Benché ampiamente riferita e benché non la prima nel suo genere, la vicenda dei «26 anni di battesimi nulli» (cf. qui su SettimanaNews) merita qualche riflessione in più. I commenti formulati in America sulla vicenda sono stati in genere, con poche eccezioni, molto negativi: non nei riguardi del prete che avrebbe commesso tanto e tale errore (e degli altri per i quali si è scoperta una cosa simile), ma nei confronti di una mentalità legalistica e ristretta che avrebbe considerato una sola sillaba come decisiva, quasi (è stato per esempio detto) che le parole pronunciate fossero la password che fa accedere al computer Dio solo se esatta fino all’ultima lettera.
«Non bisogna poi meravigliarsi», è stato anche detto, «se la gente abbandona in massa la Chiesa»: di fronte, evidentemente, a tanta piccineria e, di rimbalzo, ad un’immagine di Dio così meschina. Crediamo che sia importante prendere sul serio queste reazioni, a volte colme di incredulità e delusione. Prenderle sul serio, intendiamo, anche se esse non dicono ancora nulla sul merito del responso dottrinale che ha dato origine alla vicenda: il fatto che una decisione si riveli impopolare e abbia conseguenze spiacevoli non significa ovviamente che sia sbagliata.
Proprio per questo, mi pare che una delle conseguenze positive che si potrebbero trarre risiede nel riflettere sulla questione specifica sollevata e sul suo contesto. Che insomma la vicenda induca a conoscere e a discutere meglio la forma della teologia cristiana sarebbe davvero un ottimo risultato. Ora, è ovvio che per i cattolici un responso della Congregazione per la dottrina della fede approvato specificamente dal papa non è cosa da prendere alla leggera; c’è chi lecitamente potrebbe anche sostenere che Roma locuta, causa finita, e quindi ora, almeno nel problema specifico, vi è certezza. Ma pure in questo caso conoscere meglio la storia di una vicenda può essere utile: questo può aiutare a comprendere la sua complessità, i suoi valori in gioco, e anche (mi pare) contribuire ad allontanare la facile impressione che tali questioni siano solo piccinerie burocratiche.
Questione medievale
Tra i tanti possibili, il punto su cui vorrei attirare l’attenzione è che il problema specifico su cui verte il responso è una tipica questione medievale, su cui le discussioni sono abbondanti e le opinioni niente affatto concordi e comunque complesse. Iniziamo dall’immancabile nome di Tommaso d’Aquino. Nella nota teologica allegata al responso viene citata l’opinione di Tommaso secondo cui una formula battesimale con il soggetto al plurale, «Nos te baptizamus», non è valida. È vero. Ma il lettore della Summa osserva, con un poco di sorpresa, che Tommaso sembra affrontare la questione per due volte, a brevissima distanza. In realtà ciò avviene perché quel «noi» può significare cose diverse.
Può anzitutto significare che, letteralmente, più persone stanno battezzando un’altra (tutte pronunciando le parole o versando l’acqua). È in questo contesto che Tommaso argomenta che un uomo può battezzare solo in quanto ministro di Cristo e facendo le sue veci: dunque, come uno è Cristo, così uno dev’essere il ministro.
Ma prima di questo problema Tommaso ne affronta un altro, se cioè la formula in sé «Ego te baptizo» sia adeguata. Qui discute l’obiezione che gli apostoli che battezzarono migliaia di persone in una volta sola avrebbero dovuto dire «Nos vos baptizamus». Mentre il «vos» non crea a Tommaso alcun problema, il «nos» significherebbe che vi sono più agenti: ma un atto unico è di un solo agente, se ogni agente agisce «perfettamente» (cioè completamente): ma battesimi parziali sono assurdi. Altrimenti, di fronte al battezzando, «nos» può significare solo «ego et tu»: e qui si supporrebbe che un uomo può battezzare sé stesso, cosa che neppure Gesù ha fatto, facendosi invece battezzare da Giovanni. La formula plurale quindi è falsa, significa qualcosa di inesistente.
