusto, messo alla prova nella sua fede verso il Dio amorevole e provvidente. Ma – secondo Mazzoni – Giobbe non sembra vivere la sua sofferenza secondo questa ottica. Nella parte narrativa, Giobbe si dimostra rassegnato e accoglie con sottomissione tutto ciò che gli capita. Nei dialoghi sorge però la domanda sul perché della sofferenza dell’uomo giusto. Ignaro del patto concluso nei cieli tra YHWH e il satan, Giobbe attribuisce a Dio le disgrazie, non ne comprende le ragioni, protesta la propria innocenza con gli amici, sentendosi vittima di una profonda ingiustizia.
Giobbe è un libro attuale perché il problema della sofferenza innocente è legato a quella fondamentale della giustizia di Dio e del modo in cui egli la amministra nel mondo degli uomini.
Secondo la teoria della giustizia retributiva, radicata profondamente nella tradizione biblica, Dio premia i giusti per la loro buona condotta e punisce i malvagi in proporzione della loro malvagità. Giobbe denuncia i limiti di questa teoria e la contesta. Gli amici invece vogliono convincerlo del suo peccato e lo invitano all’umiltà del suo riconoscimento.
Fra gli amici c’è chi sottolinea la misura minima e transitoria della sofferenza umana, chi la vede come tratto tipico della creaturalità umana e vede in Giobbe un peccatore. Ma la colpa di Giobbe non pare così grave da dover perdere i figli.
Zofar lo accusa di essere peccatore e ipocrita, uno che vuole mascherare le proprie colpe. Elihu difende l’operato di Dio e sottolinea il valore pedagogico della sofferenza. Essa ha uno scopo di ammonizione e di correzione. Le ragioni delle modalità dell’intervento di Dio possono non apparire chiare e ragionevoli all’uomo, ma esse dipendono dalla sua imperscrutabile sovranità, da cui origina la sua giustizia indefettibile.
Giobbe professa la propria innocenza, afferma di non essere colpevole di azioni tanto gravi da meritare il dolore che patisce. Mette in discussione la giustizia divina. Egli vuole contendere direttamente con Dio e comparire in giudizio davanti a lui per dimostrare la propria innocenza.
La sofferenza ingiusta è unita alla fede, mai abbandonata, in un Dio giusto nonostante le apparenze palesemente contrarie. In quest’ottica, si capiscono gli accorati lamenti di Giobbe, il suo desiderio di morire per non soffrire più, le sue accuse di indifferenza rivolte a Dio, il quale non sembra preoccuparsi del dolore degli innocenti, mentre lascia prosperare gli empi e i malvagi. Giobbe sente Dio come un avversario implacabile, oscilla tra la fiducia nell’esistenza di un ordine morale divino nel mondo e la percezione che esso sia disatteso. Giobbe spera, infine, in un mediatore imparziale che garantisca la propria difesa di fronte al giudice divino.
Dio e il mondo
Nella sua risposta, Dio accondiscende al confronto personale, ma non risponde esplicitamente alla questione posta da Giobbe, quella della giustizia divina e del riconoscimento della propria innocenza. I due discorsi divini si concentrano sul cosmo. Sembra che Dio voglia distogliere Giobbe dalla preoccupazione esclusiva per la propria condizione, invitandolo ad allargare lo sguardo e a ricercare nel cosmo la risposte alle sue domande.
Il mondo naturale – animali compresi – assume una dimensione rivelativa fondamentale per la comprensione del rapporto tra Dio e l’uomo. Lo scenario della tempesta presenta Dio come creatore e colui che governa costantemente l’intera realtà creata. Gli elementi della natura sono posti a servizio della rivelazione di Dio e sono segno evidente della sua presenza misteriosa nel mondo. Osservando il cosmo, Giobbe può riconoscere il dominio sapiente e potente di Dio esercitato su di esso.
Giobbe sperimenterà i limiti inscritti nella creaturalità umana, fra cui quello del “sapere”. I limiti si scontrano con l’inafferrabilità del grandioso disegno di Dio, che non può mai esser rinchiuso in formule e schemi teologici immutabili e predefiniti.
