(Testo raccolto da Francesco Strazzari)
Il futuro appare aperto alla speranza
Il lungo e articolato documento siglato a Cuba da papa Francesco e dal patriarca di Mosca Kirill I ha suscitato da subito interpretazioni diverse e contrapposte. C’è chi vi ha visto una “road-map” politica, magari favorevole alle posizioni del Cremlino (ad es. Siria, Iraq), altri lo hanno interpretato come una sorta di “trattato” in vista di una riedita “Santa alleanza” per difendersi e per combattere i mali della società di oggi, o come il risultato delle pressioni di «poteri forti e nascosti» che vorrebbero piegare ai loro fini gli insegnamenti del Vangelo.
Papa Francesco, nel suo viaggio verso il Messico, consapevole di queste interpretazioni riduttive e non corrette, più di una volta vi è tornato sopra definendo il Documento, o Dichiarazione comune, come «una dichiarazione pastorale», anche quando affronta e parla «di secolarismo e di cose esplicite, della manipolazione biogenetica e di tutte queste cose».
Non a caso, ancora all’Aeroporto di Cuba, nelle sue brevi parole di commento, il papa ha rilevato come sia lui che Kirill abbiano parlato «tra fratelli… Io mi sono sentito davanti a un fratello, e anche lui mi ha detto lo stesso. Due vescovi che parlano della situazione delle loro Chiese, per prima cosa; e in secondo luogo, sulla situazione del mondo, delle guerre, guerre che adesso rischiano di non essere tanto “a pezzi”, ma che coinvolgono tutti (…)». A papa Francesco, con modalità forse più asciutte ma non meno significative, ha fatto eco il patriarca dichiarando che «Ora le due Chiese possono cooperare … difendendo i cristiani in tutto il mondo; lavorare congiuntamente perché non ci sia la guerra e la vita umana sia rispettata in tutto il mondo».
Si può ritenere che proprio questa manifestata e ripetuta preoccupazione pastorale rappresenti l’autentico filo rosso che unisce e collega i numerosi punti della Dichiarazione comune. Una presa di posizione che nasce dalle preoccupazioni di due pastori per le sorti dell’umanità di oggi e per il futuro del mondo, affinché questo “futuro” possa restare ancorato a principi certamente morali e religiosi, ma che vengono proposti e offerti all’attenzione e alla considerazione di tutti gli uomini di buona volontà affinché vi facciano ricorso, se ne servano abbondantemente e liberamente per non scoraggiarsi, per non perdersi d’animo davanti ai problemi e ai travagli profondi dei nostri giorni, coltivando la speranza che fondandosi tutti, a vario modo, sulla parola di Dio, sul suo messaggio di salvezza e di gioia si possa riscoprire la fiducia che tutti, indistintamente «siamo conservati (da Dio) in vista di qualcosa di meglio per noi» (liberamente da Eb 11,40).
Questa Dichiarazione comune, al pari delle epistole, delle Lettere cattoliche di Paolo, di Pietro o di Giovanni non rifuggono dall’entrare “in medias res”, si direbbe “di sporcarsi le mani” con i problemi e le questioni concrete che hanno pesato, e in parte tuttora pesano, nei rapporti tra le due Chiese, e tra i loro fedeli, avendo provocato contrapposizione ed inimicizia a scapito dell’unità, la cui perdita viene sinceramente e dolorosamente deplorata ed il cui ripristino è caldamente auspicato e invocato dal Signore (nn. 5-6).
Perché si è scelta Cuba, o meglio un aeroporto, una specie di “non luogo” come da alcuni è stato rilevato? Una risposta la possiamo verosimilmente rinvenire al punto n. 3 del Documento: «Incontrandoci lontano dalle antiche contese del “Vecchio Mondo”, sentiamo con particolare forza la necessità di un lavoro comune tra cattolici e ortodossi, chiamati con dolcezza e rispetto, a rendere conto al mondo della speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15)».
Cioè, il potersi incontrare per discutere pure di problemi bilaterali (proselitismo, greco-cattolici etc.) domandava, per sé, un “orizzonte altro” non già inficiato od ipotecato non tanto dalle questioni sul tappeto, quanto dal loro trascinarsi invano per decenni, se non per secoli, da tentativi falliti volti a risolverle.
