Nella vita di tutti i giorni, non di rado ci troviamo difronte a situazioni difficili, in cui ci viene richiesto di prendere una decisione rapida e ci manca l’aiuto di un vicino. Come dobbiamo comportarci in queste occasioni?
Per capire la sagacia, dobbiamo prima conoscere la virtù di cui è uno sviluppo: la prudenza.
Questa virtù cardinale non dev’essere intesa nel senso che le diamo generalmente nella vita quotidiana. Prudente non è semplicemente colui che non corre mai rischi e che sa come evitare pericoli o inconvenienti. La vera prudenza ha un significato più ampio.
Solerzia e prudenza
Quando abbiamo un obiettivo, possiamo scegliere diversi percorsi per raggiungerlo, alcuni più adeguati e altri meno. Ebbene, è la prudenza che ci porta a scegliere il meglio, perché è proprio di chi pratica questa virtù “avere un giusto giudizio su ciò che si deve fare”[1].
L’etica delle virtù attribuisce una speciale importanza alla virtù della prudenza, ovvero alla capacità di decidere bene ed umanamente nel concreto delle situazioni, traducendo in pratiche di vita i criteri messi a fuoco dalla ragione e individuando i mezzi più adatti. La prudenza applica dunque principi generali ai casi particolari e per farlo bene richiede il concorrere di tutta una serie di virtù.
Secondo Tommaso d’Aquino un’azione prudente richiede infatti: memoria (del passato), intelligenza (del presente), previdenza (del futuro), ragione (ovvero il ben congetturare), docilità (è la conoscenza appresa da un buon maestro), sagacia (la solerzia), circospezione (capire le circostanze specifiche in cui opero) e cautela (evitare gli ostacoli).
La parola latina solertia, impiegata da s. Tommaso nella Somma Teologica, è comunemente tradotta anche con sagacità, perspicacia, arguzia; questi tre vocaboli, però, si riferiscono più a una qualità speculativa: l’acutezza di spirito. La scaltrezza o solerzia indica qualcosa di più pratico: la capacità con un colpo d’occhio, di capire la situazione, prendere la decisione e passare all’azione.
La solerzia è la prontezza nel decidere per il bene di fronte all’imprevisto, senza cedere all’ingiustizia, alla viltà e all’intemperanza[2].
La solerzia è una delle parti integrali della virtù della prudenza. Le parti integrali sono le attitudini che concorrono a perfezionarla. Di esse alcune mirano a perfezionare l’aspetto conoscitivo, e cioè la memoria del passato, l’intelligenza del presente, la docilità, la solerzia e la ragionevolezza; alcune a perfezionare l’aspetto precettivo, e cioè la previdenza, la circospezione e la cautela.
- La memoria del passato[3] è il tesoro delle esperienze che orientano e danno norma per regolarsi sul presente.
- L’intelligenza è la retta conoscenza e valutazione pratica delle circostanze nelle quali ci si trova attualmente ad agire.
- La docilità[4] (docibilitas) dispone a ricevere e far tesoro delle lezioni proprie e altrui del presente e del passato.
- La solerzia[5] o sagacia anima e sprona e sorregge nella vigile esplorazione del da fare. Ovvero la capacità di rimanere obiettivi di fronte all’inatteso senza lasciarsi condizionare e obnubilare dal panico.
- La ragionevolezza pondera e valuta a fil di logica tutti questi elementi.
- La previdenza[6] spinge innanzi quanto può l’attenzione come per prevedere il futuro che è conseguenza del passato e del presente, e predispone i mezzi.
- La circospezione[7] gira tutto intorno il lungo raggio della previdenza.
- La cautela[8] o accortezza considera attentamente i pericoli o i danni che possono venirne e a predisporne efficacemente i mezzi preventivi.
Solerzia o sagacia
Nessuno nasce sapendo come affrontare tutte le situazioni possibili e immaginabili. È necessario acquisire questa conoscenza durante la vita. E questo si ottiene, secondo san Tommaso d’Aquino, attraverso la docilità e la sagacia.
Possiede docilità colui che sa cercare un altro per ricevere insegnamenti che perfezionino il proprio giudizio. Un uomo non può scoprire tutte le cose da solo e da qui nasce la necessità di essere istruito[9].
