Il filosofo e teologo ceco Tomáš Halík ci ha consentito, con la collaborazione di Francesco Strazzari, di riprendere questo articolo già apparso su Herder Korrespondenz. È sua convinzione che la Chiesa di oggi debba trovare la strada di una vera cattolicità. Il cattolicesimo deve cessare di essere una controcultura. La traduzione italiana è di Antonio Dall’Osto.
Cosa significa “cattolico” oggi? Per rispondere, dobbiamo anzitutto chiederci: cosa intendiamo con “oggi”? “Oggi”, cioè il tempo del cristianesimo diviso. La divisione non riguarda principalmente la separazione tra le Chiese ma l’interno di esse. Oggi, ossia un tempo in cui la credibilità della Chiesa attraversa una delle crisi più grandi.
Gli scandali degli abusi sessuali, psicologici ed ecclesiastici recentemente scoperti ricoprono nel nostro tempo un ruolo simile a quello delle indulgenze che ha provocato la Riforma. Ciò che inizialmente sembrava un fenomeno marginale mostra oggi – come allora – problemi molto più profondi, ossia le disfunzioni del sistema: i rapporti tra Chiesa e potere, clero e laici e molti altri. La situazione della Chiesa cattolica oggi è molto simile a quella di poco prima della Riforma.
“Oggi”, cioè in un momento in cui la Chiesa si trova di fronte a un grande compito: il passaggio dalla forma attuale a quella futura, verso il cammino sinodale.
Il cammino sinodale non è solo un cammino verso la riforma, ma un cammino di riforma. Anche qui il percorso coincide con la meta. I cristiani oggi, come all’inizio della loro storia, devono essere “persone in cammino”. Gesù ha detto di sé: io sono la via. L’esistenza cristiana è una sequela, cioè un movimento. Lungo i sentieri tortuosi del mondo di oggi cerchiamo le orme di Gesù, nella polifonia del nostro tempo la voce di Gesù. Abbiamo bisogno dell’arte del discernimento spirituale.
Contro un’ideologizzazione del cristianesimo
Tutti noi cristiani crediamo in una Chiesa una, santa, apostolica e universale. Cosa significa “cattolico”? È una delle note caratteristiche della Chiesa. Una comunità di credenti che smettesse di tendere alla cattolicità, all’apertura universale, perderebbe la sua identità e autenticità cristiana.
Tra unità, santità, apostolicità e cattolicità c’è una connessione interna e una compenetrazione, una pericoresi. L’indebolimento di uno di questi quattro pilastri dell’identità della Chiesa significa l’indebolimento degli altri.
Unità: unità organica nella diversità. Santità: consacrazione a Dio e appartenenza a Dio. Apostolicità: fedeltà alla missione e alla Tradizione apostolica. E Cattolicità: universalità, visione d’insieme, apertura: queste sono le caratteristiche principali della Chiesa.
Sono carismi che la Chiesa ha ricevuto dal Signore della storia e della Chiesa come dono e compito per il suo cammino lungo la storia. Sono carismi, semi di grazia che, per crescere, hanno bisogno di un terreno favorevole. Sono – insieme agli altri carismi importanti – semi della vita di Dio; in essi e attraverso di essi agisce e cresce la dynamis di Dio, il movimento dello Spirito vivificante di Dio, che plasma, unisce, guida, risana e trasforma la comunità dei credenti.
Questo movimento di crescita e di maturazione avviene nella storia ed è finalizzato al culmine escatologico del processo storico. Soltanto a questo punto omega, nell’eschaton, appariranno in tutta la loro pienezza l’unità, la santità, l’apostolicità e la cattolicità della Chiesa.
In seno alla storia, la Chiesa è communio viatorum, un popolo in cammino, non ancora giunto alla destinazione. Lo sviluppo della Chiesa non è una strada a senso unico, la teologia cristiana della storia differisce dalle escatologie intramondane. La nostra esperienza rispetto a coloro che hanno promesso il paradiso in terra e fatto della terra un inferno ci obbliga a mantenere una distanza critica riguardo alle ideologie e alle utopie politiche. È compito profetico della Chiesa relativizzare ogni forma di idolatria, di relativizzare l’assolutizzazione di ciò che è relativo.
