Dopo quindici anni diverse ricercatrici hanno vinto il Premio Wolf Prize per la chimica e la biologia come Carolyn Bertozzi e Bonnie Bassler e solo dopo quasi mezzo secolo per la fisica Anne L’Huillier, fatto che ha riscosso su alcuni giornali e blog una certa attenzione; ma meno risalto viene dato al fatto che l’ONU nel 2015 abbia considerato l’11 febbraio la «Giornata Mondiale delle donne e delle ragazze nella scienza» coll’invito a mettere in atto iniziative varie per eliminare storici pregiudizi e indirizzate a una migliore conoscenza del loro ruolo nella storia del pensiero e delle scienze e a politiche educative indirizzate ad inserirle nel mondo della ricerca scientifica.
L’obiettivo è quello di non farle più «sentire come delle immigrate in un mondo completamente straniero», come ha detto Sara Sesti in una recente intervista, componente dell’Associazione «Donne e Scienza» e autrice di diversi lavori come Scienziate nel tempo. 100 biografie, scritto insieme a Liliana Moro, sul ruolo delle figure femminili che non vengono riconosciute, pur avendo dato considerevoli risultati nei vari campi ed in alcuni casi fatti propri da alcuni colleghi maschi poi Premi Nobel.
«Effetto Matilda»
Nella storia della scienza si sono verificati episodi del genere, uno dei quali riguarda il caso di Nettie M. Stevens, la prima scienziata di fine Ottocento che osservò e descrisse le differenze dei gameti negli uomini e nelle donne col consegnare i risultati di alcune sue ricerche, come quelli sul moscerino, al fondatore della genetica Thomas Morgan, Premio Nobel per la Medicina nel 1933, che li riprese senza riconoscerne il debito. L’altro è quello avvenuto nel campo della fisica atomica negli anni Trenta del secolo scorso per il ruolo delle pionieristiche ricerche fatte da Lise Meitner e da altre ancora, i cui lavori hanno subito la stessa sorte solo perché portati avanti da donne, per non parlare di quel gruppo di ricercatrici afro-americane in discipline fisico-matematiche che diedero un contributo decisivo alla NASA, oggetto di un recente film.
Per capire meglio questo fenomeno è d’aiuto quella cospicua letteratura che va sotto il nome di «epistemologia femminista» sviluppatasi soprattutto negli USA verso gli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso e meno in Europa, un capitolo importante della cosiddetta epistemologia sociale che studia il ruolo degli attori cognitivi e delle relative istituzioni, anche se a livello editoriale specialmente in Italia non ha avuto ancora una dovuta attenzione con traduzioni delle opere delle maggiori protagoniste.
A fianco di tale ambito di ricerche, in questi ultimi decenni, si sta rivelando molto proficuo il lavoro storiografico da parte di alcune studiose come la storica delle scienze Margaret W. Rossiter che ha parlato di «Effetto Matilda», proposta già avanzata dall’attivista americana per i diritti delle donne Matilda Joslyn Gage, per capire le dinamiche storico-sociali di diversi episodi definiti «furti di genere» che nei secoli si sono perpetrati, a partire dal caso Trotula de Ruggiero delle Mulieres Salernitanae (XI-XII secolo), esponente della Scuola Salernitana di Medicina, autrice di diversi lavori poi fatti appartenere ad un certo medico «Trottus».
Lo sguardo femminile sul reale
Ciò che è più importante sul piano delle strategie di ricerca, non tanto presente nelle figure maschili, ma messo più in atto da figure femminili impegnate nei vari campi e soprattutto nell’ambito delle scienze del vivente, e da più parti segnalato anche se non adeguatamente preso in esame nel versante storico-concettuale, è quello che si può chiamare «sguardo cognitivo femminile» od «ottica femminile sul reale».
