Entrano nel vivo, come largamente previsto, le manovre per il Quirinale. Per la successione (probabile, anche se non certa) di Mattarella.
Un grande presidente, riconosciuto da tutti, che non sarà facile sostituire. La cui eredità deve assolutamente andare in mano a persona degna ed esperta, visto che la crisi strutturale delle istituzioni italiane è sempre presente, anche se in parte resa latente dall’attuale governo Draghi.
È quindi probabile che le difficoltà istituzionali presto si ripresentino, per l’Italia. Basti pensare che, comunque vada al Quirinale, a breve si voterà per il nuovo Parlamento: e il Paese non ha ancora una chiara legge elettorale.
Dovremo, inoltre, quasi dimezzare i parlamentari, e questo genererà enormi tensioni in tutti i partiti, con probabilissimi permali, fuoriuscite, rimescolamenti di classe politica e relative turbolenze negli schieramenti. Soprattutto, nessuna delle grandi riforme attese (giustizia, fisco, pubblica amministrazione…) sembra davvero prendere quota, col rischio di sprecare l’irripetibile occasione di 200 miliardi europei.
Mentre occorre evitare che un 10-15% del Paese, riunito trasversalmente sotto l’egida “No vax”, si renda disponibile a qualsiasi richiamo antisistema. Tutti compiti non facili, in cui un Presidente della Repubblica di mano salda e di grande qualità sarà indispensabile.
Il solito “machiavellismo”
Orbene, come si approcciano i partiti a questo appuntamento fondamentale per il nostro futuro? Verrebbe da rispondere: col solito, immancabile “machiavellismo”. Termine che, sia chiaro, non usiamo qui in senso valutativo o negativo: ma per indicare sbrigativamente una certa vocazione al tatticismo, all’accordo segreto, alla dissimulazione, che – a ben vedere – resta la cifra mentale, quasi l’istinto irriflesso, della maggior parte degli attori politici italiani, sia ai grandi livelli nazionali che nei piccoli scenari locali.
Nella formazione delle classi dirigenti italiane (dalla politica vera e propria, alle grandi imprese, all’università, persino nella Chiesa, a volte) questo istinto manovratore del “machiavello” sembra essere ineliminabile: un imprinting, un modo strutturale e profondo del pensiero e delle azioni. Che riemerge ogni volta che c’è da affrontare una nomina, un congresso, un’elezione importante…
“Del modo tenuto…”
Per la verità, Machiavelli non meriterebbe di essere affiancato, nella vulgata, a questo tipo di politica di pura manovra. Almeno, non il Machiavelli del Principe o dei Discorsi su Tito Livio. Forse, tuttavia, un suo scritto minore può davvero aiutarci, più di tante parole, a capire questo imprinting della politica italiana.
“Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Paolo e il duca di Gravina Orsini”: sotto questo titolo un po’ truce e tipicamente rinascimentale si cela un piccolo capolavoro, in cui l’ex segretario della Repubblica Fiorentina descrive, con lucida oggettività, la mentalità della dissimulazione e dell’accordo che, per gran parte del Medio Evo e dell’età barocca, ha impregnato di sé le classi dirigenti italiane e i loro mille feudi e staterelli.
Feudi che, a volte, pur nel grande corpo più che secolare dello Stato unitario italiano, sembra ancora di intravedere: sia che si parli di partiti, di correnti, di gruppi parlamentari, di RAI, di aziende a partecipazione pubblica, di dipartimenti universitari e via dicendo.
Ora, non ci interessa qui entrare nei dettagli storici del Cinquecento. Ci basta ricordare come il piccolo scritto di Machiavelli illustri, appunto, “il modo tenuto” dal Duca Valentino (il famoso Cesare Borgia, figlio illegittimo di papa Alessandro VI) per liberarsi di alcuni insidiosi avversari politici. Un “modo” caratterizzato dall’accordo pubblico (con la Francia) e segreto (con la Repubblica Fiorentina); dalla dissimulazione (un invito a pacificarsi rivolto ai nemici Orsini, ordito con paziente e geniale falsità); e – infine – da una vendetta cinica, durante un invito a cena, che culmina con l’eliminazione fisica (oggi basterebbe quella politica) dei propri oppositori. Un discorso sul “modo”, cioè sul metodo, dell’azione politica, che forse non è così inattuale come potrebbe sembrare. E che l’importante appuntamento del Quirinale potrebbe rievocare.
