Gabriele Boccaccini è specialista del giudaismo del Secondo Tempio e della letteratura enochica. Formatosi a Torino sotto la guida del prof. Sacchi, è docente dal 1992 presso la University of Michigan e, dal 2001, direttore dell’Enoch Seminar da lui fondato.
L’intento del suo libro è quello di inquadrare la personalità e il pensiero di Paolo all’interno del variegato mondo del giudaismo del Secondo Tempio, rigettando l’idea che egli sia un apostata dal giudaismo e che abbia disprezzato e abolito la Torah.
Paolo era ebreo e lo è rimasto per sempre, anche quando divenne discepolo di Gesù e apostolo dei gentili. Egli trasmigrò dal polo farisaico a quello apocalittico enochico, ma non cambiò religione e non uscì mai dalla sua identità ebraica.
Il suo incontro con Gesù risorto a Damasco non fu tanto una “conversione”, quanto una rivelazione e una vocazione profetica ad annunciare a tutti il vangelo della misericordia del messia Gesù. Paolo sentì come propria la vocazione ad annunciarlo in un modo particolare al mondo dei gentili.
Nei vari capitoli del suo percorso espositivo Boccaccini inquadra dapprima il Paolo ebreo e il Paolo cristiano nell’ambito del giudaismo del Secondo Tempio. Illustra quindi la posizione dei proseliti e dimostra come Paolo non si sia mai convertito. L’autore analizza le varie concezioni presenti nell’apocalittica ebraica e le varie idee circolanti sul messianismo (il messia come “Figlio di Davide”, “Figlio dell’uomo”, “Figlio di Aronnne” e “Melkisedek”). Giunge, infine, a descrivere Paolo come un ebreo apocalittico messianico.
Lo studioso passa quindi a indagare sul dono escatologico del perdono divino nel Messia Gesù e sulla cristologia divina di Paolo l’ebreo.
Dopo il capitolo “Giustificati per fede, giudicati secondo le opere”, l’autore illustra la figura di Paolo come apostolo delle pecore perdute tra le nazioni. Egli si rivela, in definitiva, non un profeta di sventura, ma un araldo della misericordia di Dio verso i peccatori.
Paolo e l’apocalittica enochica
Ciò di cui Paolo si convinse, a stretto contatto con la letteratura enochica e in particolar modo con i Libro delle Parabole (1En 37-71), era il fatto doloroso che il mondo intero fosse sotto il dominio del peccato. La letteratura enochica sosteneva l’origine cosmica del male e del peccato, che schiavizzava tutti gli uomini, anche se non per questo li rendeva tutti peccatori.
Di fronte al giudice al momento del giudizio finale secondo le opere, gli ebrei avevano la Torah che li poteva rendere giusti e i gentili avevano la coscienza che, in modo corrispondente, li poteva rendere giusti.
1En 50,2 affermava che, al momento del giudizio, ci sarebbero stati i giusti e gli ingiusti impenitenti.
Ma a questi due gruppi se ne aggiungeva un altro, composto da altri, che si pentivano e abbandonavano le opere delle loro mani, ottenendo in tal modo la salvezza. Paolo è certo del fatto che Dio misericordioso, e non solo giudice inflessibile, nell’invio del messia celeste apocalittico Gesù aveva anticipato sulla terra la possibilità di ottenere il perdono dei peccati passati tramite la giustificazione per fede. Questa non va identificata tout court con la salvezza futura. In mezzo ci sta la vita da condurre compiendo le opere buone, perché su queste verterà il giudizio finale per tutti gli uomini: ebrei, discepoli di Gesù, gentili.
Il punto fondamentale per Paolo è l’origine cosmica del peccato, che porta a essere preda delle passioni. La giustificazione si ha solo per fede e per la pura e assoluta grazia di Dio offerta in Gesù. Secondo la Lettera di Giacomo, invece, le passioni precedono e portano al peccato e perciò Giacomo invita ad accompagnare la giustificazione per fede con il pentimento, la conversione e le opere. Sono due visioni differenti ma che la tradizione cristiana cercò subito di armonizzare.
Per Paolo il peccato come potenza cosmica entrò nel mondo tramite il peccato del disobbediente figlio di Dio, Adamo. Esso può essere sconfitto non con sacrifici rituali ma solo dal nuovo Adamo, il Figlio di Dio obbediente che offrì la sua vita per la giustificazione degli uomini. Paolo si ispira all’idea apocalittica enochica dell’origine cosmica del peccato dovuta al peccato di disobbedienza degli angeli ribelli, per fondare la sua concezione dell’origine cosmica del male nel mondo.