E questo “orizzonte altro”, o inedito, ha permesso ai due capi delle Chiese di non evitare detti problemi, ma di discuterli in una prospettiva nuova, aperta cioè a esiti fino a ieri non scontati e scaturiti da un mutuo sguardo di benevolenza ed amicizia.
Tali problematiche sono state affrontate, ma ciò ha permesso che il Documento desse maggiore spazio, non solo dal punto di vista materiale, ad aspetti più dolorosi e tragici che ortodossi e cattolici si trovano a dover affrontare insieme: la triste e crudele sorte riservata a migliaia di cristiani, e di fedeli di altre religioni, in Medio Oriente, in Siria, in Iraq e in altre parti della terra dove il terrorismo fa terra bruciata, dove un “secolarismo tante volte assai aggressivo”, dove una globalizzazione sfrenata a scapito dei poveri, tentano di mettere ai margini e di eliminare pure fisicamente i cristiani,i nuovi martiri «diventati (…) semi di (altri) cristiani» (ivi n.4), senza rinunciare a quella che papa Francesco spesso ha denunciato, cioè «l’ideologia dello scarto». Il ricordo delle vittime cristiane non passa sopra alle «sofferenze subite dai fedeli di altre tradizioni religiose diventati anch’essi vittime della guerra civile (…)» cui va «la nostra compassione» (ivi n.9).
L’ecumenismo del sangue, spesso evocato da papa Francesco, come già prima da papa Giovanni Paolo II, è una dolorosa risorsa per unire non solo i cristiani ma pure i seguaci di altre religioni; il “tesoro geloso” di Cristo Signore diventa una sorta di scrigno a sostegno di tutte le persone umane (Fil 2,6).
Ed è l’insieme di questi enormi sofferenze, che opprimono e discriminano soprattutto i poveri, su scala mondiale, a spingere Francesco e Kirill a chiedere alla comunità internazionale un’azione efficace ma responsabile e prudente contro il terrorismo e, soprattutto, ad implorare «tutti i cristiani e tutti i credenti in Dio a pregare con fervore il provvidente Creatore del mondo perché protegga il suo creato dalla distruzione e non permetta una nuova guerra mondiale» (ivi n. 11). Un’implorazione che ci porta nella memoria invocazioni del passato: come non ricordare la denuncia dell’«inutile strage» di Benedetto XV, o il monito accorato di Pio XII alla vigilia del II conflitto mondiale – «nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra» – o l’intensa e prolungata preghiera di papa Giovanni XXIII per scongiurare nel 1962 la guerra atomica per la questione di Cuba, o l’azione decisa e preoccupata di papa Giovanni Paolo II – in sintonia, magari non esplicitata, con gli sforzi del santo patriarca Alessio II – per evitare che «il crollo del comunismo» si trasformasse in bagni di sangue sia nell’attuale Federazione Russa come negli stati già sotto l’egida di Mosca? E che dire della coraggiosa denuncia di papa Francesco che non ha esitato a definire «una guerra fratricida» il prolungato conflitto in Ucraina?
Chi legge la Dichiarazione comune vi ritrova altri importanti temi: la salvaguardia delle radici cristiane dell’Europa, la difesa della famiglia, la riconferma dell’identità del matrimonio – «atto libero e fedele di amore di un uomo e di una donna» (ivi n. 20) – il diritto inalienabile della vita dal suo sorgere al suo tramonto. Forti le parole dedicate ai bimbi non nati: «Milioni di bambini sono privati della possibilità stessa di nascere nel mondo. La voce del sangue di bambini non nati grida verso Dio (Gen 4,10)» (ivi n. 21). Tutti argomenti che forse non piaceranno ai seguaci di una «esasperata filosofia dei lumi», tanto in voga ai nostri giorni. Ma ci si potrebbero aspettare parole diverse da due pastori che hanno consacrato le loro vite al Vangelo? E le loro parole non vanno intese pure come un argine e una difesa ad ampissimo raggio di ogni essere umano, compresi quelli che oggi si ritengono forti, produttivi e necessari alla società? È di ieri l’altro la proposta di una parlamentare olandese di imporre l’eutanasia ai “down” o agli anziani colpiti da demenza. Non rischiamo di scivolare verso le concezioni demenziali e spietate dell’eugenetica praticata da Hitler o dal dr. Mengele? Ne siamo davvero lontani?