Un parallelo davvero avventato?
Fare paralleli tra storia e contemporaneità politica è sempre avventato. Specie quando di mezzo ci sono fatti così gravi come quelli narrati dal Machiavelli. La storia, del resto, non si ripete mai davvero, e non è affatto maestra di vita. Tuttavia, basterebbe guardare cosa è avvenuto nel 2013, quando scadeva il primo mandato di Napolitano, per renderci conto che un certo “machiavellismo” deteriore è un rischio non lontano per la nostra politica, quando si presenta a questi appuntamenti decisivi.
Ci si aspetterebbe infatti che, di fronte alla scelta di una nuova presidenza settennale, si cerchi di capire che uomo scegliere in funzione della sua visione del Paese, delle istituzioni democratiche, della Costituzione che è chiamato quotidianamente a incarnare e a difendere. Che si alimenti un dibattito di tono “elevato” attorno alla elezione della più alta carica del Paese. Ma, oggettivamente, a poco più di un mese dall’avvio delle danze per la nuova elezione, di questo tipo di dibattito non c’è traccia. Esattamente come in passato.
Si discute quasi solo di nomi. I nomi che vengono analizzati soprattutto con riferimento alle loro amicizie, alla loro storia, a chi li voterebbe e chi no. Una questione di schieramenti e di accordi sulla persona, insomma, più che di visioni del Paese.
Esattamente come già successo nel 2013, quando – lo ricordiamo bene – l’intero sistema politico-istituzionale si lasciò andare ad accordi e accordicchi poi prontamente violati, a dissimulazioni, a cordate che portarono, nel breve volgere di poche giornate, a bruciare i nomi di stimatissimi candidati come Stefano Rodotà, Franco Marini, Giuliano Amato. Fino alla disastrosa vicenda dei 101 “franchi tiratori” che impallinarono il nome di Romano Prodi.
Provocando uno sconquasso nel sistema politico (con le immediate dimissioni di presidente e segretario del PD, Bindi e Bersani) cui Napolitano dovette mettere una pezza dando la disponibilità, a termine, sulla riproposizione del proprio nome, per un secondo mandato. Cosa mai avvenuta nella storia della Repubblica, e non certo raccomandabile.
Anche nel 2015, due anni dopo, quando Napolitano – come promesso e preannunciato – si dimise, la scena quirinalizia non fu priva di “machiavelli”, se è vero che, come molti pensano, Matteo Renzi – allora dominus della politica italiana – ottenne il risultato della elezione di Matterella con larghissima e trasversale maggioranza, ma rompendo a sorpresa il “Patto del Nazareno” che fino ad allora lo aveva legato a Berlusconi, costringendo Alfano ad una scelta di campo pro-governo e soprattutto spaccando in due Forza Italia, mai più veramente ripresasi da quel passaggio a vuoto. Usando il Quirinale, insomma, per fare politica di schieramento.
Così, anche solo da questi due rapidi esempi del 2013 e del 2015, appare chiaro che spesso chi entra papa per la corsa al Quirinale, ne esce cardinale, per via dei tanti livelli di accordi e dei tanti obiettivi trasversali che si stratificano, nella migliore tradizione borgiana. E appare pure chiaro che nelle elezioni del Presidente della Repubblica si sono spesso rotti patti e schieramenti, bruciate amicizie, o creati nuovi assetti ed equilibri politici, destinati, per qualche anno, a reggere tatticamente le sorti del Paese.
Dal metodo al risultato
Più che sul “merito” delle proposte in campo, dei nomi, degli schieramenti quirinalizi, stiamo dunque riflettendo, in questa sede, sul “modo”, sul “metodo”. Quello emerso in tante elezioni presidenziali, così come in tanti altri “passaggi stretti” della storia del nostro Paese. Il metodo “machiavellico” dell’accordo e della dissimulazione, volta non solo ad ottenere il miglior presidente per sé, ma lasciare anche qualche avversario col cerino in mano, o meglio ancora seriamente bruciato.
