Il volume raccoglie quattro conferenze tenute tra febbraio e marzo 2021 al Centro Informazione Biblica di Carpi (MO). Il presidente Alberto Bigarelli firma una presentazione che riassume i temi principali delle proposte avanzate.
Elia
Laura Invernizzi affronta il tema “Il Dio inutile – la solitudine di Elia (1Re 19,1-18)” (pp. 23-60). Dall’inizio della Bibbia il Signore è un Dio che parla con potenza ed efficacia e tutto si compie. A. Neher fa notare che la stessa Bibbia esorcizza il silenzio di Dio attribuendolo agli idoli: è l’idolo che è muto, opera delle mani dell’uomo. Ma un Dio che non parla è un Dio inutile, non serve, è superfluo.
L’autrice invita ad accostarsi con l’analisi narrativa a 1Re 18–19 come a un dittico. Nella prima parte Elia appare come il campione del monoteismo yahwista che compare in scena all’improvviso e annuncia al re Acab di propria iniziativa che ci sarà un tempo di siccità. Elia è molto compreso nel suo ruolo, fin troppo. Il Signore cerca di scardinare le sue certezze e di educarlo a uscire progressivamente della propria idolatria: la tentazione di irrigidire Dio dentro uno schema e un’unica rappresentazione. In vari momenti sono sottolineati i cambiamenti di prospettiva a cui Elia è invitato («Ed ecco…» + participio).
Elia vince la sfida sul Carmelo contro i profeti di Ba’al. Dio risponde all’invocazione di Elia inviando non una parola, ma il fuoco. L’ordalia termina con la strage dei 450 profeti del dio capo del pantheon venerato dalla regina pagana Gezabele.
Nel c. 19 Elia appare in modo totalmente diverso. È in fuga da Gezabele, pieno di paura e di angoscia, spaventato e depresso dallo stress della vittoria e della persecuzione. Non capisce perché Dio non lo aiuti e nel deserto non cerca il suicidio ma pone la sua vita in mano a Dio, provocandolo a intervenire (come era accaduto con Agar e Ismaele, dopo un giorno di cammino).
Sull’Horeb, la montagna della teofania, Elia entra nella caverna di Mosè e per due volte risponde rattristato alla domanda di Dio: «Cosa fai qui Elia?». Elia esprime il suo sconforto e il senso di solitudine che lo avvolge. Il Signore lo interpella ed Elia sperimenta la presenza di Dio, la sua alterità. Dio non è più nel vento fortissimo, e neppure nel terremoto e nel fuoco. Si manifesta in una «voce di silenzio frantumato», un silenzio eloquente che serve e nel quale può riconoscere la sua paura, il suo fallimento, il suo risentimento. Elia impara ad ascoltare.
Solo dopo l’esperienza forte della presenza trascendente di Dio quasi come una “visione”, Elia esce dalla caverna, ripete la sua risposta alla voce che lo interpella, ma ora riceve una nuova vocazione che lo rimanda nel pieno della storia.
Il silenzio di Dio ha la stessa proprietà maieutica della parola. La parola di Dio è tornata essere soltanto sussurro, la fase originaria in cui il suono non è ancora articolato in parola.
Salmo 88
Luca Mazzinghi titola il suo contributo “Salmo 88: un grido dalla tenebra” (pp. 61-80).
È il salmo più cupo del Salterio, posto proprio alla sua metà. È un salmo di lamento individuale, ma è l’unico privo di finale aperto alla speranza. Un uomo profondamente ammalato – ma non necessariamente – grida a Dio il suo lamento per l’ambiente “infernale” in cui si trova, fatto di tenebre e di acque che sommergono nella morte. Può essere anche un uomo sano, ma che ha capito di essere un mortale e che la morte sta davanti a lui come unica reale prospettiva. Ironicamente, si sente «libero fra i morti» (così traduce Mazzinghi il v. 6, rispettando il testo originale; invece di «libero» CEI 2008 ha «sul mio giaciglio»).