In conclusione, sono due i significati in cui la formula plurale viene respinta da Tommaso come invalida: o perché presuppone più persone che battezzano (ripetiamolo: con le parole o il gesto), o perché presuppone che qualcuno stia battezzando sé stesso. Ma potrebbero esistere altri significati che non invalidano questa formula?
Una digressione
Facciamo una digressione e consideriamo insieme con Tommaso la formula «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo e della Vergine Maria». «Palesemente invalida, quasi blasfema!», dicono in coro i giovani uditori di Tommaso. E invece no, argomenta con pazienza lui. La formula è infelicissima, ma tutto dipende da che cosa intenda chi la pronuncia. Se intende dire che Dio è una sostanza in quattro persone, di cui la quarta è la Vergine Maria, non c’è nessun battesimo, perché la formula manifesta una fede che non è quella cristiana. Ma se colui che la pronuncia intende dire che, battezzando una persona nel nome della Santissima Trinità, la affida altresì alla protezione della Vergine Maria, questo è un atto di devozione che si aggiunge al battesimo, ed essendo un’aggiunta non può certo invalidarlo.
È vero che non qualsiasi espressione può manifestare qualsiasi significato, ma è anche vero che l’intenzione può disambiguare parole che possono assumere diversi significati o sfumature. Le parole delle forme sacramentali, spiega Tommaso, non sono come la parola d’ordine che va pronunciata esattamente al portone del castello del conte di Roccasecca per essere ammessi dalle guardie: sono parole che manifestano una fede, e la fede si dirige sempre alle cose intese, non alle parole pronunciate.
È probabilmente anche per questo motivo che sulla faccenda del «noi» Tommaso aveva corretto la sua opinione: all’epoca in cui commentava il Libro delle Sentenze, egli era semplicemente convinto che un battesimo che usava questo pronome plurale fosse nullo perché non seguiva le parole prescritte, ora invece, come abbiamo visto, ritiene che bisogna analizzare il significato per giungere ad una risposta adeguata.
Ma proprio ora arriva in proposito un’altra obiezione di un giovane e brillante fraticello: «Frate Tommaso, ma allora sarebbe valido un battesimo in cui qualcuno dicesse “Noi ti battezziamo eccetera” intendendo dire, certo in modo infelice, ma molto meno di quello che la carità tua ha or ora ipotizzato riguardo alla Vergine Maria, “Io ti battezzo, alla presenza di questa comunità alle cui preghiere ti affido, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”?». Purtroppo il foglio su cui venne trascritta quest’ultima parte della discussione è andato perduto e non conosciamo quindi la risposta.
La questione resta aperta
È facile immaginare che la posizione di Tommaso sia stata molto influente: ma non chiuse certo la questione. Spostiamoci un quarto di secolo avanti, in ambito francescano, con Riccardo di Mediavilla (un nome oggi sconosciuto ai più, ma all’epoca lettura obbligatoria di ogni teologo degno di questo nome).
Il suo punto di partenza è abbastanza semplice: ciò che è «necessario» nel battesimo può intendersi in due modi: o necessario rispetto al sacramento, o rispetto al ministro. Violare la prima necessità significa rendere nullo il sacramento, violare la seconda (intenzionalmente e senza ottimi motivi) significa sì peccare, ma non invalidare un sacramento. Ora, Cristo ha comandato il gesto (il battesimo con l’acqua) e il riferimento alla Trinità: ma non ha detto nulla del ministro, né del modo in cui eventualmente andava espresso nel battesimo.