La sagacia, a sua volta, è la qualità d’animo di chi, di fronte a una situazione nuova, spesso complessa e delicata, scopre da solo ciò che deve fare. Aristotele diceva che è «la congettura facile e rapida circa i mezzi»[10].
Queste due virtù si completano a vicenda, perché il sagace deve anche essere docile, non appoggiandosi sulla propria prudenza (cf. Prv 3,5), ma confidando nell’aiuto di Dio che verrà in suo soccorso anche nelle occasioni più inaspettate, molte volte attraverso il monito di un padre, di un amico o di un maestro. Allo stesso modo, anche la persona docile dev’essere sagace per saper discernere i buoni consigli da quelli cattivi[11].
Potremmo dire in modo piuttosto informale, ma forse didattico, che la sagacia è la prudenza praticata ad alta velocità. «Sagacità (chiamata anche solerzia, eustochia), è la prestezza di spirito per risolvere da soli i casi urgenti, per i quali non è possibile fermarsi per chiedere consiglio»[12].
Partendo da questi presupposti, sembra perfettamente legittimo applicare a questa virtù una divisione che san Tommaso utilizza per la prudenza, purché teniamo presente la seguente sfumatura: la sagacia è praticata in situazioni che richiedono decisioni rapide e senza l’insegnamento di altri[13].
L’ascesi della solerzia diventa l’esercizio spirituale della quotidianità, dell’applicazione razionale al lavoro e all’onestà nelle relazioni reciproche.
La sagacia è «la prontezza di mente per affrontare le situazioni con saggezza e creatività». Idoneità e sagacia rappresentano «il comportamento del discepolo che si rivolge al Signore tutti i giorni»[14].
La sagacia o avvedutezza nella gestione dei propri affari; il talento e buon giudizio nell’uso delle risorse.
Un triplice livello della solerzia
La solerzia o sagacia, pur facendo parte della virtù della prudenza, comprende tre sensi o livelli.
Il primo di questi, falso, si trova in coloro che vivono nel peccato, e consiste nel disporre giustamente di ciò che si deve fare, ma avendo come fine qualcosa di cattivo. Questo è quello che succede quando si dice che un ladro è sagace. Questo atteggiamento non viene dalla sagacia, ma dal vizio dell’astuzia.
Al secondo livello troviamo la sagacia che, sebbene vera, è imperfetta. Consiste nella scaltrezza in relazione ai beni passeggeri e non a quelli che si riferiscono alla vita eterna. Questa categoria comprende, per esempio, i commercianti, i generali e tutti coloro che usano la loro prudenza per ottenere successo nelle loro iniziative terrene.
L’ultimo e più perfetto grado di questa virtù lo raggiunge colui che delibera rettamente, giudica e agisce in vista del fine ultimo della vita; pertanto, chi usa la sua prudenza per ottenere meriti e per progredire sempre sulla via della santità, poiché lo scopo dell’uomo non è altro che “amare, riverire e lodare Dio, e mediante questo, salvare la sua anima”[15].
La sagacia si rende necessaria tanto per ciò che concerne la salvezza individuale dell’uomo quanto per l’esecuzione dei piani di Dio nello svolgimento della Storia, perché chi ama veramente il Creatore vorrà che Egli sia lodato e glorificato dall’umanità intera, in tutto il mondo (cf. Giuditta).
Solerzia come cogliere nel segno
Il termine greco con cui viene tradotto il termine solerzia o sagacia è eustochia. A tal riguardo propongo alcune osservazioni su questa nozione poco nota della riflessione aristotelica. Il termine greco allude a una particolare capacità cognitiva, non alla portata di tutti, consistente nell’abilità di afferrare al volo qualcosa che non è evidente o, in senso più ampio, nella capacità di raggiungere il fine che ci si era proposti.
Con una terminologia moderna, potremmo dire che l’eustochia è una procedura, razionale ma non algoritmica, di soluzione di problemi in condizioni di incertezza, quando cioè non abbiamo a disposizione una regola che ci assicuri, in un numero finito di passi, il buon esito dell’operazione. Aristotele caratterizza come qualcosa di difficile, veloce e tale da non richiedere un ragionamento articolato.
La parola greca eustochia è composta dall’avverbio eu (bene) e dal verbo stocazomai (mirare, tendere a, cercare di), essa indica dunque la capacità di portare a buon fine tale attività. Conviene pertanto partire dal significato generale del verbo per comprendere cosa sia l’eustochia.