La morte è vista come una liberazione dalla sofferenza, dall’isolamento, dall’abbandono anche da parte di Dio. Fra i morti non c’è la sua presenza, la sua bontà, fedeltà e giustizia. Dio appare smentito nelle sue caratteristiche principali. La morte è “la terra dell’oblio”.
Ma il salmista persevera nella preghiera, iniziata al mattino e che si scontra con il silenzio di Dio che si nasconde a lui fin dalla sua infanzia. Dio resta per lui l’unico “conoscente” a cui rivolgersi e che potrebbe ascoltarlo.
Letto nel contesto del libro del Salterio, il Sal 88 appare come una risposta polemica alle promesse divine verso Israele espresse nel salmi precedenti. I successivi andranno in direzione del ringraziamento e della lode.
La tradizione cristiana ha interpretato questo salmo come simbolo della passione di Cristo, che ha avvertito la morte come abbandono da parte di Dio.[1]
Il salmista persevera nella preghiera a un Dio che risponde col silenzio. Anche questa è una modalità del suo linguaggio, accanto a quello della parola dei profeti o alla parola-evento che si realizza nella storia, rappresentata da Gesù.
Il Servo sofferente
Ermenegildo Manicardi svolge il tema «“Disprezzato e reietto dagli uomini, lo giudicavamo percosso da Dio e umiliato”. Il canto del Servo sofferente (Is 53)» (pp. 81-106).
Nel canto si intrecciano tre piani: il Servo disprezzato e reietto dagli uomini, il giudizio dei testimoni e, in tale sofferenza, Dio stesso interviene per realizzare il suo disegno. La voce di Dio si intreccia con quella degli uomini, rappresentata dal coro e, alla fine, si mostra che quel servo portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori. Il canto ha influenzato Gesù e la comprensione cristiana del Messia crocifisso.
Nei versetti inziali e finali interviene Dio. All’inizio egli presenta solennemente il Servo. Segue la sua storia dolorosa. Maltrattato, disprezzato, reietto, come un agnello muto condotto al macello, ha la forza di radunare il gregge disperso. Con un grido, Dio proclama in modo inaspettato che fu per colpa del suo popolo che egli fu percosso a morte e che con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo. Il coro conclude riconoscendo la responsabilità di Dio nel destino del Servo, ma questi, paradossalmente, poiché ha saputo soffrire e offrire la sua vita in sacrificio, giungerà alla conoscenza del perché del suo patire, vedrà una discendenza e vivrà a lungo.
Al termine, Dio annuncia che il Servo sarà il riferimento assoluto di tutta l’umanità, avrà una nuova vita, vedrà un nuovo giorno. I popoli diventeranno il suo «bottino» perché ha vinto la battaglia spogliandosi della propria vita. Il Servo ha, per così dire, «smaltito i rifiuti» che ammorbano l’umanità (A. Vanhoye); la sua vittoria non è nella storia ma nella profondità di Dio; sebbene innocente, è riuscito a offrire se stesso in sacrificio di riparazione e compiere, nella sua persona, la volontà del Signore; mentre soffre, il Servo è al buio, ma una volta glorificato sarà sfamato e acquisterà conoscenza; i popoli saranno suo bottino perché «ha portato il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli».
Seguendo alcuni suggerimenti di H. Simian Yofre, Manicardi nota che il canto è una narrazione singolare, dove silenzio, sofferenza e morte costituiscono la chiave di lettura. La vita umana e la morte del Servo sono una liturgia davanti a Dio. Il Servo è stato provato per vedere, ascoltare, e insegnare come è davvero la vita. Egli apre gli uomini alla comprensione della propria sofferenza che appare come un sacrificio di riparazione. Egli è una figura che include tutti coloro che soffrono veramente e la cui sofferenza ha un senso per gli altri, quindi accettabile a Dio. Soffrire accanto a un altro è già portare in qualche modo il suo dolore.