Esso consiste nella capacità di interagire col proprio oggetto di indagine entrando empaticamente nelle sue ragioni costitutive di fondo come furono, ad esempio, il moscerino per Nettie Stevens, una pianta di mais che non produce o i singoli cromosomi per Barbara McClintock, Premio Nobel per la Medicina nel 1983, che «si sentiva una di loro come tra amici» per capirne unicità ed imperfezioni e quegli aspetti che poi Rita Levi-Montalcini chiamerà «spigoli del reale», non facilmente intelligibili con il solo approccio quantitativo-analitico messo più in atto dalle figure maschili.
Per parafrasare un’espressione resa celebre sia pure nella sua drammaticità da Etty Hillesum (1914-1943) per cercare di dare senso all’universo concentrazionario, le donne-scienziato si sono fatte quasi programmaticamente «cuori pensanti» dei loro oggetti di studio per farne venire fuori i diversi «significati» più nascosti nel senso di Simone Weil, vera e propria figura di «cuore pensante in filosofia della scienza» per averne chiarito alcune modalità nello stesso percorso scientifico (cf. Antonio Musarò, «Cuori pensanti: la necessità di sentire e ragionare», 21 settembre 2019).
Gli «spigoli del reale» a volte si presentano restii a farsi prendere con la sola ragione analitica che, pur necessaria, ha bisogno nel momento della scoperta in determinati contesti dell’aiuto euristico del «cuore». E questa si rivela una condizione sine qua non soprattutto quando il reale è strutturalmente complesso come quello vivente, bisognoso di una pluralità di approcci e della «continua interazione di ragionamenti qualitativi e quantitativi», come affermava Barbara McClintock grazie alle sue ricerche citogenetiche, ma anche del fatto che tale approccio si basa su «un vero e proprio amore per le parti che si combinano insieme (…) esperienze non facilmente comunicabili a chi non ha partecipato».
L’incontro tra il pensiero e la vita
Un sentiero del genere si rivela proficuo anche quando si è alle prese col reale più in generale, come ha detto Albert Einstein a proposito del reale relativistico in diverse occasioni, anche se tale suo invito, poco noto, ad entrarvi in contatto «in maniera simpatetica» non è stato tenuto in adeguata considerazione.
E se nel passato anche quello più vicino a noi, tale atteggiamento chiamato in modo inappropriato «mistico» e poi «maclintockiano» proprio per designare mancanza di scientificità e di rigore perché quasi appannaggio solo di certe figure femminili trovatesi a lavorare da «immigrate» nell’universo scientifico, sia pure lentamente e a fatica sta emergendo in tutta la sua cogenza teoretica in campo epistemologico e filosofico sino a delinearsi come un approccio basato strutturalmente sull’«incontro tra il pensiero e la vita».
Un progetto del genere lo sta portando avanti Catherine Malabou in vari lavori come in Divenire forma. Epigenesi e razionalità del 2014 (Milano-Udine, Mimesis, 2020), opera orientata alla presa d’atto della «equivalenza e intercambiabilità delle due dimensioni della razionalità: biologica e filosofica» sulla scia di una rinnovata visione della filosofia kantiana, dove le tre Critiche vengono viste strettamente intrecciate col ridare un significato diverso alla stessa cruciale questione del trascendentale, croce e delizia del pensiero filosofico-scientifico.
Complessità e scienze del vivente
Se nei secoli passati sino a qualche decennio fa la matematica e la fisica sono state il modello di riferimento per le discussioni filosofiche, si può dire che, grazie al lavoro non più secondario di figure femminili, le discipline biologiche stanno irrompendo con tutta la loro forza propulsiva nel teatro della conoscenza, già a base del pensiero complesso per la variabile tempo che hanno immesso nelle sue reti, come Mauro Ceruti in diverse sue opere ha messo in risalto; i diversi risvolti stanno mettendo in profonda discussione molti degli imperanti approcci riduzionistici col portare alla costituzione di una vera e propria stagione biologica o raison biologique nel senso della tradizione francese, già avviata nel Settecento.
Da più parti si sta mettendo in moto una filosofia della conoscenza incentrata sulla biologia, programma di ricerca in cui anche le stesse figure maschili sono impegnate su più fronti dal delineare il fatto che «il punto di partenza di qualsiasi riflessione filosofica è il “mondo della vita”», come scrive Franco Fabbro nel testo I fondamenti biologici della filosofia del 2021.
