Dopo la Conferenza Nazionale per la Salute Mentale dello scorso giugno ha preso avvio un dibattito pubblico sullo stato dei Servizi in Italia: problemi, difficoltà, possibili vie di uscita.
In settembre Gianni Tognoni, fra i massimi esperti di salute pubblica – oggi segretario del Tribunale permanente dei popoli – e Caterina Corbascio, direttrice del Dipartimento di salute mentale di Asti, hanno pubblicato sul numero 240 di «Altreconomia» il Manifesto per una cura universale della ‘salute mentale’, una critica severa della psichiatria biologica, del Piano Nazionale di Resistenza e Resilienza e dell’aziendalismo in sanità.
Le risorse
Vi si afferma, tra tanto altro, che “al di là di tutte le conoscenze preziose, necessarie, delle scienze biologiche, la storia, il destino, le strategie di ‘cura’ della psichiatria possono essere efficaci solo se si traducono in processi di ‘presa in carico’ che passino per la stretta complementarietà di competenze tecniche e assistenziali (medici, infermieri) con i contesti di vita (famiglia, lavoro, relazioni umane) di coloro che rientrano nell’ambito della cura della ‘salute mentale’, come soggetti non semplicemente destinatari dei diritti di assistenza, anche se questi non possono essere ‘tempificati’ e tradotti in costi standardizzati con criteri che prescindono dalle storie dei singoli”.
Di qui il limite rilevato nelle politiche del PNRR che individua diritti e interventi, ma li dissocia dalle risorse, non andando a definire “attori, responsabilità, risultati attesi per decisioni che riguardano realtà eterogenee e complesse come quelle incluse nella salute mentale” nelle quali “quanto più i diritti di autonomia e di dignità della vita sono a rischio o violati o assenti, tanto più devono avere la priorità dell’attenzione, con interventi mirati”; poiché la vita delle persone va presa sul serio, resa “visibile nella variabilità dei bisogni, dei risultati da produrre, dei bisogni senza risposte da adottare”.
Il Manifesto per una cura universale della ‘salute mentale’ si conclude con indicazioni per realizzare quella che viene definita una “nuova epidemiologia costituzionale”, “abitata e raccontata dai diritti dovuti, garantiti, oppure violati, negati, alla ricerca delle cause, della evitabilità delle violazioni e di strategie di cura, da condividere con la variabilità necessaria e la creatività possibile con le persone che sono soggetti – attenzione! il peso costituzionale di questo termine esclude positivamente una sua traduzione in stakeholders, o simili – di un cammino: un percorso da rendicontare attraverso infinite e ben mirate narrazioni che abbiano l’affidabilità, la rilevanza, la durata di risultati che documentano passi in avanti di cultura e di dignità. E non ragionieristica, perciò violenta, puntualità di distribuzione di fondi che, come fa il PNRR, ‘conta’ le prestazioni ed esclude le vite”.
Salute mentale e democrazia
Il 4 dicembre scorso, a Napoli, un altro Manifesto per la salute mentale è stato presentato e sottoscritto da Angelo Barbato (Istituto Mario Negri di Milano), Antonello D’Elia (Presidente di Psichiatria democratica), Pier Luigi Politi (Professore ordinario di Psichiatria a Pavia), Fabrizio Starace (Presidente Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica) e Sarantis Thanopulos (Presidente Società Psicoanalitica italiana) per una “valorizzazione e difesa della democrazia nel lavoro di cura della Salute mentale”.
L’assunto di base è che il tema di un’assistenza psichiatrica che si ispiri alle culture della salute mentale non è una semplice ‘questione medica’, bensì piuttosto una questione democratica che ha a che fare col rispetto della dignità del cittadino e con i principi della Costituzione repubblicana.
È lanciato dunque un grido di allarme per la crisi profonda in cui versano i Servizi di salute mentale in Italia, impoveriti non solo nelle risorse e nel numero degli addetti, ma anche in assetti organizzativi sempre più ambulatoriali e caratterizzati da culture professionali che sono andate riducendosi ai solo approcci biologistici e clinico-farmacologici, senza la dovuta considerazione del peso e del senso della sofferenza delle esistenze.
Tale situazione è frutto della progressiva, continua, dissociazione, già a partire dai corsi universitari, dai saperi di discipline quali la psicoanalisi, la psicologia clinica, la pratica psicoterapeutica, la fenomenologia, la psichiatria sociale e relazionale, l’antropologia medica, ossia dai saperi animatori e ispiratori del grande lavoro collettivo che ha consentito la chiusura dei manicomi pubblici, l’affermazione di servizi radicati nei territori, la promozione della dignità e dei diritti della persona affetta da sofferenza mentale.
L’organizzazione che ha sostenuto le pratiche della riforma ha visto protagoniste squadre multiprofessionali che hanno tenuto al centro la persona, la sua cultura e le sue relazioni affettive, famigliari e sociali, valorizzato le risorse umane locali e consentito l’abbandono della pratica violenta delle contenzioni chimiche e meccaniche.
Il documento afferma che curare è soprattutto un prendersi cura, relazionandosi personalmente con i pazienti che soffrono ed ha come fine l’affermazione della loro soggettività. Per questo i sottoscrittori del Manifesto non solo rifiutano, ma denunciano le teorie e le pratiche che riducono la persona alla sua biologia: un vero e proprio problema di umanità!