Per prendere le distanze dall’escatologia intramondana delle ideologie secolari e dalle promesse del paradiso in terra, abbiamo bisogno di una certa “escatologia negativa”, analoga alla “teologia negativa”. Comprendere e descrivere pienamente il “futuro assoluto”, il traguardo escatologico della storia supera le nostre capacità. Perciò, nessuna situazione della società e dello Stato, nessuna forma di Chiesa, nessuna forma della nostra conoscenza teologica può essere considerata perfetta e definitiva, come la fine della storia; a nessun momento del nostro viaggio possiamo dire: Fermati, sei così bello!
La Chiesa ha l’obbligo di esercitare questo servizio profetico di “desacralizzazione” non solo nei confronti delle ideologie secolari come il comunismo o il nazionalismo, ma anche contro i tentativi di ideologizzare il cristianesimo e sfigurare così la sua vita.
Abbiamo bisogno di una “distinzione escatologica”: di una costante distinzione tra l’ecclesia militans, la Chiesa qui sulla terra, e l’ecclesia triumphans, la Chiesa glorificata in cielo. Se l’ecclesia militans terrestre comincia a considerarsi come ecclesia triumphans, come la forma perfetta della Chiesa, commette il peccato del trionfalismo. Se l’ecclesia militans, la Chiesa militante, cessa di lottare contro la tentazione del trionfalismo, diventa uno strumento della religione militante; combatte gli altri e i non-conformisti presenti nelle sue file. Qualcosa di simile è accaduto nell’islam con il concetto di jihad.
Una delle manifestazioni del trionfalismo è il clericalismo: coloro che erano destinati all’umile servizio della comunità diventano una “classe dirigente”, un governo sacro (gerarchia) che rivendica il monopolio della verità.
Soprattutto nei nostri giorni ci troviamo a confrontarci con le conseguenze dell’abuso di potere e di autorità nella Chiesa. Papa Francesco ha giustamente diagnosticato il clericalismo come una delle principali cause dei reati di abuso, un clima di relazioni malsane in cui cose del genere erano possibili. La nostra ecclesiologia, l’autocomprensione della Chiesa, ha bisogno del principio della “kenosis,” del dono di sé; il cammino sinodale deve essere un cammino di risanante umiltà.
Come è già stato detto, il cammino della Chiesa nella storia non è una strada a senso unico, ma un dramma di lotta continua tra grazia e peccato. Il dramma della Pasqua continua nella storia della Chiesa. Noi condividiamo non solo la luce del mattino di Pasqua, ma anche le tenebre del Getsemani e del Calvario. Nella vita della Chiesa, nelle sue crisi e sofferenze, nelle sue ferite, continua anche la sofferenza di Cristo, è una passio continua. Non solo nel cammino spirituale del singolo credente, ma anche nella storia della Chiesa ci sono sempre “notti oscure della fede”.
Nelle notti buie collettive della storia del mondo e della Chiesa, abbiamo bisogno della pazienza della speranza per vincere la tentazione della disperazione, questa “malattia che conduce alla morte”.
Molte cose – comprese molte forme di Chiesa e forme immature di fede – devono morire. La risurrezione non è un ritorno a ciò che era prima, ma un cambiamento radicale. Il Cristo risorto raggiunge i suoi amici come un pellegrino sconosciuto.
Non solo i sacramenti e le prediche della Chiesa, ma anche e soprattutto le espressioni quotidiane della fede, speranza e carità dei fedeli costituiscono lo spazio della risurrezione in cui si compie la resurrectio continua. Allo stesso modo sono luoghi di teofania: Dio è presente nel mondo nella fede, nella speranza e nell’amore dei credenti. Anch’essi esprimono il carattere sacramentale della Chiesa, anch’essi fanno parte della liturgia in senso più ampio, anch’essi sono il luogo in cui Cristo risorto vive e opera.
Che cosa significa la cattolicità della Chiesa? È la sua apertura alla venuta di Cristo risorto, sconosciuto, sorprendente. Il Cristo risorto è semper maior, sempre più grande di quanto abbiamo finora immaginato. Entra attraverso le porte chiuse delle nostre paure, delle nostre anguste idee, delle definizioni dogmatiche, dei concetti e delle categorie.
Cattolicesimo oggi significa universalità ed ecumenismo in senso più ampio e profondo. L’invito del concilio Vaticano II al dialogo ecumenico con le altre Chiese cristiane, con i credenti di altre religioni e con i fautori dell’umanesimo ateo è stato il primo passo su questa strada. Ha contribuito a liberare la cattolicità della Chiesa dal vicolo cieco del “cattolicesimo”, dal particolarismo confessionale, dalla riduzione a una delle “visioni del mondo”.