Nel NT i testi più vicini a Is 53 sono l’Inno di Filippesi 2 e Mc 8,34-35. Qui viene detto che l’unico modo per tenere stretta la vita è quello di non stringerla a sé, ma donarla.
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Carlo Broccardo interviene sul tema “Il Dio assente. Il Figlio abbandonato” (pp. 107-131).
I vangeli hanno una qualità narrativa e Marco annota spesso come Gesù si commuove, si intristisce, si stupisce, si adira, geme, ama, supplica. È una persona reale e non un’idea. L’autore si concentra sulla relazione che Gesù ha con il Padre. Marco nota che spesso Gesù si ritirava a pregare da solo, in luoghi appartati. Il contenuto della preghiera ci è dato però solo nel momento del Getsemani e in quello sulla croce.
Nel primo momento Gesù prova paura, angoscia e tristezza. È allarmato, in ansia, agitato, triste fino alla morte. Lo preoccupa la morte imminente e prega il Padre per tre volte di allontanare la sua sorte dolorosa, “il calice”. Nella sua umanità sente però la presenza di Dio, il suo progetto, e si abbandona al compimento della volontà del Padre.
Nel momento della morte siamo davanti allo «spettacolo della croce» (B. Maggioni). L’evangelista rallenta al massimo il ritmo perché il lettore possa contemplare a fondo la scena. Gesù muore pregando il Salmo 22 di cui si cita il v. 6: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È un’invocazione straziante e drammatica rivolta a Dio da una persona di fede che si trova in una situazione molto difficile.
Oltre che con queste parole, al Sal 22 si allude con la spartizione delle vesti e lo scuotimento del capo da parte dei presenti.
Gesù si rivolge a Dio non da disperato, ma da persona che riconosce un rapporto con lui, un legame. La sua non è un’affermazione, ma una domanda. Marco non descrive la morte nobile di un eroe, ma di un uomo reale che soffre e sente la solitudine. Dio risponde con il silenzio. Non si sentono parole né presenza. Dio non aiuta visibilmente chi gli è fedele e invoca la sua presenza.
Broccardo cita due filoni interpretativi delle parole di Gesù. Molti pensano a un atteggiamento di fede, di fiducia e di affidamento a Dio. Pregando i primi versetti, Gesù pregherebbe tutto il salmo di lamento che termina con una nota di cambiamento, in cui il salmista dice che il Signore lo ha ascoltato e che, perciò, lo annuncerà a tutti.
Broccardo fa notare una seconda linea interpretativa, che fa sua. Nella scena e nella citazione non si allude alla seconda parte del salmo, quella positiva, di fiducia, di speranza e di lode. Dal v. 9 Marco retrocede al v. 2, allontanandosi dalla parte positiva. Nel NT, inoltre, le citazioni bibliche sono citate spesso astraendo dal contesto originale (cf. Paolo). Infine, se Marco avesse voluto esprimere la fiducia di Gesù, avrebbe potuto scegliere un altro salmo, più esplicito. Lc 23,46 cita infatti il Sal 31,6: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».
Nei salmi di lamento, eccetto il salmo 88, Dio alla fine interviene con la sua presenza. Al momento della morte in croce non c’è alcun intervento, ma solo il silenzio. Gesù non capisce il silenzio del Padre, che ha amato e servito, ma continua a invocarlo. Non è disperato, ma disorientato. Riconosce comunque un rapporto, un legame («Dio mio»). Gesù fa una domanda perché non sta capendo più. Chiama “violentemente” in causa Dio (A. Guida). Ma Dio è assente, non risponde.
Broccardo si chiede: Quale Dio rivela dunque questo episodio? Siamo davanti a una scena di rivelazione (cf. il v. 38 col velo del tempio che si squarcia). Si vede chi è Gesù e chi è Dio. All fine del Vangelo il centurione riconosce in Gesù il Figlio di Dio, così come in Mc 1,1 il Vangelo iniziava parlando di «vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio».
