La costituzione apostolica Praedicate Evangelium è un lavoro magnifico, caratteristico di un artista o di un’équipe di artisti, attenti alla raffinatezza dei particolari. È tutt’altro che un’opera raffazzonata.
Questa prima impressione non sorprende, tenendo conto dei nove anni che ci sono voluti per elaborarla e – ritengo – degli innumerevoli ritocchi ed emendamenti, alcuni dei quali avvertibili nell’incrociarsi dei linguaggi che attraversano il testo dall’inizio alla fine: teologico, ecclesiologico, spirituale, pastorale e, soprattutto, a partire dal capitolo terzo, quello giuridico e organizzativo.
Chi lo legge troverà un testo molto ben ponderato e così ben formulato da poter affermare – esagerando – che non manca né che è superflua una sola virgola (per il testo cf. qui su SettimanaNews).
Un linguaggio insolito
Si tratta di un documento che vi consiglio di esaminare con calma, soprattutto i capitoli primo (Preambolo) e secondo (Principi e Criteri).
Già nel numero con cui inizia il Preambolo affiorano alcune verità che, di fatto, finora non sono state molto usuali nei vari ambiti teologici, spirituali ed ecclesiali: la predicazione del Vangelo del Figlio di Dio, Cristo Signore, passa attraverso la testimonianza – con la parola e con le opere – della misericordia – che la stessa comunità cristiana ha ricevuto gratuitamente –, sull’esempio del nostro Signore e Maestro, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Ciò significa che la Chiesa è chiamata a inserirsi nella vita quotidiana degli altri, accorciando le distanze, assumendo la vita umana e toccando la carne sofferente di Cristo nella gente. Ed è così che il popolo di Dio adempie al mandato del Signore che ci invita a prenderci cura dei fratelli e delle sorelle più deboli, malati e sofferenti.
Lo stesso si deve dire dei passaggi riguardanti la conversione missionaria di tutta la Chiesa, mistero di comunione; o la sinodalità, vissuta e intesa come «ascolto reciproco» tra «il popolo fedele, il collegio episcopale e il vescovo di Roma». Sulla stessa linea, i singoli vescovi di cui si dice che rappresentano le loro rispettive Chiese «e tutti, insieme con il papa, rappresentano la Chiesa universale in un vincolo di pace, amore e unità» (n. 6). E questo si può dire anche delle Conferenze episcopali quando il testo sostiene che esse costituiscono attualmente uno dei più significativi mezzi di espressione e di servizio alla comunione ecclesiale e che è necessario accrescere la loro potenzialità. Nei loro riguardi, si sottolinea che la curia vaticana non deve «fungere da interposizione» (n. 9) fra il romano pontefice e i vescovi, bensì come servizio (n. 8).
Devo dire che è stato per me particolarmente piacevole leggere tutti questi punti (e altri di analoga rilevanza); diversi dei quali sono stati oggetto di non pochi dubbi e di contorte reinterpretazioni nel post concilio.
Ma, lasciando ad altro tempo un’analisi più approfondita, vorrei offrire un commento urgente su due punti emersi leggendo questa costituzione apostolica: il primo riguarda la capacità di governo e di magistero dei laici e il secondo (sul quale interverrò in seguito) la riforma della curia vaticana e il suo stretto legame con ciò che papa Francesco intende e promuove quando parla di «conversione del papato».
Per superare l’«infarto teologico» della sinodalità
Ho l’impressione che i commenti al numero 10 del Preambolo e al numero 5 della sezione riguardante i Principi e Criteri provocheranno fiumi di inchiostro. Anzi, tali commenti stanno già apparendo, senza essersi dati il tempo di una lettura più pacata dell’intera costituzione.
Nel numero 10 del Preambolo, papa Francesco sostiene che la riforma della curia deve «prevedere il coinvolgimento dei laici, anche in ruoli di governo e di responsabilità». Una tesi sorprendente sottolineata più avanti, al numero 5 della sezione dedicata ai «principi e criteri», dove il testo afferma che «qualunque fedele può presiedere un Dicastero o un Organismo», tenuto conto che «ogni Istituzione curiale adempie la propria missione in virtù della potestà ricevuta dal Romano Pontefice in nome del quale opera con potestà vicaria nell’esercizio del suo munus primaziale».