A questa deformazione della Chiesa ha contribuito la sua strategia difensiva e apologetica dopo i due grandi scismi, la strategia di difesa contro il protestantesimo e poi la difesa contro la cultura moderna in seguito alla scissione tra la teologia neoscolastica e il pensiero scientifico, filosofico e politico del 19° secolo.
La Chiesa deve prendere le distanze da un cattolicesimo di guerre culturali
Nel cammino sinodale verso una cattolicità credibile, dobbiamo liberarci da “un cattolicesimo” inteso come convulsa controcultura e strumento di guerre culturali. Inoltre, la Chiesa deve resistere costantemente alla tentazione del narcisismo collettivo, dell’egoismo e dell’autoreferenzialità. Dovremmo estendere il principio della sinodalità, il cammino di ricerca fatto insieme alle nostre relazioni con le persone di altre religioni e con chi è senza credo religioso. Per il cristianesimo, questa autotrascendenza non è una perdita di identità, ma l’attuazione del mistero centrale del cristianesimo, del cambiamento pasquale.
Invece di fare proselitismo, dovremmo coltivare una cultura di accompagnamento e di dialogo, in cui poter comprendere non solo la fede degli altri, ma anche la nostra in maniera nuova. La religione di domani dovrebbe essere un re-legere, una rilettura, una nuova lettura, un nuovo ripensamento, una nuova ermeneutica.
Cattolicesimo ecumenico oggi significa il coraggio dell’autotrascendenza della Chiesa, di autotrascendenza del cristianesimo. Questa autotrascendenza – superamento dei propri confini istituzionali e mentali verso gli altri – non è una perdita dell’identità del cristianesimo, quanto piuttosto un’attuazione del mistero centrale del cristianesimo, il cambiamento pasquale.
Alla vigilia della sua elezione a pontefice, il cardinale Jorge Mario Bergoglio ha citato le parole di Gesù: “Sto alla porta e busso”; ma ha aggiunto che oggi Gesù bussa da dentro la Chiesa e vuole uscire, in particolare verso tutti i poveri, gli emarginati e i feriti del nostro mondo, e noi dobbiamo seguirlo. Ma dobbiamo anche avvicinarci a tutti coloro che sono in ricerca spirituale, non come possessori di tutta la verità, ma come coloro che desiderano camminare insieme a loro nel rispetto reciproco.
Un passo importante nel cammino della cattolicità ecumenica è stata la decisione del Concilio Vaticano II di utilizzare il concetto del “subsistit in” per indicare il rapporto tra la Chiesa di Cristo nella sua pienezza escatologica e la Chiesa cattolica nel suo cammino nella storia. Secondo il cardinale Walter Kasper, ciò implica due importanti garanzie.
Primo: in questa Chiesa cattolica sperimentabile, esistente qui e ora, sussiste la Chiesa di Cristo, quella misteriosa Sposa di Cristo, la cui piena gloria e bellezza si rivelerà solo nell’orizzonte escatologico nell’eternità. Secondo: che questa Chiesa cattolica romana non “occupa tutto lo spazio” della Chiesa di Cristo, così che c’è un posto legittimo per le altre Chiese cristiane e per i carismi che Dio liberamente dona oltre i confini visibili della Chiesa.
Analogamente, si potrebbe forse dire che la verità, che è Dio stesso, esiste nella dottrina del Magistero, senza tuttavia esaurire in nessun momento della storia la pienezza del mistero di Dio. L’affermazione che la dottrina ufficiale della Chiesa presenta la rivelazione di Dio in modo autentico e in misura sufficiente per la salvezza e che non ci si deve aspettare alcun’altra rivelazione, non significa sicuramente che la Chiesa pronunci un divieto sull’ulteriore azione dello Spirito Santo.
C’è ancora spazio per la libera effusione dello Spirito che guida gradualmente i discepoli di Cristo alla pienezza della verità fino alla fine della storia. Il punto, però, è che l’apertura a nuovi doni dello Spirito non significa perdere in modo spiacevole e frivolo il rispetto dell’importanza e dell’irrevocabilità del tesoro dei doni precedenti dello stesso Spirito; Gesù ha elogiato la saggezza del padrone di casa che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie.