In tutto il suo volume, Boccaccini invita a interpretare Paolo nell’ambito del suo tempo e del suo contesto culturale e religioso, senza piegarlo a interpretazioni successive.
Agostino e Lutero sono sostenitori dell’impossibilità ontologica per l’uomo di compiere il bene e identificano giustificazione e salvezza, ovvero l’atto anticipatorio del perdono divino con l’atto finale del giudizio divino.
Paolo non è non un predicatore di odio e di intolleranza né l’araldo di sventura della condanna universale degli uomini per la loro mancanza di fede in Gesù. Egli è, invece, l’annunciatore del perdono escatologico di Dio offerto da lui fin d’ora in Gesù a coloro che si aprono alla giustificazione gratuita accolta nella fede. Paolo è araldo della misericordia di Dio verso i peccatori (ebrei e gentili) ed è convinto che «tutti gli esseri umani (ebrei e gentili) sono “sotto il dominio del peccato” (Rom 3,9), non che tutti siano condannati. Sebbene limitato, il libero arbitrio umano non è stato distrutto dal peccato originale: nel giorno del giudizio Dio “renderà a ciascuno secondo le sue opere” (Rom 2,26 e passim)» (p. 222).
Un nuovo paradigma interpretativo
Secondo Boccaccini, la ricerca recente su Paolo ha fatto enormi passi in avanti, specie con l’opera di E.P. Sanders, Paul and Palestinian Judaism, del 1977. Egli «ha riscattato gli studi paolini dagli elementi antigiudaici più dispregiativi, in particolare smentendo che l’opposizione tra grazia e legge fosse l’inconciliabile linea di divisione tra cristianesimo ed ebraismo, perché patto e legge non sono nell’ebraismo mezzi di autogiustificazione ma anch’essi strumenti della grazia divina» (p. 222).
Boccaccini annota però anche che le posizioni di Sanders vanno aggiornate e riviste. «Paolo non ha presentato, come ha concluso Sanders, “un tipo di religiosità essenzialmente differente da ogni altro tipo rinvenibile nella letteratura giudaica palestinese”, né ha inteso escludere “che l’alleanza giudaica possa avere efficacia per la salvezza, negando così coscientemente la base del giudaismo”» (ivi).
Boccaccini sostiene che sono maturi i tempi per un nuovo paradigma interpretativo di Paolo, i cui elementi principali sono quelli che abbiamo citato sopra. Paolo rimase ebreo e inserito nel giudaismo del Secondo Tempio. Era convinto che Dio avesse chiamato tutti gli esseri umani alla giustizia, avendo rivelato loro la sua volontà (ciò che è buono e ciò che è male): agli ebrei secondo la Torah, ai gentili secondo la legge naturale scritta nella coscienza di ciascuno. Il giudizio sarà per tutti «secondo le opere di ciascuno» (Rm 2,1-11).
Con l’evento di Damasco, Paolo passò da un gruppo ebraico all’altro, ma sempre all’interno del giudaismo. Non cambiò il suo essere ebreo, ma il suo modo di esserlo: la sua comprensione del giudaismo.
Divenuto ebreo discepolo di Gesù, Paolo acquisì il senso dell’imminente venuta della fine e la fede in Gesù come Messia, ma anche la sua visione del mondo, cioè quella apocalittica descritta in 1En 50,2. Il male ha un’origine cosmica e gli uomini peccatori sono anche vittime del male e bisognosi di essere liberati dal dominio del peccato attraverso un intervento di grazia di Dio che alla fine dei tempi giustificherà coloro che «si pentono e abbandonano le opere delle loro mani» (1En 50,2).
Sulla “via di Damasco” Paolo non abbandonò il giudaismo, ma «scelse di divenire parte di quella ininterrotta catena di pensiero che dall’antica apocalittica del Libro dei Vigilanti conduce all’annuncio di misericordia del Libro delle Parabole, all’invito ai peccatori alla conversione nell’imminenza del giudizio di Giovanni Battista, fino alla buona notizia di Gesù come “il Figlio dell’uomo [che] ha l’autorità sulla terra di perdonare i peccati” (Mc 2,10; Mt 9,6; Lc 5,24)» (p. 224).
Nella sua misericordia, Dio ha controbilanciato la potenza del male sulla terra attraverso la missione del suo figlio obbediente, Gesù. «Paolo si aspettava che i peccatori (ebrei e gentili), giustificati da questo atto di grazia e purificati dai loro peccati passati, avrebbero riempito la loro vita di opere buone e, con l’aiuto di Dio, sarebbero rimasti “irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1,8), annoverati tra i giusti nel giudizio finale. Gesù, “il Figlio dell’uomo [che] ha sulla terra l’autorità di perdonare i peccati” (Mc 2,10; Mt 9,6; Lc 5,24), tornerà infatti presto come giudice finale […] per eseguire il giudizio finale “secondo le opere di ciascuno” (Rom 2,6), come il salvatore dei giusti (ebrei e gentili) e degli (ex) peccatori (ebrei e gentili) che, pentiti e giustificati per la loro fede, siano rimasti irreprensibili in Cristo. Solo gli impenitenti saranno condannati» (pp. 224-225).