Ciò è tanto vero che i Greci non lo nominano affatto, usando la formula passiva «il servo di Dio sia battezzato» (una formula che anche Tommaso, almeno all’epoca della Summa, conosce bene). È immaginabile, per esempio, che più persone siano fisicamente necessarie per immergere un bambino nell’acqua, e non si vede perché questo dovrebbe rendere invalido il battesimo. Insomma, argomenta Riccardo: «il modo di esprimere l’atto del battesimo e l’espressione della persona del ministro non sono necessari per l’efficacia del sacramento, dato che derivano dalla tradizione della Chiesa. Dunque non si vede perché dovrebbe essere incompatibile con l’efficacia del sacramento il fatto che un bambino sia immerso da più persone». E in questo caso, il «noi» significherebbe semplicemente «io e lui», non un assurdo «io e te».
L’unica cosa che per Riccardo di Mediavilla impedirebbe l’efficacia sarebbe il fatto che colui che pronuncia queste parole non battezzi pure: allora sarebbe in gioco una finzione. Tutto ciò comunque non significa affatto per Riccardo che la Chiesa sia trascurabile nell’amministrazione dei sacramenti: non solo allontanarsi dalla sua tradizione senza ottimi motivi è un peccato, ma, egli spiega ai suoi fraticelli, l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa è un criterio fondamentale che aiuta a risolvere i casi dubbi. Questo vale anche quando alcune parole vengano aggiunte, tolte, o corrotte: se il significato rimane, almeno secondo una comprensione «accomodata», e questa modifica non avviene per malizia o derisione, la virtù del battesimo non viene certo impedita.
Sicuramente questa linea più tollerante aveva anche precedenti importanti. Per esempio Innocenzo II nel XII secolo aveva ingiunto di abbandonare ogni scrupolo nei confronti di un prete che dopo la morte si era scoperto non essere stato mai battezzato (il brano è riportato anche nell’ultraortodossa prima edizione del Denzinger): secondo la dottrina di Agostino, replica il papa, Cristo stesso lo aveva invisibilmente battezzato!
È una questione non identica a quella che discutiamo, ma certamente analoga e forse anche più decisiva, in cui il ruolo di Cristo come colui che «battezza in Spirito Santo e fuoco», su una linea appunto agostiniana, viene invocato per supplire alle mancanze umane, non per dichiarare queste motivo di nullità. Comunque stiano le cose, la posizione francescana di Riccardo di Mediavilla ebbe anch’essa una storia della recezione importante.
All’inizio del Quattrocento Dionigi il Certosino, dopo aver esaminato con attenzione (ovviamente certosina) la storia della questione del «noi battezziamo», costaterà sobriamente dalla sua cella: «In tale questione, alcuni pensano in un modo, altri in un altro, alcuni aderiscono ad un’opinione, altri all’altra». E alla fine non prende posizione: la questione resta evidentemente per lui tutta aperta.
Lo sforzo di comprendere la fede
Termino qui i rapsodici esempi tratti dal mio amato Medioevo. È ovvio che la loro scelta, e anche il modo con cui li ho elaborati, inclina verso una posizione diversa da quella espressa dal responso elaborato dalla Congregazione per la dottrina della fede e approvato dal papa. Una selezione diversa avrebbe portato in altra direzione; come si può immaginare, il materiale è così ampio che potrebbe essere il tema per una bella tesi di laurea.
Ma ciò che credo sia importante mantenere è che le questioni in gioco sono reali e importanti: non si tratta banalmente di riconoscere che è Cristo che agisce nei sacramenti (come hanno detto alcuni dei, pochi, sostenitori del responso), né di liberare la fede da una stupida mentalità burocratica (come hanno detto alcuni dei, molti, critici del responso). In gioco c’è, se vogliamo dirlo in termini molto generali, lo sforzo di comprendere la fede e le sue manifestazioni: uno sforzo che, benché in un certo senso connaturale ad ogni credente (che cosa sarebbe una fede per nulla compresa?), è anche il terreno proprio di quella strana disciplina, spesso guardata con sussiego, che si chiama «teologia».
Il fatto che i ragionamenti che abbiamo citato in fondo siano più filosofici che tipicamente teologici non cambia la situazione: ragionar filosoficamente dei contenuti della fede è appunto un modo di far teologia. Certo: come argomentava più o meno Giovanni Duns Scoto (un altro grandissimo medievale), la teologia non serve per andare in paradiso, e coloro che fanno teologia spesso hanno meno fede di tutti gli altri: ma si tratta ciononostante di un servizio utile alla fede.
