Sono cresciuto in un quartiere cattolico molto irlandese a Brooklyn negli anni ’50. Eravamo quasi tutti della classe operaia, discendenti di terza o quarta generazione di immigrati irlandesi americani. Eravamo profondamente sospettosi verso il Partito Democratico e lo vedevamo come l’élite. Pensavamo che ci avessero venduto e abbandonato.
Nel 1960, anche se l’80% dei cattolici negli Stati Uniti votò per John F. Kennedy come presidente, nessuno nel mio quartiere lo fece. Abbiamo votato per Nixon, non perché Kennedy fosse cattolico, ma perché era un democratico. Allo stesso modo, anche se avevo solo 9 anni, ricordo distintamente il giorno in cui morì Eleanor Roosevelt nel 1962. Anche se il New York Times scrisse che era “quasi universalmente ammirata”, nel mio quartiere fu così vilipesa che festeggiammo con i nostri vicini la sua morte.
Sono sicuro che fu derisa per il suo sostegno attivo al movimento dei diritti civili a favore degli afroamericani, ma noi eravamo contro di lei non perché ci considerassimo razzisti (non per questo, anche se senza dubbio lo eravamo), ma soprattutto perché pensavamo che appartenesse all’élite. Sentivamo che lei, più interessata agli afroamericani che a noi, accoglieva loro nella sua gerarchia di valori ma non accoglieva noi.
Nel 1964, i miei genitori e i loro vicini votarono tutti per Barry Goldwater come presidente. Anche se ha subito probabilmente la più grande sconfitta presidenziale di sempre nel XX secolo – prendendo solo il 36% dei voti e vincendo unicamente in sei dei cinquanta stati – nessuno nel nostro quartiere ha pensato che ci fossimo sbagliati nella nostra scelta. E infatti, la campagna di Goldwater ha creato la via maestra per eleggere Donald Trump nel 2016. Come ha notato il Washington Post nel necrologio di Goldwater nel 1998, egli ha portato via il Partito Repubblicano all’élite del nord-est e ha aperto la strada a Ronald Reagan per diventare il presidente populista nel 1981. I trionfi di Reagan negli anni ’80 hanno poi portato a Trump nel 2016-2020.
Perché abbiamo votato ed ci siamo fatti prendere da qualcosa di contrario ai nostri interessi? A causa del nostro senso di alienazione da quella che percepivamo essere un’élite.
Come possono le democrazie contemporanee affrontare il nuovo populismo e rispondere alla sua sfida? Devono farlo attraverso una più chiara e migliore inclusione delle masse populiste che si vedono alienate da coloro che considerano l’élite e che vogliono rimuovere dalla leadership. La cosiddetta élite alla guida di queste democrazie ha una particolare responsabilità nel rivolgersi alle masse populiste e nel ripristinare un senso di fiducia pubblica che è stato sempre più perso.
Cinque soggetti agenti del nuovo populismo
Riconosco il mio contesto sociale, cresciuto a Brooklyn, perché quando discutiamo di populismo dobbiamo identificare di quali particolari manifestazioni di populismo stiamo parlando. Preferirei discutere queste manifestazioni attraverso il linguaggio dell’azione rappresentativa.
Credo che ci siano all’incirca cinque diversi gruppi di agenti coinvolti nel nuovo populismo; e che ognuno di essi abbia scopi diversi. I cinque gruppi sono: le masse populiste, i leader populisti, i ricchi sostenitori populisti, i partiti politici (e altri leader culturali e sociali), la “élite” rigettata composta dai leader politici democratici neoliberali.
È mia convinzione che il quinto gruppo, ossia quelle che vengono percepite come le élite delle democrazie contemporanee, abbia bisogno di ripristinare la fiducia sociale coinvolgendo direttamente le masse populiste. Questo non sarà facile, perché il disprezzo delle masse populiste è radicato nel risentimento per come esse vengono percepite dalle élite stesse.
Il populismo è stato classicamente definito come un’ideologia che, nelle parole del politologo Cas Mudde, “ritiene che la società sia in definitiva separata in due gruppi omogenei e antagonisti, ‘il popolo puro’ contro ‘l’élite corrotta’, e che sostiene che la politica dovrebbe essere un’espressione della volontà generale del popolo”. Ma io credo che non ci siano due gruppi ma cinque; e come altri, non sono sicuro che sia giusto chiamare il populismo un’ideologia. Preferisco di gran lunga discutere i diversi modi in cui inquadra il discorso.