Paolo non accettò l’idea che i gentili battezzati avessero uno status diverso o inferiore all’interno della Chiesa rispetto agli ebrei battezzati. Entrambi erano schiavi del peccato e perdonati per sola fede. Questo «non significa che Paolo abbia sostenuto l’abolizione della distinzione fra ebrei e gentili in questo mondo; al contrario, come nel caso delle distinzioni sociali e di genere, l’ha accettata come realtà inevitabile (forse anche provvidenziale) da mitigare nei suoi aspetti conflittuali, ma non da abolire fino a quando, con la nuova creazione del mondo a venire, tutte queste distinzioni sarebbero scomparse. Avendo ricevuto come ebreo il dono del perdono escatologico promesso da Gesù alle pecore perdute d’Israele e la liberazione dal “dominio del peccato” (Rom 3,9), Paolo decise di dedicare la sua vita alla ricerca delle pecore perdute tra le nazioni. Come apostolo delle genti, affermò di essere stato chiamato da Gesù specificamente per essere il messaggero di questa opportunità di giustificazione ai peccatori gentili, mentre altri apostoli si concentravano sui peccatori ebrei» (p. 225).
Paolo credeva che la giustificazione, quale dono escatologico di perdono da ricevere per sola fede, fosse indipendente dalla legge, ma secondo Boccaccini non l’intese mai come una via esclusiva di salvezza, poiché il giudizio universale sarà per tutti (battezzati e non battezzati) secondo le opere di ciascuno. Obbedire a qualunque legge era difficile per l’uomo schiavizzato dal dominio del peccato.
Paolo era un ebreo osservante della Torah ma credeva che il dono della giustificazione per fede fosse un dono escatologico di perdono offerto tramite Gesù il Messia indipendentemente dalla legge a tutti i peccatori (non solo ai gentili) nell’imminenza del giudizio finale.
Paolo non chiese mai agli ebrei di abbandonare la Torah. Paolo predicava ai gentili, ma lo stesso vangelo era annunciato agli ebrei e ai gentili: la buona notizia del perdono accordato ai peccatori. Paolo si concentrò nell’annuncio ai gentili, consapevole però che i malati includono ebrei e gentili allo stesso modo, anche se non tutti: i giusti (ebrei e gentili) non hanno bisogno del medico (Mc 2,17; Mt 9,12-13; Lc 5,31-32).
Paolo non attua alcuna esclusione, ma nel suo annuncio include tutti: ebrei, gentili, peccatori.
Inclusività
Boccaccini si augura che il suo volume possa far riscoprire l’enorme importanza dell’apocalittica giudaica per lo studio delle origini cristiane, in particolare quella espressa nel Libro delle parabole.
Boccaccini intende concorrere a rendere vivi i buoni rapporti tra cristiani ed ebrei. Paolo non era un supersessionista per cui la Chiesa sostituisce gli ebrei; non ha mai inteso la giustificazione per fede con un sostituto del giudizio secondo le opere di ciascuno o un sostituto della Torah. «Si aspettava che tutti coloro che erano stati giustificati e che ora vivevano in Cristo si sarebbero salvati perché i loro peccati passati erano stati perdonati e la loro vita, animata dallo Spirito, ora era piena di buone azioni […] la giustificazione per fede era un modo per ripristinare (non annullare) la responsabilità umana e riaffermare (non abolire) le alleanze di Dio, inclusa la Torah mosaica. La speranza – prosegue l’autore – è che la mia analisi possa aiutare alla riscoperta da parte ebraica di Paolo come voce importante del giudaismo del Secondo Tempio e da parte cristiana ad acquisire e sviluppare una visione più articolata del complesso rapporto tra giustificazione e salvezza, superando una volta per tutte la precomprensione tradizionale, a lungo condivisa da ebrei e cristiani, che vede in Paolo il nemico implacabile dell’ebraismo e della legge» (p. 228).