In casi come quello che abbiamo esaminato, poi, l’intreccio è difficile da districare: il battesimo è il primo grande rito della fede, semplicissimo, che fa appello ad un immaginario antropologico universale, che non dovrebbe avere bisogno di nessun ragionamento e nessuna spiegazione per chi ha incontrato la parola del Vangelo. Ma come uscire fuori dai casi dubbi se non ragionandoci? Si potrà lecitamente protestare contro le sottigliezze e pure contro la mentalità binaria, ma ci sono casi in cui si è costretti ad esaminare tutto con attenzione e alla fine pronunciare un sì o un no.
Postilla
C’è però un ulteriore aspetto che occhieggia da dietro la questione, che, a mo’ di postilla, vorrei citare.
Ricordare le discussioni medievali al proposito è perfettamente sensato purché non si dimentichi una differenza fondamentale rispetto ad oggi: la maggior parte dei casi discussi erano puramente ipotetici, escogitati allo scopo di comprendere meglio le cose, se non addirittura proposti a mo’ di sfida dagli studenti (è facile immaginare il loro divertimento, per esempio, quando a bruciapelo domandavano, ad un Enrico di Gand che osava sottoporsi al rito pubblico delle Quaestiones quodlibetales, se fosse lecito, quando un bambino era in pericolo di vita e non c’era altra acqua che quella in fondo a un pozzo, battezzarlo lanciandolo nel pozzo).
È ben possibile, insomma, che nessun prete si fosse mai sognato di dire «Noi battezziamo»: se il naturale istinto rituale dell’uomo non bastava, classificare tutte le variazioni intenzionali dai testi tradizionali come peccaminose era un deterrente efficace, se non contro la sciatteria (che sappiamo ben presente), almeno contro gli slanci di fantasia.
E oggi? Un responso della Congregazione per la dottrina della fede che ha giudicato una certa formula «invalida» ha provocato un terremoto: ma che cosa sarebbe accaduto se l’avesse dichiarata (nella linea per esempio di Riccardo di Mediavilla) «valida, ma illecita»? Non è difficile immaginare che non sarebbe accaduto assolutamente nulla: i «battesimi noi» sarebbero continuati esattamente come prima, forse ancora più di prima, incoraggiati dalla validità loro riconosciuta: un responso che sarebbe valso quindi ancor meno del semaforo rosso che a Napoli non è un divieto, «ma solo un consiglio», come diceva Luciano De Crescenzo.
Che mutare le parole dei sacramenti non sia «lecito» lo sanno tutti, ma questa illiceità viene ampiamente ritenuta irrilevante se non controproducente, di fronte ad esigenze percepite come più urgenti, più decisive, più umane. E questo spalanca un altro campo di problemi, completamente diversi da quelli di cui prima abbiamo offerto qualche spunto. Forse, sforzandosi di comprendere tutte le diverse e lecite sensibilità in gioco, non sarebbe male che anche su questo si cominciasse, appunto, a ragionare.
Negli Stati Uniti la vicenda ha suscitato un dibattitto di cui segnaliamo qualche traccia:
- Aaron Milavec, «Invalid Baptisms? How a US bishop made a mountain out of a molehill», 2 marzo 2022 (qui).
- Kimberly Roland, «Would Jesus care about the Phoenix priest’s baptismal mistakes?», 28 febbraio 2022 (qui).
- Auguste Meyrat, «One Small Word, So Many Souls», 1 marzo 2022 (qui).
- Charles Pope, «What’s Wrong With ‘We Baptize’ and Other Liturgical Abuses», 28 febbraio 2022 (qui).