Dio respinge le accuse di indifferenza e di amministrazione arbitraria della giustizia. Ribadisce l’esistenza di un ordine di cui egli è garante e artefice, ma che rimane, nei suoi aspetti più profondi, in gran parte nascosto e misterioso per le limitate capacità umane di comprensione. Esse possono coglierne soltanto un riflesso, contemplando le meraviglie del mondo.
YHWH lascia spazio alla libertà di Giobbe perché, nel riconoscere l’alterità divina, egli è chiamato a compiere un cammino di conversione: della propria immagine di Dio, di se stesso, della propria comprensione del dolore che accompagna l’esistenza.
Miseria e grandezza dell’uomo
Il libro di Giobbe offre la possibilità di riflettere sull’uomo e sul suo cammino di fede. Giobbe parte dalla paziente accettazione del limite umano intrinseco nella creaturalità umana e dal senso di abbandono alla volontà di Dio offerte all’inizio del libro. Secondo Mazzoni, esse sembrano però un po’ stereotipe e un meccanismo di difesa davanti a una situazione percepita troppo pesante e penosa. Giobbe cerca una risposta a un dolore incomprensibile. Egli si scontra con la propria fragilità, con la debolezza intrinseca nella carne umana, con la sua caducità e insignificanza nel grande scenario della creazione. L’uomo è impuro e incline al peccato.
Giobbe non è distolto però dal ricercare comunque un risposta al dubbio, che tocca anche il suo rapporto con Dio. Per questo esprime la sua rabbia e frustrazione e si scaglia contro gli amici. Per questi ultimi l’uomo è fragile e quindi infinitamente distante dalla santità divina, davanti alla quale è impossibile la pretesa di riconoscersi innocente. Giobbe invece non considera la fragilità come un ostacolo a rapportarsi correttamente con Dio e per questo si arrabbia anche con lui.
Qual è il senso del dolore che sembra smentire la vita e la benevolenza mostrata da Dio con il dono della vita? Con le sue forti parole di sfida – a tratti quasi blasfeme –, Giobbe esprime in fondo la sua fede che non si arrende all’apparenza del non senso e dell’iniquità. Egli supplica e discute con Dio, chiede una risposta che gli amici non gli danno, una parola che gli ridoni la dignità.
Nel dialogo appassionato e vero si scopre l’interiorità dell’uomo che ricerca in Dio il senso ultimo della vita e una presenza amica che lo sostenga.
Lo svelamento del volto di Dio
Il cammino di fede di Giobbe culmina nella teofania finale (c. 38) e nei discorsi rivoltigli da Dio (c. 39; 40,15–41,26). Secondo Mazzoni, il cuore dell’opera e il punto di convergenza delle tematiche teologiche sembrano essere proprio la ricerca del volto autentico di Dio e l’incontro col suo mistero. Il desiderio di Giobbe si realizza: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto», riconosce con sincerità (42,5).
C’è una consapevolezza nuova in Giobbe. La conoscenza teologica tradizionale lascia il passo all’esperienza personale di Dio. Egli non risponde esplicitamente alle domande di Giobbe circa il senso della sofferenza, della giustizia divina e della retribuzione. Giobbe è chiamato invece a cambiare in modo radicale la sua immagine di Dio, intuendone il volto nella vastità e complessità del mondo, e sperimentandone la presenza al proprio fianco anche nel momento del dolore.
La fede di Giobbe trova il suo approdo nella certezza di una comunione che nessuna prova può interrompere. Per questo, Dio stesso alla fine esprime la sua approvazione nei confronti di Giobbe, giudicando invece in modo negativo i suoi interlocutori: «… non avete parlato di me con fondamento, come il mio servo Giobbe» (42,8).