Anche nella fede del singolo cristiano o in quella di un determinato gruppo di cristiani (per esempio, una scuola teologica) vive la fede di tutta la Chiesa, la pienezza dell’insegnamento cristiano; ma la fede e la conoscenza di un singolo cristiano o di un determinato gruppo cristiano ha sempre i suoi limiti umani (storici, culturali, linguistici e psicologici) che lo rendono incapace di cogliere tutta la fede della Chiesa nella sua pienezza. Per questo, anche i singoli credenti e le singole scuole di fede e di spiritualità hanno bisogno della Chiesa nel suo insieme e, naturalmente, del suo Magistero, per completarsi ed eventualmente correggersi.
Il singolo credente partecipa alla fede della Chiesa nella misura in cui le sue limitate capacità personali consentono di incarnare il tesoro della fede nella sua comprensione, nel suo pensiero e nella sua azione. Già san Tommaso d’Aquino insegnava a proposito della fede implicita che nessun credente può cogliere tutto ciò che la Chiesa crede, ma che solo una parte di essa è “esplicitamente” compresa e accolta.
Colui che crede possiede una “partecipazione implicita” a ciò che è al di là della sua comprensione e conoscenza attraverso l’atto di fiducia in Dio e nella sua rivelazione e, naturalmente, anche nella Chiesa che presenta quella rivelazione. Questa consapevolezza dovrebbe portare all’umiltà e a riconoscere la necessità della comunicazione e del dialogo nella Chiesa.
Inoltre, la fede cristiana non colma mai del tutto (probabilmente nemmeno nei santi e nei mistici) l’intero spazio dell’anima umana, la parte conscia e inconscia della psiche. In questo senso, comprendo l’affermazione del cardinale Jean Daniélou secondo cui «un cristiano è sempre parzialmente un pagano battezzato».
Certamente, il battesimo ha il carattere di segno indelebile (signum indelebile) e di partecipazione reale al corpo mistico di Cristo, ma la grazia del battesimo opera dinamicamente nell’uomo e gli conferisce una crescita e una maturazione nella fede, in quanto l’uomo apre ad essa lo spazio della sua libertà a tutti i livelli della sua esistenza.
Se la fede della Chiesa sussiste (subsistit in) nella vita spirituale del credente, la scienza religiosa ricevuta non riempie tuttavia l’intero spazio della sua vita spirituale e allora rimane nel suo spirito e nel suo cuore un luogo legittimo di indagine su interrogativi critici e di dubbi sinceri. È salutare per lui chiedersi umilmente se il suo cammino di fede è autentico, se è fedele alla tradizione, ma anche su come Dio lo guida nella sua coscienza. Perciò, il destinatario finale dei suoi interrogativi non può essere solo l’autorità ecclesiastica, ma Dio stesso, presente nel santuario della sua coscienza, Dio che gli parla non solo negli insegnamenti della Chiesa, ma anche nei segni dei tempi e negli eventi della sua stessa vita.
Il dono della fede, che gli venga trasmesso attraverso l’educazione o l’influsso dell’ambiente oppure che sia ottenuto come frutto di una ricerca personale, è sempre un dono incommensurabilmente prezioso della grazia di Dio, ma altrettanto preziosa è quell’«inquietudine del cuore umano» di cui parla sant’Agostino. Questa inquietudine non permette di adagiarsi in una certa forma di fede accolta o raggiunta, ma è sempre ricerca e desiderio di andare oltre. Anche gli interrogativi critici, i dubbi e le crisi di fede possono imprimere preziosi impulsi su questo cammino.
Anch’essi possono essere considerati come un dono di Dio, come una “grazia adiuvante”. Lo Spirito di Dio non solo illumina la ragione dell’uomo, ma agisce anche come “intuizione” nel profondo del suo inconscio e questa consapevolezza è preziosa per riflettere sulla “fede dei non credenti”; anche le persone che non sono state raggiunte dall’annuncio della Chiesa, o non l’hanno ricevuto in una forma tale da poterla accettare onestamente possono avere una certa intuizione della fede.. Il dialogo di fede della Chiesa con questa “fede intuitiva” di persone lontane dalla Chiesa può essere utile per entrambe le parti.