Al di là dell’approccio medievale, che lei caro Giovanni Salmeri mostra con chiarezza in questo articolo, quella che a me colpisce di tutta questa triste vicenda è l’analfabetismo liturgico del popolo di Dio. Possibile che nessuno si sia accorto di questa “problema” in 26 anni? La cosa è davvero strana e alquanto bizzarra. Possibile che nessun fedele che abbia partecipato a questi battesimi abbia detto: “A me pare che ci sia qualcosa di particolare”? Questa vicenda mette in questione davvero il grande analfabetismo liturgico del popolo di Dio al di là dell’opinione di diversi liturgisti che qualche anno fa dichiaravano che la riforma liturgica del Vaticano II era quella più riuscita.
Caro Fabio, la domanda che poni mi pare molto appropriata (anche se, onde evitare di incorrere nelle giuste ire dei liturgisti, precisiamo che avere una sensibilità o una formazione liturgica è molto più che accorgersi che è stata mutata una parola, ovviamente). La mia ipotesi è questa: se qualcuno in 26 anni lo ha fatto osservare, probabilmente l’interessato ha potuto rispondere in maniera, se non giusta, almeno verosimile: che il «noi» sottolineava di più il valore comunitario, che la validità di un sacramento non dipende da una parola, che comunque nel 2003 la Congregazione per il culto divino aveva assicurato che nel battesimo la formula con il «noi» era valida, che possibilità di adattamento e creatività nella liturgia sono uno degli aspetti principali della riforma liturgica, eccetera. Tutte cose vere, almeno *quodammodo*. L’ultimo motivo in un certo senso mi pare quello fondamentale, ma anche il più difficile da discutere, e temo che l’«analfabetismo liturgico» (dei laici e dei preti) possa essere inteso in maniere diverse e anche diametralmente opposte. È analfabeta chi non segue i libri liturgici? oppure chi non capisce la necessità della creatività e dell’adattamento?
Adattare la liturgia alla situazione concreta può essere cosa giusta e doverosa, ma tra tutte le cose che si potevano cambiare perché mettere le mani proprio sulla forma sacramentale? Mi sembra un po’ un comportamento da ‘prete padrone della liturgia’
Senza voler sembrare tradizionalista o peggio, una certa creatività e un certo adattamento sono più che legittime, ma vanno spiegate. Per me l’analfabetismo è totale – e sottolineo totale – inconsapevolezza di quello che si sta facendo (la liturgia come dice la parola stessa è azione). Tale consapevolezza passa pertanto anche necessariamente – ma non esclusivamente!!! – dal rispetto dei libri liturgici. Faccio un esempio. Se due sposi al momento del matrimonio hanno dei figli e anche grandi, mica possono dirsi: “Noi accogliamo te…” (il noi è riferito al nubendo e ai figli che sono arrivati). Chi sta sposando non sono i figli!! La cosa paradossale a mio avviso è questa: si parla tanto della nullità di certi sacramenti, ma non si parla mai della nullità del sacramento dell’ordine, come se tutti i vescovi conoscessero appieno il presbitero che viene ordinato. In questo caso molti, se non tutti i liturgisti (guarda caso sacerdoti), dicono: “Supplet ecclesia”. Due pesi e due misure: che stranezza!!!
Analfabetismo liturgico dovuto alla scarsa catechesi sui Sacramenti, che (almeno nella mia modesta esperienza) spesso si limita alla loro enumerazione e a pochi altri dettagli e a una diffusa credenza che i Sacramenti siano “roba del prete” e che quindi i laici non abbiano il dovere e il diritto di conoscere i riti e il loro significato, e che essi non possano criticare i chierici quando modificano arbitrariamente parole e gesti.
Se a un matrimonio chi lo celebra (sacerdote o sindaco) invece di dire Io vi dichiaro marito e moglie dicesse Noi vi dichiariamo marito e moglie, sarebbe valido?
Se in confessione il prete invece di dire Io ti assolvo dicesse Noi ti assolviamo sarebbe valido? Quello che è inquietante in questa storia è che tanta gente non riesce più a capire e ritiene legalismo quello che invece è la sostanza della formula sacramentaria. Questo significa non avere più alcuna vera fede nei sacramenti nei quali secondo tanti le parole non contano e si possono cambiare a piacere.