Cominciamo col dire che il sostantivo stochos – da cui il verbo deriva – indicava originariamente il bersaglio. Stocazomai significa dunque, in primo luogo, prendere la mira, lanciare, tirare contro quel bersaglio, lo stochos.
Proprio come l’italiano “mirare”, esso ha acquistato anche il significato più astratto di tendere verso un obiettivo, cercare di ottenere o di raggiungere qualcosa, e quindi tentare di, indipendentemente dall’effettiva realizzazione dello scopo cui si mira. Con un’ulteriore estensione del campo semantico, a questo significato generale se ne è aggiunto uno più strettamente cognitivo: cercare di capire, supporre e dunque fare congetture.
Nella sua accezione più generale di “mirare”, nel senso di cercare di fare o ottenere qualcosa senza che il risultato sia in alcun modo assicurato. L’obiettivo è tutt’altro che scontato ed è pertanto richiesta una particolare attività che spesso consiste nella capacità di prevedere gli effetti delle proprie azioni e di sapere anticipare le reazioni altrui. Quest’ultimo aspetto risulta con particolare evidenza in alcuni contesti nei quali Aristotele connette esplicitamente lo stochazein con la capacità di mettersi nei panni degli altri.
L’eustochia svolge un ruolo nella realizzazione della virtù. Più esattamente, il suo compito consiste nell’indicare (in modo rapido e immediato) qual è, di volta in volta, il punto di equilibrio tra i due eccessi. Ancora una volta, ciò che qui mi interessa sottolineare è che si tratta di un processo razionale ma non algoritmico. Non è algoritmico, nel senso che esso non è governato da una regola che ci indichi, sin dall’inizio e una volta per tutte, i singoli passaggi da seguire per trovare la soluzione.
Ma questo non va inteso come se ci trovassimo dinanzi a una misteriosa facoltà o intuizione né a “un’abilità quasi sovrumana a cogliere nel segno”. Tale abilità è per Aristotele uno degli aspetti che caratterizzano l’intelligenza umana, sia pratica sia teoretica. Un’abilità naturale ma non per questo alla portata di tutti: saper prendere la mira e cogliere nel segno. L’eustochia è la facoltà di trovare repentinamente ciò che conduce diritto al fine.
Solerzia come perizia
L’umanista Giovanni Pontano[16], nella sua argomentazione si sofferma sulla peritia, in merito alla quale osserva che essa, in primo luogo, può essere definita anche solertia e chi la possiede è detto solers, mentre il suo contrario sono l’imperitia e l’inertia.
Per il Pontano la peritia/solertia si applica in tre campi: 1) nell’attività concreta, ossia nei diversi mestieri, 2) nell’agire inteso in senso lato, e 3) nell’indole umana. Tale concetto è ben palese nella definizione di solers e del suo corrispondente negativo iners. I solertes sono coloro che sono forniti di un ingegno acuto e sono particolarmente adatti all’amministrazione degli affari; al contrario, gli inertes hanno scarsa intelligenza e sono poco inclini all’agire[17].
Solerzia versus inerzia e accidia
Scrive il domenicano lionese Guglielmo Peraldo[18], vissuto intorno alla metà del XIII secolo e autore di uno dei più diffusi manuali medievali di vizi e virtù, la Summa virtutum ac vitiorum, che un grande esempio di operosità è dato innanzitutto dall’universo intero: in particolare dal Sole, che ogni giorno viaggia da Oriente a Occidente, e ogni notte torna indietro, non concedendosi mai un momento di riposo né in estate né in inverno, senza peraltro aspettarsi alcuna remunerazione per il suo lavoro. Un simile esempio deve indurre – secondo Peraldo – a rendere il vizio dell’accidia sommamente esecrabile.
Affermazione, questa del nostro buon domenicano, se mai ve ne fu una, il cui rovesciamento caratterizza il passaggio dalla scienza antica alla nuova scienza della prima età moderna. Il contenuto più autentico della prima rivoluzione scientifica, che ha preso avvio nel cuore dell’Europa nel corso del Rinascimento, può infatti essere visto come un sostanziale allargamento dell’idea di inerzia. E inerzia è appunto uno dei nuovi nomi che vennero dati, a partire da quest’epoca, al capitale vizio dell’accidia. Il Sole, dunque, è quanto di meno accidioso si possa pensare, con tutta quella fatica del girare di giorno e di notte.