Nel Vangelo viene detto che Gesù annunciava che «il regno di Dio si è fatto vicino». Broccardo si chiede: ma quale regno di Dio? Quale la signoria di Dio? Quale è la sua presenza sulla terra se non risponde al Figlio che lo invoca?
L’immagine del Dio di Gesù è rivoluzionaria, afferma A. Vanhoye. Non è l’immagine di un Dio che, anche all’ultimo momento, arriva come un deus ex machina che salva, aiuta e risolve, come nelle tragedie antiche. Non è l’immagine di un Dio che umilia i potenti e che salva chi confida in lui. L’immagine di un Dio potente – secondo Vanhoye – è idolatrica. Con la sua morte Gesù rivela che Dio non è un Dio forte e potente.
Cosa concludere allora? Secondo l’autore, Marco afferma tre realtà.
La croce non è l’ultima pagina del Vangelo. Dio ha risuscitato Gesù, un mistero così grande da creare da principio lo sgomento nelle donne. Gesù sapeva che lo aspettavano la passione e la morte, ma anche la risurrezione. Marco invita a non avere fretta di dire che poi ci sarà la risurrezione. Egli lascia per un tempo opportuno il lettore insieme a Gesù che patisce, che prova smarrimento, paura e angoscia, tristezza e con la domanda del “perché?”. Non bisogna avere fretta di arrivare alla risurrezione.
La seconda realtà è l’invito a guardare la storia dal punto di vista di Dio. Egli non va messo sul banco egli imputati. Dio vede il Figlio morire e non interviene a favore di quel Figlio che ama e che aveva rivelato nel battesimo e nella trasfigurazione. «Adesso Dio si ferma, si pone un limite – annota lo studioso –; è un Dio che è così fedele all’umanità da non forzare la libertà degli uomini anche quando mettono a morte suo Figlio» (p. 130). Un’immagine drammatica, ma molto rispettosa del nostro essere persone umane, conclude Broccardo.
La terza realtà è tratta da Mc 1,35, in cui si ricorda come Gesù, dopo la giornata di Cafarnao, si alzò e pregava (al tempo imperfetto di durata e di ripetizione) al mattino presto, in un luogo deserto. Il mistero di un Dio che sembra abbandonare suo Figlio non si risolve solo a livello intellettuale (cf. Il libro di Giobbe). Dio è troppo grande per essere rinchiuso in ragionamenti umani. Broccardo annota come, oltre a un discorso razionale, c’è qualcosa in più, ossia una dimensione relazionale.
Al termine del Vangelo, Marco invita infatti a ricominciare un percorso, tornando in Galilea. «Il vangelo secondo Marco è un itinerario, un percorso, in cui si capisce vivendo; si capisce stando insieme; si riesce a entrare in un mistero così grande come quello di un Dio che non interviene soltanto rimanendo con lui, soltanto “svegliandosi al mattino presto, quando era ancora buio, e ritirandosi da soli con lui”. Ovviamente non si può dire per quanto tempo sarà necessario farlo; però in questo modo si attende la risposta» (p. 131).
LAURA INVERNIZZI – LUCA MAZZINGHI – ERMENEGILDO MANICARDI – CARLO BROCCARDO, Il silenzio di Dio. Presentazione: ALBERTO BIGARELLI, a cura di ALDO PERI, Ed. San Lorenzo, Reggio Emilia 2021, pp. 134, € 14,85, ISBN 9788880712763.
[1] Esempi di interpretazione patristica dei salmi si possono leggere in VINCENZO BONATO, I salmi. Pregherò con lo spirito ma pregherò anche con l’intelligenza, Edizioni San Lorenzo, Reggio Emilia 2021, pp. 440, € 22,50, ISBN 9788880712534.
