Ha fatto discutere la decisione del Movimento 5 Stelle di chiedere ai candidati al Consiglio Comunale di Roma l’impegno di pagare una penale di 250.000 € in caso di posizioni in contrasto con le indicazioni del programma del movimento stesso. Garantire la compattezza delle rappresentanze nelle assemblee elettive è diventata impresa ardua. Lo sgretolamento delle contrapposizioni ideologiche e la proliferazione degli interessi hanno bloccato la produzione del… cemento che garantiva, da ogni parte, l’univocità dei comportamenti degli eletti. I muri ai quali tutti ci siamo appoggiati.
Penso al “centralismo democratico” del Pci, dove il partito – in quanto (presunto) detentore della coscienza collettiva della classe operaia – si faceva tutore di una ferrea disciplina. Penso pure alla Democrazia Cristiana, che chiedeva, con De Gasperi, il «rispetto della disciplina democratica», ossia l’osservanza delle direttive democraticamente adottate dai legittimi organi di partito.
Pur tra tante differenze c’era un tratto comune tra i due grandi poli politici. In entrambi, le norme di disciplina facevano capo ad un soggetto organizzato – il partito – che aveva fisionomia, strutture, procedure ben configurate e per lo più visibili. Viceversa oggi i contorni di questa «formazione sociale», il partito, si sono come nebulizzati. E pare sopravvivere solo la prerogativa di un comando riassunto nella figura del leader. Il destino pare essere quello del senato di Roma ai tempi dell’impero: pieno di pareri ma vuoto di poteri.
Anche in passato si adottavano misure per prevenire gli eccessi di divergenza. Ad esempio ai senatori della DC (de me fabula) si faceva firmare l’impegno a lasciare il Parlamento nel caso di uscita dal gruppo parlamentare. Ma c’erano modi e istanze molteplici, con procedimenti garantiti, neiquali il singolo parlamentare poteva manifestare il proprio dissenso. Ricordo che, trovandomi in disaccordo col mio gruppo, interpellai il saggio Fanfani: che mi sarebbe accaduto se avessi espresso voto contrario in aula? Si trattava della prima Guerra del Golfo, anni ’90. E il responso fu: «Se il gruppo non ha deciso in assemblea tu sei libero in coscienza». Il regolamento del gruppo stabiliva del resto che il dissenziente esponesse preventivamente le proprie ragioni al Direttivo del gruppo. Ma il suo diritto era riconosciuto.
Nel caso del Movimento 5 Stelle, viceversa, è difficile immaginare quale possa essere uno spazio di plausibile tutela del dissenso. Qui sembra dominare una semplice logica binaria: allineamento o espulsione. Ovvio quando si tratta di algoritmi, meno quando si entra nelle umane vicende, dove lo spazio tra il «si» e il «no» è sempre smisurato. Si è declassato a «portavoce» l’eletto, privato di ogni flessibilità argomentativa. Nella migliore delle ipotesi ha l’autonomia di ci cui godono gli ambasciatori rispetto al proprio governo. Il tutto aggravato dal fatto che gli stessi conduttori esterni, Grillo e Casaleggio, sono definiti “garanti” di una volontà impersonale che è presunta, più che desunta, da una “rete” impalpabile e incontrollabile, ancorché inconfutabile.
L’opinione pubblica è affascinata dai volumi dei voti esposti nei sondaggi; ma almeno un momento di lucidità andrebbe realizzato sulla questione suscitata dall’idea di mettere una multa sul dissenso. È la questione di una politica che fa a meno delle persone in nome di astrazioni ideologiche antiche anche se ammodernate tecnologicamente. Ne deriva un’incapacità a misurarsi con la mediazione politica e con le esigenze dall’amministrazione. Non è un caso che il Movimento di Grillo conosca le maggiori difficoltà proprio a livello locale, dove i progetti elettorali si scontrano spesso con le difficoltà operative. E non è neppure un caso che dopo quasi tre anni di esercizio parlamentare una parte notevole dell’energia “grillina” sia ancora dedicata ad operazioni di “pulizia” interna.
È ben vero che una verifica dei titoli delle altre forze politiche non è consolante, ma la posta in giuoco – la qualità democratica della politica – è così alta da non consentire astensioni. E siccome tutta l’impalcatura disciplinare del Movimento si regge sul ripristino del “vincolo di mandato” tra eletti ed elettori, giova precisare che l’abolizione di tale vincolo non è stata inventata dai Costituenti (art. 67) per una precauzione antifascista. Perciò è appropriato rifarsi ad un’epoca non sospetta, il 1774, quella di un «Discorso agli elettori di Bristol» di Lord Edmund Burke, il quale, appena eletto, così si rivolse ai propri elettori: «Il Parlamento non è un congresso di ambasciatori di opposti ed ostili interessi, che ciascuno deve tutelare come agente e avvocato; il Parlamento è un’assemblea deliberante di una nazione, con un solo interesse, quello dell’insieme, dove non dovrebbero essere di guida interessi e pregiudizi locali, ma il bene generale». A questo punto, però, il discorso non riguarda più soltanto i 5 Stelle ma i tanti “ambasciatori” di tante contrade (non solo geografiche) che popolano le nostre assemblee elettive.