> Se a un matrimonio chi lo celebra (sacerdote o sindaco) invece di dire Io vi dichiaro marito e moglie dicesse Noi vi dichiariamo marito e moglie, sarebbe valido?
Le cause che impediscono un matrimonio civile sono elencate negli artt. 84-89 del Codice Civile; quelle che lo rendono impugnabile sono negli artt. 122-124. In nessuno di questi articoli si parla delle parole esatte pronunciate dall’Ufficiale dello stato civile: quindi sì, sarebbe valido. Se il matrimonio è religioso, le parole pronunciate dal sacerdote (o dal diacono) che assiste sono (almeno per il rito latino) completamente ininfluenti per la validità; conta invece solo che i due sposi manifestino il loro consenso: secondo il can. 1104 del Codice di Diritto Canonico il consenso deve essere espresso a parole o, se gli sposi non possono parlare, con segni equivalenti; riguardo alla validità nulla viene prescritto sulle parole esatte da pronunciare o sui gesti esatti da compiere (il rito attuale italiano prevede comunque diverse formule tra cui scegliere). Quindi, anche in questo caso, sì, sarebbe certamente valido (a meno che non vi siano altri impedimenti dirimenti, ovviamente).
> Se in confessione il prete invece di dire Io ti assolvo dicesse Noi ti assolviamo sarebbe valido?
Il problema è analogo a quello del «Noi battezziamo», ma è stato discusso molto meno nella storia della teologia cristiana. Le opinioni positive sulla validità comunque non mancano, fino all’età contemporanea.
Io credo che sia giustissimo ricordare e ripetere che «le parole sono importanti, chi parla male pensa male e vive male»: però da questo la tradizione cristiana (almeno quella cattolica, che in ciò conosco meglio) non ha mai, che mi risulti, dedotto semplicemente che qualsiasi variazione nelle parole dei sacramenti comprometta la loro validità. Tra gli effetti negativi della vicenda del «noi battezziamo» mi pare che ci sia stato il fatto che diversi commenti hanno identificato il responso della Congregazione per la Dottrina della fede con questa conclusione che, ripeto, non mi pare sia stata mai sostenuta, né in tempi antichi né recenti (e neppure la Congregazione sostiene, qualsiasi cosa si pensi del caso specifico che ha affrontato).
Se c’è una comunità che prega, i genitori, il padrino, la madrina… anche se il sacerdote dice parole sbagliate o per assurdo finge, il sacramento è valido. Perché? Per buon senso, perché Dio è onnipotente.
E se vogliamo metterla dal punto di vista più dogmatico, se esiste la concezione teologica del “Supplet Ecclesia”… si insegna in teologia comunemente che se uno va a confessarsi, senza saperlo, da uno che ascolta la confessione fingendo di essere sacerdote, la confessione è comunque valida perché gli straordinari meriti di Cristo e dei Santi suppliscono: “Supplet Ecclesia” appunto.
Andrebbe ricorretta la teologia tradizionale inserendo anche la comunità celebrante e la persona che riceve il sacramento nell’equazione, non solo il sacerdote e le parole che dice. Ovvero una formula può essere invalida o illecita, la materia del sacramento difettosa, ma quando c’è la sincera fede dei presenti, ameno una parte di essi, il sacramento, qualsiasi sacramento è valido.
Inoltre si parla già di “ex opere operato” per giustificare la validità del sacramento operato da un ministro indegno.
Non si capisce perciò come questa misericordia divina che supera gli ostacoli non possa spingersi a mettere una pezza anche dove le parole sono sbagliate.
Ma da cosa si può dimostrare che il ministro e la comunità avevano una fede sincera e giusta? Dalle parole e dai gesti esteriori, che ci danno un indizio sulla fede e le intenzioni dei presenti. Per questo i concetti di materia e forma servono.