Lo sguardo attento e vigile al mondo della vita e alla sua estrema variabilità viene poi esteso alle stesse matematiche con lavorare ad una diversa visione incentrata sul «senso» da parte di Giuseppe Longo, ad esempio, in Matematica e senso sempre del 2021, e ad altri settori tesi a delineare «nuovi contorni dell’umano», come si esprime Miguel Benasayag in La singolarità del vivente, opera del 2017.
E l’ottica femminile, più in grado di far dialogare esprit de géomètrie e esprit de finesse, si rivela anche oggi più che mai strategica data la capacità di guardare alla «foresta e non ai singoli alberi», come affermava lo stesso Einstein, cioè di avere una visione d’insieme dei problemi che da una parte, a livello metodologico, si basa sul dialogo costruttivo tra le diverse discipline che hanno come oggetto lo stesso reale, e dall’altro di porre a base della ricerca stessa come fonte ispiratrice un fattore etico in grado di coglierne meglio il senso, come il senso della natura e del suo destino dato che siamo entrati prepotentemente nell’era dell’Antropocene.
Imparare dalle piante
Tale scelta di fondo insieme etico-cognitiva e da «cuore pensante» è presente, ad esempio, nelle odierne ricerche portate avanti dalla biologa marina Barbara Mazzolai presso l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova e Membro del Planck Institute, autrice di due recenti volumi come La natura geniale e Il futuro raccontato dalle piante. Cosa possiamo imparare dal regno vegetale, idea portante di Stefano Mancuso esposta nel suo più famoso testo La Nazione delle piante (2019).
Tale modo di fare ricerca ha messo in pratica le indicazioni forniteci da Barbara McClintock e ha permesso di comprendere meglio quella che viene chiamata «intelligenza distribuita» delle piante, di conoscere in profondità le strutturali e «geniali interazioni tra tutti gli abitanti della terra», dagli animali alle piante anche nelle loro forme meno complesse come batteri, funghi, coralli, lombrichi, e di arrivare a sottolineare il «debito» che come umanità abbiamo nei confronti del regno vegetale, come il processo della fotosintesi che ha portato alla costruzione dell’ambiente col fornire ossigeno senza il quale non ci sarebbe vita.
E Barbara Mazzolai, col coniugare potere e dovere nella ricerca scientifica tematica diventata oggi più che mai centrale all’interno degli stessi programmi di ricerca in ogni campo, non solo ha cercato di capire, ad esempio, come fa una radice a crescere nel cercare l’acqua e trovare i suoi elementi nutritivi, ma ha immesso le ragioni delle forme di vita nelle stesse macchine per orientarci ad essere in primis «custodi del pianeta».
E nel farsi bio-ingegnere, insieme ad altri, ha contribuito alla cosiddetta «Robotica bio-ispirata» con la costruzione del Plantoide, un robot in grado controllare il livello di contaminazione dei terreni, e di altri mini-robot applicabili in più settori come nel progetto I-SEED, abilitati a scandagliare luoghi non facilmente accessibili come gli abissi marini ed anche in campo medico. Così vengono delineati i presupposti per imparare dalle piante che se ben ascoltate nei loro processi di fotosintesi ci danno gli strumenti per rispettarle e per ricavare macchine innovative in grado di progettare il futuro con più responsabilità e con meno vocazioni predatorie.
In tal modo lo sguardo femminile sul mondo e sul reale, oltre a guadagnarsi un posto non trascurabile nel nostro patrimonio cognitivo nel permettere di rendere sempre più «verità di diritto le verità di fatto», per usare un’espressione di Gaston Bachelard, ci offre un sentiero immerso nelle ragioni della vita e nello stesso tempo inchioda il pensiero e l’umanità intera a più precise responsabilità non più rinviabili. Ritorna così in tutto il suo spessore teoretico-esistenziale l’idea di Simone Weil circa il fatto che l’uomo non ha tanto potere, ma sempre tanta responsabilità.
- Dalla rivista online Odysseo, 17 febbraio 2021.