L’antecedente etimologico immediato per la prima è naturalmente il latino classico inertia, formato da in-ars, cioè assenza di arte, di attività, con lo slittamento di significato verso l’idea di non-fare in generale, e quindi inattività, pigrizia, inettitudine.
La solerzia del presbitero
Lo Spirito che «venga a risvegliarci, a dare uno scossone al nostro torpore, a liberarci dall’inerzia! Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli occhi e gli orecchi, e soprattutto il cuore, per lasciarci smuovere da ciò che succede intorno a noi e dal grido della Parola viva ed efficace del Risorto»[19].
Il presbitero deve evitare di vivere un ministero piuttosto scialbo e pieno d’inerzia, stancamente inalveato nell’ordinaria amministrazione e affatto appassionato della causa del Regno.
Vi è un malessere diffuso nella vita delle nostre comunità, quel senso di accidia nei confronti del compito pastorale, che finisce col mettere “il pilota automatico dell’inerzia operativa”. Per riaccendere la passione pastorale occorrono immaginazione, pensiero, discernimento e visione prospettica. Sono le frequenze su cui è sintonizzare le proposte pastorali.
È necessario che ogni presbitero si interroghi: «Che prete desidero essere? Un “prete da salotto”, uno tranquillo e sistemato, oppure un discepolo missionario a cui arde il cuore per il Maestro e per il Popolo di Dio? Uno che si adagia nel proprio benessere o un discepolo in cammino? Un tiepido che preferisce il quieto vivere o un profeta che risveglia nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio?»[20]. Sono un prete che non si scompone, non ha aspirazioni, non ha sentimenti, non ha reazioni?
Cos’è allora l’inerzia, l’accidia? È la passività piena dinanzi al bene da fare. È come se si fosse spiritualmente morti, insensibili. È il non sentirsi coinvolti in niente. È lasciarsi consumare dalla passività. La passività spirituale è brutta, perché l’uomo è fatto di cuore, di sentimenti, di fuoco dentro. Ecco, l’accidia è un fuoco spento che non si riaccende più. È come quel legno consumato un poco dal fuoco; poi si spegne il fuoco, per un poco fumiga e poi basta. Non dà più segni di vita. Quando si cade in questo peccato dell’accidia, tutti i doveri, tutte le obbligazioni, tutto ciò che è responsabilità, è rimandato a domani: lo facciamo un altro giorno. Oggi viviamo così, perché viviamo “bene”.
La solerzia invece è il contrario. La solerzia ci dice che abbiamo cuore dentro, abbiamo dei sentimenti, abbiamo una volontà, una responsabilità. Vogliamo cambiare la storia. Vogliamo cambiare qualcosa nel nostro mondo. Allora uno s’impegna, si adopera. Mette la sua buona volontà, il suo cuore, la sua intelligenza, la sua forza, mette tutto se stesso perché sa che da questa sua operosità può nascere un mondo nuovo. Possiamo fare qualcosa di bene per noi e per gli altri, possiamo cambiare la storia.
Cristo cosa vuole da noi? Non ci vuole passivi, morti, senza passioni, anaffettivi. Dobbiamo avere passioni forti. Conosciamo l’esame di coscienza, nell’Apocalisse, che lo Spirito Santo fa ad una delle Chiese dell’Asia Minore: poiché tu non sei né freddo e né caldo io ti vomito dalla mia bocca, non mi servi. Ecco l’accidia. Se la persona è fredda può essere guarita. Però l’uomo in sé è chiamato a fare qualcosa di santo, è chiamato per vocazione a imitare Dio, perché noi siamo a sua immagine. Ora, imitare Dio significa essere operativi, perché Dio è operativo, non ha ozio, non ha tempi morti. Tutta la vita di Dio è pienezza di amore.
La solerzia ha bisogno di alcune cose molto semplici. Hai bisogno della conoscenza: tu devi sapere a che cosa sei chiamato; hai bisogno della scienza, hai bisogno dell’intelligenza, hai bisogno dello sviluppo mentale. Perché hai bisogno che la mente venga sviluppata. Hai bisogno di crescere in sapienza, in grazia, in santità. Se non sviluppi la mente pur potendolo fare, come fai ad essere solerte nelle cose? Ti manca lo strumento per essere solerte.