Le masse populiste
Quando parlo del quartiere populista di Brooklyn in cui sono cresciuto, non parlo con orgoglio o in maniera giustificativa del mio passato e di tutti i suoi evidenti pregiudizi razzisti, nativisti e misogini. Piuttosto, cerco di trasmettere l’insularità, il tribalismo e la mentalità risentita che erano talmente impliciti nella cultura in cui sono cresciuto, una sorta di innocenza morale per cui non pensavamo a noi stessi come persone prevenute e con dei pregiudizi. Piuttosto, pensavamo all’élite come un gruppo di parte nel loro superiore disprezzo verso di noi.
Ci consideravamo abbandonati dal Partito Democratico; i suoi membri d’élite non erano interessati a noi. Se Hillary Clinton ci avesse incontrato nei nostri brindisi alla memoria della defunta signora Roosevelt nel 1962, ci avrebbe chiamato come ha chiamato altri populisti nella sua campagna per la presidenza del 2016: “i deplorabili”.
Il commento della Clinton sui “deplorabili” è stato ottuso a livello politico. Quando le élite rispondono ai populisti con provocazioni del genere, non fanno altro che erodere ulteriormente la fiducia pubblica da cui i populisti si sentono estranei. Di conseguenza, Clinton è diventata più vilipesa di chiunque altro agli occhi dell’America populista.
I populisti di oggi si sono formati da tempo. Come i populisti contemporanei, noi della Brooklyn degli anni ’60 rifiutavamo le valutazioni degli altri su di noi. Mentre gli altri ci consideravano razzisti, arretrati, esclusivisti o i non ancora nominati deplorabili, noi pensavamo che ci chiamavano così semplicemente per giustificare il loro disprezzo per noi. Sono loro che ci hanno abbandonato, non noi. Come populisti, la nostra rabbia non era per l’economia in sé, ma piuttosto per come l’élite ci escludeva socialmente. Li volevamo fuori dagli incarichi di governo a causa della loro aria di superiorità.
Il risentimento governa le masse populiste. Infatti, nella letteratura sul populismo, il linguaggio del risentimento emerge particolarmente quando si parla di gruppi alienati. Quella letteratura è uscita a fiotti dopo che Foreign Policy nel 2019 ha parlato di una “epidemia di risentimento”. Da allora, molti scrittori hanno parlato del vizio specifico del risentimento e della sua funzione all’interno di questa comunità di attori.
Il leader populista
Il sociologo Bart Bonikowski ha completamente ragione quando si riferisce al populismo come una “cornice discorsiva”. Egli afferma che “il framing è la pratica di presentare una questione da una prospettiva particolare al fine di massimizzare la sua risonanza rispetto a un determinato pubblico”.
Qui dobbiamo distinguere il leader populista dalle masse populiste. Il leader populista attinge e articola i motivi del risentimento dei suoi elettori, prima di tutto presentandosi come anch’egli rifiutato o disprezzato dall’élite. Anche se il leader non appartiene alla massa populista, lui o lei dà voce ai loro lamenti e alle loro grida di riconoscimento.
In effetti, Bonikowski suggerisce che più a lungo i leader populisti rimangono in carica, meno inclini sono a invocare il lamento dei populisti, perché hanno stabilito la cornice per la loro stessa ascesa, piuttosto che i bisogni di incorporazione delle masse.
È importante apprezzare, tuttavia, che indipendentemente da quanto opportunista sia un leader popolare, è il suo ruolo (e non il ruolo della massa populista stessa) quello di articolare una comprensione della situazione politica che sia accettata dalle masse populiste. Il leader attinge a un risentimento non articolato e gli dà voce, identificando l’élite come la fonte del risentimento. Reagan e Trump lo hanno fatto entrambi negli Stati Uniti. I populisti della classe operaia non erano i leader dei loro stessi movimenti.
Penso che le élite farebbero bene a guardare simpateticamente la retorica del leader populista – non per convalidare l’ego opportunistico di tali leader o la loro agenda, ma piuttosto per capire perché il leader populista è in grado di connettersi così bene socialmente con una popolazione che sta vivendo l’alienazione.
L’élite deve chiedersi, per esempio, come Trump si sia connesso e abbia acceso le passioni di così tante persone che prima non erano in grado di articolare quelle stesse passioni. L’élite ha bisogno di studiare la risonanza retorica che il leader populista può ottenere con un pubblico, che essa invece così spesso respinge. L’incapacità dell’élite di riconoscere questo talento del leader populista non si trova solo negli Stati Uniti. Si può vedere in numerose situazioni politiche e sociali in tutto il mondo. Il successo di qualsiasi leader populista è un’accusa all’élite per la sua negligenza verso coloro che si sentono alienati ed esclusi.