Si tratta – come si vede – di un’affermazione chiara e forte su cui, tra gli altri, si sono incaricati di fare chiarezza Gianfranco Ghirlanda, professore emerito della Facoltà di diritto canonico della Pontificia Università Gregoriana; il card. Marcello Semeraro, attuale prefetto della Congregazione per le cause dei santi, e il segretario del Consiglio cardinalizio, Marco Mellino.
È fuor di dubbio – ha spiegato G. Ghirlanda – che è un bene che ci siano laici nei Dicasteri come quello dei Laici, la Famiglia e la Vita. Ma non si può ignorare che questa costituzione apostolica non abroga il Codice di diritto canonico quando stabilisce «che i chierici devono decidere sulle materie che riguardano il clero». Tale sarebbe il caso dei Dicasteri dei vescovi, dei sacerdoti e del culto, sollecitati ad avere a capo di essi dei ministri ordinati.
Questa osservazione, come si dirà più avanti, non pregiudica la tesi centrale della nuova costituzione apostolica («i laici hanno lo stesso potere vicario delle persone consacrate»), ma attira l’attenzione sulla necessità di articolare «l’uguaglianza fondamentale tra tutti i battezzati» con la «distinzione e complementarietà».
La posta in gioco
Cos’è in gioco nell’affermazione pontificia sul coinvolgimento dei laici nelle funzioni di governo e di responsabilità e nelle sfumate considerazioni, soprattutto, di Gianfranco Ghirlanda?
In breve: riguardo alla questione del plus di potere che viene conferito al battezzato mediante il ministero ordinato, immagino che papa Francesco voglia aprire – come gli piace dire – un «processo» su questo cosiddetto plus di potere, riservato, finora esclusivamente, al ministero ordinato sia nel governo sia nel magistero della Chiesa. E penso che lo voglia fare partendo da una massima che, tradizionale nella Chiesa, è stata a lungo dimenticata: «ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti», non solo dai ministri ordinati: vescovi, sacerdoti e diaconi.
Sarà necessario discutere e, naturalmente, aggiornare debitamente, l’appropriazione del «potere» nella Chiesa da parte del ministero ordinato. E dovremo addentrarci in questo percorso, rimuovendo tale «potere» dal suo quadro tradizionale di comprensione e di esercizio, assolutista e autoritario, a favore di una modalità corresponsabile e sinodale.
In concreto, credo che ciò voglia dire che occorre offrire spiegazioni, teologicamente e dogmaticamente fondate, sul perché uomini e donne laici possono intervenire nel governo e nel magistero della Chiesa per «partecipazione» all’autorità o al potere del ministero che, cristologicamente, è proprio dei ministri ordinati: è il Signore – si sostiene da secoli – che li «sceglie e designa», affidando loro «dall’alto» i compiti che, «riconosciuti e adempiuti» nel suo nome, competono esclusivamente ad essi, grazie al sacramento dell’ordine. Perciò ai laici – e, in particolare, al ministro laico – spetta solo di «collaborare più direttamente all’apostolato della gerarchia», chiarendo bene che il loro compito «non deve comprendere ogni ambito».
A partire dal sacerdozio di Cristo
Diversamente da questa interpretazione tuttora molto usuale, anche negli ambienti ecclesiali progressisti, nel Vaticano II, assieme a questo modello di appropriazione della radice cristologica della ministerialità (e dell’ecclesiologia e, di conseguenza, del modo di governo che essa sponsorizza), ne esiste un altro, che fonda la «partecipazione» dei laici alla direzione della Chiesa non nel ministero ordinato ma nel sacerdozio di Cristo (LG 10).
Pertanto, la nozione di «partecipazione» ha due significati: o come dipendenza dei laici dal clero in un’ecclesiologia gerarchica, o come articolazione strutturata all’interno di una partecipazione congiunta – corresponsabile e sinodale – di tutti i battezzati (compresa quella differenziata dal sacramento dell’Ordine) nella triplice funzione della celebrazione, dell’insegnamento e anche del governo.