Se io vado in campagna per lavorare la terra e non so nemmeno come si maneggia la zappa, posso mettere tutta la solerzia che voglio, ma la terra resterà sempre incolta. Mi manca la scienza, mi manca l’arte, mi manca la virtù che devo apprendere. Oggi si sbaglia perché si pensa che, senza la scienza, senza la conoscenza, senza lo sviluppo dell’intelligenza quando è tempo, dopo possiamo fare le cose bene. Ma non si possono fare le cose bene, dopo, perché manca la preparazione remota, mi manca lo strumento che mi deve aiutare in quel momento particolare.
La preparazione remota va fatta bene. Perché ti sviluppa la mente, ti apre l’intelligenza, ti mette in movimento il cuore, ti fa pensare, ti fa riflettere, ti fa ragionare, ti fa discernere, ti fa comprendere. Lo studio remoto prepara la tua mente e il tuo cuore ad essere abile di fare le cose che tu devi fare oggi. Ecco perché alla solerzia bisogna aggiungere tutte quelle virtù che le consentono di camminare bene, perché senza equilibrio non si può camminare. Le virtù donano forza alla solerzia.
Non lasciamoci sopraffare dall’inerzia e dallo scoraggiamento. Non cediamo all’inerzia di una pastorale alquanto meccanica, routinaria, affaccendata. Urge una coraggiosa proposta su cui confrontarsi e su cui discernere: per chiedersi cosa c’è da potare, che altro c’è da valorizzare, che altro ancora da creare di nuovo.
Che nessuno ceda alla tentazione di cui parla Giacomo Leopardi in una delle più divertenti Operette morali, intitolata “Il Copernico”: «Non è l’ambizione quella che mi muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l’amor della quiete, o per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell’avere uguali o non averne, e di essere nel primo luogo o nell’ultimo, io non mi curo molto: perché, diversamente da Cicerone, ho riguardo più all’ozio che alla dignità».
Il Signore conceda a noi presbiteri d’aver riguardo più alla dignità che all’ozio, ognuno ad essere “pastore solerte”, che arde di quel “fuoco di carità immensa”[21].
[1] SAN TOMMASO D’AQUINO. Summa Theologica. II-II, q.49, a.4.
[2] Cf. J. Pieper, La prudenza, Morcelliana-Massimo, Brescia 1999.
[3] Cf. Summa Teologica, II-II q. 49 a. 1.
[4] Cf. Summa Teologica, II-II q. 49 a. 3
[5] Cf. Summa Teologica, II-II q. 49 a. 4.
[6] Cf. Summa Teologica, II-II q.49 a. 6.
[7] Cf. Summa Teologica, II-II q. 49 a. 7.
[8] Cf. Summa Teologica, II-II q. 49 a. 8.
[9] Cf. Idem, q.49, a.3.
[10] ARISTOTELE. Analytica posteriora. L.I, c.34.
[11] Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae., q.47, a.14, ad 2.
[12] ROYO MARÍN, OP, Antonio. Teología moral para seglares. Madrid: BAC, 2012, vol.I, p.422.
[13] Cf. SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae., q.47, a.13.
[14] Francesco, Discorso alla Curia romana, 21 dicembre 2015.
[15] SANT’IGNAZIO DI LOYOLA. Ejercicios Espirituales. In “Obras Completas”. 2.ed. Madrid: BAC, 1963, p. 203.
[16] Giovanni Pontano è stato poeta, umanista e uomo politico (Cerreto di Spoleto 1429 – Napoli 1503). Cfr. M. Zembrino, Rielaborazione della concezione aristotelica di phronesis nel libro quarto del De prudentia di Giovanni Pontano, in “Spolia. Journal medieval studies”, dicembre/2015, pp. 1-22.
[17] Pontani, De prudentia 1508, IV, f6v = p. 94.
[18] Cf. C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali, Einaudi, Torino 2000, p. 90.
[19] Francesco, Gaudete et exsultate, 137.
[20] Francesco, Discorso alla Congregazione del Clero, 7 ottobre 2017.
[21] Prefazio del rito ambrosiano nella solennità di san Carlo Borromeo.