I ricchi
Il terzo agente del nuovo populismo sono i ricchi. In un saggio molto provocatorio, Come i miliardari hanno imparato ad amare il populismo, Amy Chua, professoressa di diritto della cattedra “John M. Duff” a Yale, nota che dopo la sua elezione, Trump “ha nominato il gabinetto più ricco della storia moderna”. Se altri leader populisti in tutto il mondo – Jair Bolsonaro in Brasile, Viktor Orbán in Ungheria, Rodrigo Duterte nelle Filippine – abbiano reso i ricchi alleati così parte integrante del loro discorso populista è questione aperta, ma negli Stati Uniti questa affiliazione è stata la chiave del successo dei leader populisti. Trump era e rimane – soprattutto su questioni come le tasse – grande amico dei molto ricchi.
La professoressa Chua aggiunge che affiliandosi al “popolo” – cioè alle masse populiste che sono state a lungo misconosciute – “Trump ha fatto un lavoro notevole, presentandosi come se fosse nella loro squadra, creando un legame tribale tra un miliardario famoso e gli elettori dei colletti blu”. Nonostante quanto marcatamente diverse possano essere le idee del signor Trump dalle concezioni tradizionali del sogno americano, per molti americani il suo successo monetario e politico è il sogno americano reso manifesto.
Inoltre, nota la professoressa Chua, “l’istinto tribale è tutta una questione di identificazione”. Per molti americani a basso reddito “essere anti-establishment non è lo stesso che essere anti-ricchi”. Questa è la chiave del nuovo populismo miliardario, e le sue radici sono profonde nella storia americana.
I miliardari che hanno aiutato Trump a montare un enorme forziere di guerra nella sua campagna per la rielezione possono spendere a livelli che vanno ben oltre quello che le masse populiste potrebbero mai permettersi. Trump non avrebbe potuto avere successo nel 2016 senza i ricchi, e li ha usati per creare un regime durante la sua presidenza che poteva permettersi di non rendere conto di nulla ai suoi stessi elettori.
Anche se i populisti che sono venuti prima di Trump, come Hugo Chávez in Venezuela, hanno preso di mira i ricchi nella loro ascesa al potere, abbiamo bisogno di sapere di più su altri che erano come Trump e hanno efficacemente portato i ricchi a bordo senza alienare la loro base politica.
Leader politici e sociali
Il quarto agente del nuovo populismo è l’aggregato di partiti politici e leader religiosi, sociali e culturali che usano il leader populista, e la massa populista del leader, per il proprio guadagno. A differenza delle masse populiste, che hanno sviluppato un discorso di risentimento per essere stati alienati, o del leader populista (generalmente nuovo sulla scena) che usa quel risentimento per i propri scopi politici, questo gruppo è composto da leader di istituzioni sociali e culturali vecchie e di lunga data.
In molti casi, queste istituzioni si sono dimostrate disposte a compromettere le loro identità di base al fine di trarre profitto dall’ondata populista. Si noti che la maggior parte dei leader del Partito Repubblicano, una volta chiamato il partito di Abramo Lincoln, è stata fin troppo silenziosa quando Trump ha tentato di lanciare un colpo di stato contro il nostro governo il 6 gennaio 2021. Si noti anche che i leader e settori significativi delle Chiese cristiane evangeliche e della Chiesa cattolica romana negli Stati Uniti hanno offerto un senso di legittimità civica a Trump durante la sua campagna e la sua presidenza, nonostante la palese disparità tra le loro convinzioni pubbliche, da un lato, e le politiche e il comportamento personale di Trump, dall’altro.
Questo gruppo di agenti danneggia il corpo politico e la fiducia sociale necessaria alla società, compromettendo le istituzioni culturali e sociali nella loro relazione parassitaria con il leader populista. Molto tempo dopo che il leader populista ha perso il potere, gli effetti del compromesso di questi leader sicofanti devono ancora essere riparati attraverso il processo di ripristino della fiducia sociale. Se queste istituzioni sociali devono sopravvivere nel futuro, alla fine dovranno ripudiare le azioni dei loro attuali leader che hanno compromesso la loro identità di missione prestando il loro sostegno culturale e la loro legittimazione momentanea al leader populista.