Servendosi della traduzione greca dei LXX e di altre versioni messe a punto da diversi traduttori ebrei (Simmaco, Aquila, Teodozione), essi intesero mettere in luce varie sfumature offerte dal testo ed evidenziate dalla varietà delle versioni. Da una parte, essi continuarono a pregarli nello stesso senso letterale che aveva dato loro il popolo di Israele, dall’altra, li considerò come profezia di Cristo. I salmi furono la preghiera di Cristo nel contesto della Sinagoga insieme con il suo popolo, ma furono poi interpretati dalla Chiesa apostolica come profezia su di lui, afferma Bonato. I Padri hanno cercato di cogliere la voce di Cristo in questi testi di preghiera.
Dopo aver riportato il testo del salmo, il monaco camaldolese presenta una breve introduzione ad esso e poi riporta il commento patristico riassunto con le proprie parole o riportandolo per esteso. I padri citati nel commentario sono: Ambrogio, Agostino, Atanasio d’Alessandria, Basilio il Grande, Beda il Venerabile, Cassiodoro, Cirillo d’Alessandria, Eusebio di Cesarea, Gero di Reichsberg, Bruno di Würzburg, Ilario di Poitiers, Origene, Prospero di Aquitania, Remigio d’Auxerre, Bruno di Segni (o di Asti) e Teodoreto di Cirro.
A proposito del Sal 88, quest’ultimo commenta (p. 253): «Il contenuto profetico di questo salmo preannuncia le sventure dei giudei e la schiavitù in Babilonia. Nello stesso tempo, manifesta anche le sofferenza dell’umanità intera, in seguito al peccato. La profezia si presenta nella forma di una supplica, offerta al Dio misericordioso da parte degli israeliti e da tutti gli uomini, in un sentire comune. Il salmo è la preghiera dei fedeli più maturi nella fede» (PG 80,1568 C). Eusebio commenta (ivi): «Cristo piangeva sempre le miserie degli uomini; piangeva sulla rovina di quelli che non l’accoglievano. Ha pianto su Gerusalemme (cf. Lc 19,41) e sulla rovina di coloro che si perdono, perché era amico degli uomini e Figlio del Padre, pieno di bontà» (PG 23,1061 A). Chiosando il v. 7 e parlando di Cristo, egli prosegue: «Se tu, o Padre, hai voluto che arrivassi sino a questo, nella morte e nella profondissima fossa, ciò è stato soltanto perché volevi elargire prodigi ai morti» (PG 23,1061 D). «Si parla, poi, brevemente anche delle sofferenze del corpo di Cristo. Non le ha subite, infatti, solo il Capo», commenta Agostino (PG 37,1119). A proposito del v. 16 Eusebio annota (p. 254): «Nella sua giovinezza [Cristo] è stato povero tra i poveri; si è fatto povero per noi, affinché diventassimo ricchi grazie alla sua povertà (cf. 2Cor 8,9)» (PG 23,1065 C). E prosegue: «Nell’eccesso della sua tenerezza e del suo amore per gli uomini, gemeva sugli uomini che si perdono per la loro malvagità, parlandone come di cosa propria» (PG 23,1068 A). Agostino commenta il v. 17 (p. 255) “Sopra di me è passata la tua collera”: «Questa fu la persuasione dei crocifissori che non seppero riconoscere il Signore della gloria. Costoro, infatti, erano convintissimi che l’ira di Dio non soltanto si fosse scatenata, ma anche rafforzata, contro colui che essi avevano potuto mandare a morte. Per questo dice l’Apostolo: Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, facendosi per noi maledizione (Gal 3,13)» (PL 37,1113).
Come disse Etty Hillesum prigioniera nel campo di sterminio in cui fu uccisa: non è Dio a salvare noi ma siamo noi a dover salvare Dio. Di fronte al male trionfante Dio tace. E tocca all’uomo salvare l’idea di bene insita nel concetto di Dio e salvare la speranza.