Non sappiamo se anche questa volta andrà così. Ma la probabilità è alta. Di certo, tra un paio di mesi, saremo qui a valutare vincitori e vinti della “campagna” per il Quirinale; a commentare rafforzamenti e disgregazioni di fronti, di assi politici. Il tutto, in vista delle tattiche di avvicinamento alle prossime elezioni parlamentari, attese, al più tardi, tra poco più di un anno.
Sarà già una gran cosa se, da questo “metodo” borgiano, uscirà un nome di qualità e di garanzia, unanimemente riconosciuto e stimato, come è stato – alla fine – per Mattarella. Ma il rischio che un po’ del fango del metodo feudale resti appiccicato alle gambe del futuro presidente, limitandone forza e credibilità, almeno per qualche tempo, è sempre alto.
Il compito di realtà: la vera lezione di Machiavelli
Eppure, ci sarebbe ben altra lezione che si potrebbe e si dovrebbe portare a casa dal pensiero di Machiavelli, in occasioni come queste. E dal pensiero politico del ’500 italiano, in generale, da Donato Giannotti a Francesco Guicciardini.
La lezione potrebbe essere quella del “realismo”: lezione da intendersi non come cinica assenza di ideali, ma come vera attenzione allo stato effettivo del Paese. Come “compito di realtà”, a cui tutte le forze politiche sarebbero tenute e chiamate, di fronte alla dura verità italiana. Che è quella di un indebitamento sempre più grande, di una pubblica amministrazione antiquata e spesso inefficiente, inaffidabile persino per spendere (bene) i soldi che ci sono, con una incapacità a investire in cultura, scienza, giovani generazioni, che rende preoccupante sotto tanti aspetti il nostro futuro.
Di fronte a questo quadro reale, tutti discutono il “metodo”, non il merito. Quello solito, del mettersi al tavolo della cena, dell’accordo sul nome, che può essere il metodo giusto solo se – alle spalle e dentro – ha anche una visione condivisa del Paese, un progetto, un’idea a sostanziare l’accordo. Altrimenti, scade solo nel tatticismo del Duca Valentino, in una questione di nomi e maggioranze, di vincitori e vinti, incapace di generare futuro.
Sarebbe ben meglio, allora, dedicare tutto il nostro senso di responsabilità non solo a scegliere un nome degno per il Colle – cosa non da poco, ci mancherebbe –, ma a condividere la diagnosi sullo stato preoccupante del Paese, al di là della “ripresina” del momento. Non soffermarci solo sul “dover essere” etico e morale del futuro inquilino del Quirinale, ma sull’asse politico che da questa elezione potrebbe nascere, superando anche l’attuale assetto in due schieramenti dove – ormai è evidente – Forza Italia non ha più nulla a che vedere con la Meloni, e la sinistra autenticamente riformista si disperde nel populismo assistenzialistico.
Servirebbe in questa occasione una classe politica – almeno una parte, trasversale ai legittimi diversi schieramenti – in grado di accordarsi attorno ad un compito storico: quello di tenere il Paese al passo di un mondo che cambia e di immani sfide globali, da quelle tecnologiche a quelle ambientali.
Sarebbe auspicabile, senza pretendere le certezze umanistiche rinascimentali, che la nostra classe dirigente esprimesse ancora l’ambizione – nelle proprie scelte politiche fondamentali – che l’essere umano possa ancora indirizzare e governare la realtà. Scegliendo gli uomini-chiave del sistema nazionale in funzione di questa ambizione, di un disegno. Ma forse qui siamo noi ad abbandonare il “compito di realtà” e il realismo politico dei maestri rinascimentali.
Speriamo, dunque, che a guidare i pensieri nostri e dei nostri leaders politici sia il migliore Machiavelli, quello del sano realismo sui bisogni del Bel Paese, e non solo il tatticismo, cinico e in ultima istanza sterile, del Duca Valentino.
Analisi giusta. Mi auguro che coloro che avranno questa possibilità di discernere facciano la scelta del bene comune, del sano realismo.
Saluti
Grazie per questa lucida analisi. Purtroppo, nel conflitto fra sano realismo e interesse particolare, è quest’ultimo spesso a prevalere. Forse, per uscirne, solo una seria ed organica riforma istituzionale potrebbe determinare una situazione meno precaria, e più capace di guardare al futuro.