Nel Vaticano II troviamo un doppio modello ecclesiologico, ministeriale, magisteriale e governativo: uno, gerarchico e segnatamente clericale; un altro, molto promettente, quando chiarisce il fondamento cristologico dei tria munera (parola, santificazione e governo) e, concretamente, il sacerdozio comune dei fedeli: questo non è per partecipazione del sacerdozio ministeriale bensì del sacerdozio di Cristo.
Com’è noto, nel periodo postconciliare abbiamo assistito ad uno stallo – e alla successiva dimenticanza – di questo secondo modello. È ciò che prima ho definito «infarto teologico» del Concilio Vaticano II, dal momento che risulta più importante la «collaborazione» con il ministero ordinato che la «partecipazione» al governo e al magistero («regalità»), conferita da Cristo nel battesimo.
Avviare processi
L’esperienza delle équipe ministeriali della diocesi di Poitiers (1994-2011), in sintonia con molte chiese del Terzo Mondo, continua a fare riferimento allo sviluppo postconciliare di questo modello. E, con esso, ad una necessaria revisione dell’identità e della spiritualità del ministero ordinato che, in quell’occasione, fu caldeggiata da Christoph Theobald e poi silurata, nelle sue implicazioni e conseguenze organizzative, durante il pontificato di Benedetto XVI; di certo, con la sua acquiescenza.
Ma questo è un vento dello Spirito molto difficile da placare; e, più ancora, da far tacere. Lo testimonia, ad esempio, la recente nomina di un laico, di una religiosa e di un diacono a «rappresentanti del vescovo» (i «vicari») nei cosiddetti «territori pastorali» (le vecchie «vicarie») nelle diocesi svizzere di Losanna, Friburgo e Ginevra su iniziativa del loro arcivescovo, Charles Morerod; un perfetto anticipo penso – perché non gli è mancato il coraggio evangelico – di questa costituzione apostolica. Almeno su questo punto.
C’è una seconda questione di fondo che la lettura di questo testo mi pone davanti e che lascio ad un altro momento: fino a che punto questa riforma della curia è – in sintonia con la «conversione del papato» auspicata da papa Bergoglio – più corresponsabile che collegiale o primaziale?
Prevedo già che Francesco stia facendo dei passi in questa direzione, ma, a mio parere, si tratta di un «processo» che, a seconda di come lo si guarda, è percepito come molto lento, troppo collegiale e poco corresponsabile; almeno da buona parte dei cristiani dell’Europa occidentale. Per altri settori ecclesiali, invece, può risultare eccessivo.
Comincio a sospettare che si tratti di un compito che supera il papato stesso e che, in prospettiva, dovrebbe portare alla convocazione e alla celebrazione di un Concilio Vaticano III per affrontarlo. Sarebbe l’unico modo per prendere in considerazione e affrontare la minaccia di scisma che le minoranze ecclesiali amano ventilare.
Articolo sicuramente interessante, in alcune sue parti condivisibile dal mio punto di vista. Tuttavia a me pare che ci siano luci e (alcune) ombre nel testo della Costituzione apostolica.
Predicate Evangelium è una riforma minima. Sono misure che vanno nella giusta direzione, ma spostandosi di una distanza impercettibile. Come dire: il bisogno della Chiesa per un cambiamento significativo sarebbe 1 km e noi facciamo 10 metri. Dovremmo essere contenti? Questo discorso dei processi che si creano a piccoli passi è una sciocchezza. Non vi è alcun cambiamento significativo nella gestione del potere clericale, non vi è l’introduzione di nessun organo di controllo nè di un dovere di trasparenza o, come si dice in gergo “accountability”. Intanto la gente, stufa di questi maquillages inconsistenti, continua a subire ingiustizie e ad allontanarsi dalla chiesa. Un documento come questo conferma tutte le preoccupazioni di coloro che evidenziano cause sistemiche degli abusi e una istituzione difficilmente credibile e che continua a non voler attuare una reale riforma.
https://www.adista.it/articolo/67741
Esatto!!