Non esistono formule teologiche che possano racchiudere ed esaurire il mistero di Dio. Nel cammino di fede – annota Mazzoni –, l’uomo procede a tentoni come Giobbe, in un cammino di ricerca che è l’unico modo per lasciarsi sorprendere da Dio e accoglierne il disegno, tante volte solo intravisto. «Il mistero della sofferenza dell’innocente, la presenza del male nella storia e l’apparente successo dell’ingiustizia possono trovare un senso nell’incontro con il volto di un Dio che non si rivela come giudice inflessibile né come tiranno o padrone dispotico, bensì come sorgente della vita e della libertà, come padre misericordioso che si affianca con pazienza e sollecitudine ai suoi figli e li sostiene nel cammino sempre incerto e faticoso della fede» (p. 28).
Al termine del libro, immediatamente prima dell’epilogo, in 42,5-6 Giobbe afferma – nella traduzione di Mazzoni –: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto, perciò ritratto e mi pento sulla polvere e la cenere». Giobbe riesce a collocare la sua esperienza di dolore e di finitudine in una trama più ampia, la cui tessitura è affidata alle mani sapienti e amorevoli di Dio. Nella propria storia, Giobbe scorge una realtà di bene che resiste a ogni attacco del male, una presenza capace di far emergere la visione di una meta di felicità al di là della cortina opaca della miseria quotidiana.
L’epilogo e l’incontro personale col mistero di YHWH
Mazzoni attira l’attenzione sul fatto che una lettura superficiale dell’epilogo (42,10-17), con il ribaltamento delle sorti di Giobbe e il ristabilimento nella prosperità a causa della sua fede, potrebbe rinforzare l’accettazione della teoria della retribuzione rifiutata dallo stesso Giobbe e mettere così a disagio il lettore. Lo studioso rammenta che nella redazione finale del libro l’epilogo va letto non solo in rapporto con il prologo ma anche con la sezione intermedia dei dialoghi, della teofania e dell’incontro finale con YHWH.
La rinnovata benedizione di Giobbe non cancella tutto quello che egli ha sofferto e il dolore che lo ha segnato nella carne. Il conforto dei familiari e dei conoscenti non annulla il senso della solitudine provato in precedenza e i nuovi figli non possono far dimenticare la perdita dei primi.
Il senso del finale del libro e di tutta l’opera – annota l’esegeta – è l’incontro personale di Giobbe con YHWH. Giobbe è insoddisfatto delle risposte degli amici e cerca un’esperienza profonda e diretta col divino. Nel momento della teofania, Giobbe avverte al massimo la sua vicinanza col mistero di YHWH. Percepisce la propria limitatezza, l’impossibilità di comprendere il grandioso disegno del mondo e, a maggior ragione, il suo Creatore. In questo incontro, Giobbe intuisce un volto inedito di Dio e una modalità di amministrare la giustizia diversa da quella umana.
«Il Dio che Giobbe ha incontrato – annota Mazzoni – non ha eliminato il problema del male nel mondo e della sofferenza umana; si è messo però in ascolto di Giobbe, lo ha accolto col suo grido indignato e la sua protesta, e gli ha svelato un disegno grandioso, entro il quale Giobbe è invitato a collocare la sua esperienza di creatura fragile e limitata. Al termine di questo percorso, Giobbe ha compreso la necessità di purificare la sua immagine di Dio, riconoscendone la presenza discreta, ma reale, nelle pieghe dell’esistenza, perfino in quelle più oscure e dolorose. Perciò il suo ultimo intervento si chiude con una nota di pentimento e di penitenza, simbolo dell’accettazione, nella fede che ha attraversato l’oscurità della prova, della necessità della conversione, nella ricerca inesausta del vero volto di Dio. Si prepara, così, l’epilogo del libro, che chiederà al lettore un ulteriore sforzo interpretativo» (p. 302).
Il commentario scientifico di Mazzoni si pone come un ottimo punto di riferimento per l’interpretazione di un testo impegnativo a livello letterario e teologico come quello del libro di Giobbe. Se ne potranno servire con frutto docenti, studenti, ma anche operatori pastorali e cultori del testo biblico.
- Giobbe. Introduzione, traduzione e commento a cura di STEFANO MAZZONI (Nuova Versione della Bibbia dai Testi Antichi 19), Ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 2020, pp. 320, € 38,00, ISBN 9788892221338.