Non fermarsi alle forme consuete
«Dio è più grande dei nostri cuori», afferma san Paolo. Ma il “nostro cuore” è più grande di ciò che la nostra ragione, le nostre “convinzioni religiose”, i nostri atti di fede consapevoli e riflessi, le nostre “professioni di fede” sanno di Dio. Nella tradizione agostiniana, Blaise Pascal in particolare conosceva quella “ragione del cuore” (raison), di cui la ragione (“ragion pura”) non sa nulla. Ma dobbiamo stare attenti a non limitare il concetto biblico, agostiniano e pascaliano del cuore alla sola “emotività”.
C.G. Jung sosteneva che la componente cosciente e razionale della nostra psiche è come una minuscola parte di un iceberg che emerge dal mare; la parte maggiore e più importante sta nell’inconscio, non solo personale ma anche nell’“inconscio collettivo”. È lì che nascono le idee, le ispirazioni, le ragioni nascoste del nostro agire. Forse si può dire che la psicologia del profondo descrive con altre parole o in un’altra prospettiva l’esperienza dei mistici, secondo cui «l’anima non ha fondo»: la profondità dell’uomo è compenetrata dalla profondità che chiamiamo Dio, come leggiamo nelle parole del salmo «l’abisso chiama l’abisso» (42,8).
Quando Dio, che è «più grande del nostro cuore», entra nella nostra vita, allarga all’infinito la profondità e l’apertura del nostro essere, che noi simbolicamente chiamiamo cuore. In noi avviene qualcosa di più significativo e grande di quanto possiamo “comprendere” ed “esaurire” con la nostra prassi religiosa ordinaria.
Perciò, è importante non rimanere al punto in cui siamo, non ritenersi soddisfatti della forma abituale, ma continuare a cercare, anche quando la ricerca è accompagnata da crisi e sorgono difficili interrogativi che vanno oltre le risposte catechistiche offerte dalla tradizione.
Mano a mano che la nostra fede matura nella nostra storia personale e nella storia della Chiesa, cresce e si sviluppa anche la cattolicità della Chiesa. «Siamo fin d’ora figli di Dio. Ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,1-2).
Dal mio punto di vista per parlare di cattolicità o, se vogliamo, dell’essere cattolici oggi occorre partire da un piano quanto mai concreto. Sotto questo aspetto sono utili alcune figure della storia della Chiesa tra le quali spicca Madeleine Delbrêl, donna straordinaria, figura di cattolica esemplare che io adoro e sulla quale ho scritto nel mio blog.
L’articolo è suggestivo. Le polarità apertura/chiusura e conservazione/riforma non possono essere misconosciute come facenti la storia della Chiesa ma direi la storia della stessa fede da Noè in poi. Se l’ebraismo non si fosse “chiuso” rispetto ai popoli circostanti la fede monoteista non sarebbe giunta a noi così come se lo stesso ebraismo – in altri tempi e luoghi – non si fosse aperto all’ellenismo (cfr. la septuaginta) ugualmente non ci avrebbe tramandato la stessa fede. Lo stesso vale per il popolo della nuova alleanza sempre dibattuto tra apertura e chiusura, tra Giustino e Taziano. Condivido quindi l’idea di fondo secondo la quale “è importante non rimanere al punto in cui siamo” ma – diversamente dall’articolista – non so verso quale dei due poli ci spingerà lo Spirito nel prossimo futuro. Non credo – francamente – verso una grande apertura. Molto dipenderà dalla piega che prenderà la nostra tarda modernità. Più essa virerà lontano dal Vangelo – come oggettivamente sta facendo – più le comunità cristiane dovranno “incistarsi” in essa per poter sopravvivere, sull’esempio di chiese come quella copta. Se invece la virata sarà minore e – soprattutto – se si riusciranno a preservare la libertà religiosa e di espressione allora il pendolo potrà oscillare verso l’apertura.
Ovviamente una comunità cristiana se vuole restare tale non può non mantenere vincoli di carità e di prossimità con gli altri uomini, anche nei casi peggiori di isolamento sociale.
Una Chiesa che perda la sua parresia (quindi l’assistenza dello Spirito) sarà sempre bene accetta in ogni tipo di società e – quindi – potrà sempre dirsi aperta ed aggiornata ma anche sarà una chiesa mondanizzata.
Ovviamente la stessa perdita di parresia può portare ad esiti opposti, ovvero alla totale chiusura verso il mondo.
Articolo molto suggestivo. Grazie per averlo pubblicato.