L’altro giorno la signora Giulia mi ha fermato in chiesa e mi ha dato una busta dicendo: «Ho ricevuto un’eredità inaspettata e ho pensato a lei, la prego di accettare questa piccola offerta». Altro che piccola! Tremila euro per una parrocchia non troppo agiata come la mia sono un dono che soccorre il bilancio sempre precario. Se non che, la signora Giulia aveva sbagliato l’intestazione dell’assegno, che al posto di essere versato alla parrocchia era intestato a me come persona fisica. Capita spesso in realtà: per la gente parroco e parrocchia sono la stessa cosa. Questo vale per offerte generose come quello della signora Giulia ma ancor più per i piccoli oboli che tante persone – spesso sono i poveri e gli anziani – consegnano direttamente nelle mani del parroco senza alcuna precisazione. Qualcuno specifica: «È per i suoi poveri, per l’oratorio» ecc; altri invece dicono: «Questo è proprio per lei e le sue necessità; l’offerta per la chiesa l’ho già fatta».
Nella maggior parte dei casi, il prete si trova a gestire soldi senza indicazioni stringenti e con un margine alto di discrezionalità.
E che dire delle volte in cui, per ministero, vengo chiamato per un servizio o l’altro e prima o poi spunta fuori una busta: per un matrimonio fuori parrocchia, per una giornata di ritiro, per una predicazione ecc. Ti dicono: «Per il suo disturbo»: ma quale disturbo? Certo, ci sono le “spese di viaggio”, ma forse dovrei ricordare a me stesso che a volte il disturbo lo creo io ai miei parrocchiani con la mia assenza: forse a loro andrebbe restituito il dovuto.
Il confine tra il personale e il pubblico rischia di rimanere sempre un poco indistinto. Quando diventa addirittura confuso, nascono guai seri.
Tutti ricordiamo le cronache di qualche anno fa quando un cardinale di una città importante si trovò suo malgrado coinvolto in accuse di mafia e camorra a causa di denaro trovato nel suo conto personale. Il problema era che non esisteva una distinzione tra il suo conto, quello dei suoi familiari e quello della diocesi. Questa sovrapposizione è forse più diffusa di quanto crediamo. Certo, oggi è normale che un prete abbia il suo conto che non coincide con quello della parrocchia. Ma le “entrate” a volte oscillano dall’uno all’altro in una zona grigia che rischia di non avere confini. L’offerta della signora Giulia mi restituisce ad alcune attenzioni e ad alcuni criteri che sento di non dover trascurare.
Anzitutto, mi chiede la trasparenza del rendere conto dei soldi che passano dalle mie mani. Non è solo un criterio di buona amministrazione e di ordine pratico, ma più a fondo di libertà e di onestà. Non prendo soldi e non spendo soldi dalla cassa della parrocchia senza che qualcuno lo sappia. Questo significa che ogni volta giustifico un’entrata destinandola con precisione (le offerte per i sacramenti, quelle per la carità, quelle per opere straordinarie di manutenzione o quelle per le missioni ecc.), sempre tenendo conto che i sacramenti non si pagano. Su questo ho fatto le mie buone battaglie per convincere a non chiedere tariffe per le messe dei defunti, per i matrimoni, e men che meno per i funerali. Dall’altra parte, la fiducia e la libertà che gli amministratori della parrocchia mi danno nel prendere e spendere soldi, esige che ogni volta io sia rigoroso nel render conto di ogni cosa: dallo scontrino fiscale del ferramenta alla fattura per un acquisto più rilevante.
Rimane la questione di “cosa trattenere per me”. Come scrivevo poche righe sopra, capita non di rado che, a Natale o a Pasqua, al compleanno o all’onomastico, qualche parrocchiano generoso mi allunghi una busta dicendo: «Questa è proprio per lei». Ogni volta mi sento in imbarazzo. Un prete in Italia riceve uno stipendio più che adeguato, e forse è tra le categorie più privilegiate (non paga affitto, non perde il lavoro, non ha famiglia da mantenere). Questo dovrebbe spingere ad una generosità maggiore, ad essere larghi nell’operare la carità, e questo margine di beni personali potrebbe offrire la possibilità di una liberalità nascosta.
Una parrocchia, in ogni caso, non potrà mai funzionare come un’azienda o una banca svizzera (ammesso che gli svizzeri siano sempre così trasparenti e precisi), dove tutto è rendicontato. Forse è inevitabile e necessario che rimanda un margine di anonimato. Non certo per eludere le tasse, o per non essere giusti nelle retribuzioni dei dipendenti o, peggio ancora, per approfittare di una gestione oscura o lacunosa. Anonimo, nel vangelo è l’obolo della vedova. A parte il Signore, nessuno la vede e i suoi due spiccioli finiranno nelle tasche di qualcuno che non la conosce e che lei stessa ignora. Così nelle parrocchie: molte offerte è bene che rimangano anonime per chi le dona. Alcune elargizioni un prete è bene che le faccia di nascosto e la destra non sappia ciò che fa la sinistra.
Garantire il margine di questo anonimato è possibile forse solo se si impara ad essere poveri.
Il Nuovo Testamento ci racconta della colletta promossa da Paolo per la chiesa di Gerusalemme. Sono le chiese più povere a contribuire e ad aderire; Paolo chiede di essere accompagnato nel viaggio al termine del quale consegnerà il frutto della generosità di molti. Un segno che dice la volontà dell’apostolo di non essere da solo in questo gesto. Da una parte, come una forma di sano controllo e, dall’altra, perché quel dono sia segno di una comunione più ampia e non l’opera di un singolo.
Ogni volta che mi dispongo ad offrire qualcosa, so che regalo ciò che non è mio, che ho ricevuto. Così come dispenso la grazia del Signore nei sacramenti, allo stesso modo mi dispongo a regalare i beni concreti necessari alla vita quotidiana che ricevo a mia volta dalle mani di altri.
don Giuseppe