Una nuova comprensione di Paolo ha delle implicazioni anche sul rapporto tra cristiani e seguaci di altre religioni o non credenti. Scrive Boccaccini: «Affermare che tutti gli esseri umani devono credere in Cristo per essere salvati è un travisamento della predicazione di Paolo, poiché Dio è giusto e misericordioso e non fa preferenze di persone ma per tutti il giudizio finale sarà secondo le opere di ciascuno. Anche dire che gli ebrei hanno la Torah mentre i gentili hanno Cristo non rappresenta fedelmente la posizione di Paolo. Cristo non è né l’esclusiva via di salvezza offerta ai soli gentili accanto alla Torah data agli ebrei. Piuttosto, Cristo è la via della salvezza offerta specialmente ai peccatori (ebrei e gentili allo stesso modo), che “sotto il dominio del peccato” (Rom 3,9) non sono riusciti a vivere secondo la Torah e la legge naturale, che Dio nella sua grazia ha dato rispettivamente agli ebrei e ai gentili come vie efficaci di salvezza per i giusti» (p. 229).
La misericordia divina e le tre vie di salvezza
Boccaccini spera quindi, in definitiva, che la sua analisi “possa aiutare a riportare al centro della teologia paolina il tema della misericordia di Dio, l’inclusività – non l’esclusività – del suo messaggio, liberandolo dalle ricorrenti accuse di odio e di intolleranza, che mal si applicano al suo pensiero quanto appaiono invece appropriate a certe interpretazioni che di esse successivamente furono date. Dal punto di vista di Paolo, Cristo è un dono di Dio per i “molti” peccatori, perché tutti possano essere salvati. I giusti (ebrei e gentili) saranno salvati per grazia attraverso le loro buone azioni, perché anche la legge e i comandamenti sono un dono di Dio, creatore di tutti» (pp. 228-229).
L’autore ricorda che Paolo non era un agostiniano. Il peccato di Adamo non ha annullato il libero arbitrio, ma ha solo reso più ardua la via della giustizia. «Paolo predicava la buona notizia che, nell’imminenza della fine dei tempi, ai peccatori (ebrei e gentili) era offerta la straordinaria possibilità di pentirsi ed essere giustificati in Cristo dalla misericordia di Dio indipendentemente dalla giustizia di Dio. Ai peccatori (ebrei e gentili) veniva data una seconda possibilità: rinascere a nuova vita attraverso il perdono dei peccati passati e la liberazione dal “dominio del peccato” (Rom 3,9).
Paolo non era luterano: da ebreo rigettava ogni vanto di autogiustificazione e riteneva che la salvezza per ogni uomo e donna fosse sempre un dono di grazia di Dio. Ma non indicò mai nella fede in Cristo l’unica ed esclusiva via offerta da Dio, quando annunciò ai peccatori la giustificazione (cioè il perdono dei peccati passati) mediante la fede» (p. 229).
A questo punto Boccaccini conclude la sua fatica sciogliendo l’enigma del titolo del suo libro, che può apparire provocatorio per un pensiero tradizionale: «Paolo non predicava due percorsi separati per la salvezza (uno per gli ebrei, uno per i gentili) ma piuttosto tre: i giusti ebrei hanno la Torah; i giusti gentili hanno la loro coscienza; e i peccatori, le pecore perdute della casa d’Israele e tra le nazioni che sono cadute senza speranza sotto il dominio del peccato, hanno il Cristo al cui perdono potersi fiduciosamente affidarsi (ivi).
Il volume si conclude con una bibliografia (pp. 231-238), l’indice dei nomi (pp. 239-244) e dei testi citati (pp. 245-258).
Opera complessa, rivolta in prima battuta a studiosi già a conoscenza delle problematiche bibliche, giudaiche e paoline, ricca di spunti significativi, il volume di Boccaccini aiuta a inquadrare la persona e il pensiero di Paolo – e molti suoi punti difficili – all’interno del giudaismo del Secondo Tempio (dal quale l’Apostolo non è mai uscito) e in specie in rapporto alla letteratura apocalittica enochica. Il legame con questo particolare campo dell’apocalittica giudaica appare a Boccaccini come decisivo per elaborare un nuovo paradigma interpretativo di Paolo. Questo paradigma non è ancora conosciuto e accolto da tutti.
Il libro contribuisce inoltre a rigettare le idee errate su un presunto antigiudaismo di Paolo o su un suo pensiero intollerante e a proporre invece rapporti di armonia e di pace tra ebrei, cristiani e credenti di altre religioni o non credenti.
Affermare che tutti gli esseri umani devono credere in Cristo per essere salvati è un travisamento della predicazione di Paolo, poiché Dio è giusto e misericordioso e non fa preferenze di persone ma apre tutti il giudizio finale sarà secondo le opere di ciascuno.
- GABRIELE BOCCACCINI, Le tre vie di salvezza di Paolo l’ebreo. L’apostolo dei gentili nel giudaismo del I secolo (Piccola biblioteca teologica 141), Claudiana, Torino 2021, pp. 264, € 24,50, ISBN 9788868983048.