L’élite di governo
Mentre gli altri quattro agenti del nuovo populismo sopra menzionati usano i loro discorsi per rimuovere o rovesciare la legittimità dell’élite nelle democrazie liberali, le élite stesse non sono sempre riconosciute come agenti nelle questioni populiste. Ma la negligenza delle élite – e talvolta i loro effettivi tentativi di delegittimare ulteriormente i populisti – contribuiscono alla legittimità di qualsiasi movimento populista. Per questo motivo, insisto che anche loro sono degli agenti nel movimento populista.
Le nostre élite sono in parte responsabili del non riconoscimento originario di quello che è emerso come movimento populista. Questo non significa che coloro che appartengono alle masse populiste siano veramente le masse abbandonate. Anzi, penso che spesso le masse populiste siano più simili alle élite che diverse da loro. Entrambe si considerano vittime ed entrambe si assolvono da qualsiasi torto morale. Senza dubbio, le élite hanno trascurato molti nella loro conservazione delle democrazie liberali e nel perpetuare le proprie gerarchie. Ma oltre a questa negligenza o disattenzione, la loro agenzia – il loro ruolo “causale” nello sviluppo delle rivendicazioni populiste – deve essere riconosciuto.
La filosofa e politologa Nancy Fraser ha giustamente rimproverato alle élite degli Stati Uniti il loro ruolo nell’emergere dei movimenti populisti. “Non mi dispiace che coloro che sono stati fregati dal neoliberalismo progressivo si stiano sollevando contro di esso” – ha detto in una recente intervista con Economic and Political Weekly. “In alcuni casi, naturalmente, la forma che la loro ribellione prende è problematica. Facendo degli immigrati, musulmani, neri, ebrei e altri un capro espiatorio, spesso sbagliano la vera causa dei loro problemi”. Allo stesso tempo, “è controproducente liquidarli semplicemente come irredimibili razzisti e islamofobici. Assumere questo all’inizio significa rinunciare a qualsiasi possibilità di convincerli da sinistra, sia al populismo di sinistra che al socialismo democratico… Il mio punto è che tutti questi elettori (e altri!) hanno rimostranze legittime contro il neoliberalismo progressista”.
In particolare, il professor Fraser critica la gerarchia sociale che le élite spesso sposano, notando che “non hanno nemmeno la minima idea di una trasformazione strutturale o di un’economia politica alternativa. Lungi dal cercare di abolire la gerarchia sociale, tutta la loro mentalità è volta a far entrare più donne, gay e persone di colore nei suoi ranghi più alti. Certamente, negli Stati Uniti ma anche altrove, la sinistra è stata colonizzata dal liberalismo”.
Ricostruire la fiducia sociale
La vera questione nel nuovo populismo non è l’agenzia dei leader populisti, o quella dei ricchi o dei finanziatori parassitari di tali leader, la maggior parte dei quali non ha alcun interesse reale nel bene comune o in qualsiasi nozione di equità. Piuttosto, i governanti elitari delle nostre democrazie devono riconciliarsi con le masse populiste lavorando per eliminare le gerarchie sociali che continuano a sviluppare. Credo anche che debbano impegnarsi direttamente con le masse populiste, confrontando le loro narrazioni di risentimento con impegni costruttivi, in modo che insieme i due gruppi possano riparare la fiducia sociale nelle nostre istituzioni che è stata così drammaticamente distrutta. Ma la fiducia sociale non può essere raggiunta senza elaborare i risentimenti di lunga data di quelle masse populiste che si percepiscono come i deplorabili da parte dell’élite.
Ci possono essere cinque agenti coinvolti nel nuovo populismo, ma quelli che mostrano costantemente di essere realmente interessati al bene del governo e al bene comune sono le masse populiste e le élite di governo. Entrambi questi agenti devono impegnarsi direttamente l’uno con l’altro eliminando le gerarchie sociali. Facendo questo, credo che anche la questione del razzismo o della xenofobia delle masse populiste possa essere affrontata. Incorporandosi, le masse populiste possono riconoscere meglio il danno che l’alienazione provoca. Perché in effetti, il lamento contro l’alienazione è il grido sia dei populisti che delle minoranze razziali ed etniche.
Nel frattempo, il resto di noi – non importa a quale gruppo apparteniamo – deve contribuire a promuovere questo impegno.
- Pubblicato sulla rivista dei gesuiti statunitensi America (nostra traduzione dall’inglese).