E come puntuale ed appropriato risuona la preoccupazione per i milioni di migranti e di rifugiati «che bussano alla porta dei paesi ricchi», spesso intenti ad un consumo sfrenato che fa crescere la disuguaglianza nel mondo ed avvelena le relazioni internazionali! (ivi n. 17).
E come non trovare nelle parole rivolte ai giovani un profondo, disinteressato sguardo di simpatia e di amore, simile a quello riservato da Gesù al giovane ricco? Ai giovani non si rimprovera nulla, ma si dice loro di rendersi conto dei tanti talenti a propria disposizione, per cui è dalle nuove generazioni che il mondo e la Chiesa attendono che il Vangelo trovi nuovo spazio per diventare sale della terra (ivi nn. 22-23).
Se il passato, per tanti versi, ha diviso e messo l’una contro l’altra le due Chiese, il futuro appare aperto alla speranza. Una speranza che si fonda sulla comune missione, affidata loro dal Cristo Signore, «di predicare il Vangelo di Cristo nel mondo di oggi». Una missione che se deve escludere ogni forma di proselitismo (ivi n. 24), è radicata su un sentimento di fraternità ritrovata: «Non siamo concorrenti ma fratelli» (ivi n. 24).
Non si può non auspicare che a «questo incontro, il primo nella storia» (ivi n. 1), ne seguano altri per aiutare le due Chiese a porre in essere quelle “iniziative pratiche”, di cui ha parlato papa Francesco, per crescere e camminare insieme verso la pienezza del Regno di Dio.
Ci sostenga la speranza che tutti, cattolici ed ortodossi, possano sentire e convincersi nei loro cuori che – come diceva spesso papa Giovanni XXIII quando ancora era delegato apostolico in Bulgaria e Turchia – «soltanto l’amore può essere la strada della verità».
+ Antonio Mennini
già nunzio a Mosca, ora a Londra
Il grido del papa
Ieri, 14 febbraio, 2016, la diciassettesima domenica dopo Pentecoste, nella nostra liturgia c’era il vangelo della donna cananea la quale grida a Gesù poiché la sua figlia era indemoniata. E Gesù tace. Ma questa grida, e grida. Mi e venuto in mente il quadro di Edward Munch, Il grido. L’uomo che non ha più nessun punto stabile che grida la sua incapacità di reagire davanti al male, davanti alla sofferenza sua e altrui, davanti a… Sì, il papa che grida: «Signore aiutaci!».
Questo incontro tra papa Francesco e il patriarca Kirill io lo vedo come quella risposta di Gesù alla cananea: «Donna, grande è la tua fede». Dal silenzio di Gesù alle insistenze del papa, al grido continuato dei papi, nasce questo incontro. Viva Dio! L’incontro e avvenuto! Vediamo in questo incontro l’intervento del Signore, la presenza dello Spirito – della quale ha parlato papa Francesco subito dopo la firma della Dichiarazione comune. Allora l’incontro porterà frutti. Io lo credo.
Poi al n. 25 si parla proprio dei greco-cattolici – potremmo citarlo interamente … Dice che “l’uniatismo” non è più un modello – d’accordo; ma le comunità hanno diritto alla vita, possono svilupparsi, cioè hanno un futuro. Ottimo.
È ovvio che oggi si possa parlare di altre vie per l’unità dei cristiani nella diversità ed è sicuro che il Signore aprirà le strade dello Spirito. Dall’altra parte, noi greco-cattolici di oggi non vogliamo altro che vivere la nostra fede, la fede dei nostri padri; vivere in armonia con i nostri fratelli ortodossi e con tutti gli uomini di buona volontà; promuovere tutto quello che sta scritto nella Dichiarazione comune con tutte le nostre forze – sono le nostre convinzioni –. Ieri in cattedrale ho parlato proprio di questa Dichiarazione comune.
Il grido del papa: siamo fratelli, siamo fratelli! Noi, i cattolici, dobbiamo sentire per primi questo grido. Speriamo poi che anche gli altri cristiani, tutti, sentano questo grido e vivano in armonia, pace e unità affinché il mondo creda.
Ancora una volta: ringraziamo il Signore perché ha ascoltato il grido del papa. Grande è la fede di questo nostro papa! E grande dovrebbe essere la nostra fede quando gridiamo: «Signore ascoltaci!».
+ Virgil Bercea
vescovo greco-cattolico di Oradea (Romania)